Anatomia poetica della categoria inquisitoria

Cautio criminalis è l’ultima fatica letteraria di Alfonso Malinconico

Pagine e versi che travalicano di passione umana. Pagine e versi su cui ripetuti conati di dolore incontenuto e incontenibile si spargono e travolgono la forte fibra del cuore e della mente e l’audacia poetica ne esce talora infranta e trova umano rifugio nella prosa. Animo smarrito dagli strazi e che pure si ritrova, ancora fermo nel cimento. È questa Cautio Criminalis. Opera di dolore in più punti artisticamente spezzata. Opera in cui il temprato avanguardismo poetico diventa strumento e forma non adeguate e non adeguabili a quanto l’artefice delle parole vuole comunicare empaticamente e vuole raggiungere moralmente. Iato che rimane denominatore comune spesso nella storia letteraria fra la volontà di portare a conoscenza su fatti di radicale “empietà” umana e di carnevali di sangue e l’operazione poetica in cui il ruolo e i pesi a cui soggiace l’animo del cantore si traducono e risultano strazi che lo piegano entro la dimensione del dolore che tutti atterra, che irrompe e impasta la tensione e la gravità e le immagini delle parole. Qui sta proprio la purezza del sentire, e del sentire poetico, del condividere, del farsi carico. Del farsi carico il poeta e il giudice delle colpe di vittime di macchine terrifiche e della loro morte. Delle colpe dei persecutori e dei comminatori e dei “committenti” di pene, gongolanti e adontati del loro sapere teologico, giuridico, scientifico. Colpe inespiabili in questo mondo, ieri come oggi, ovunque. E al contempo, senza tempi storici, letterale experimentum crucis del giudice, del facitore di versi, dell’uomo. Pagine e versi che affondano e scandagliano tra le pieghe della storia, a trarre fuori con le unghia dall’oblio, scarnificando le dita a lavorare la pietra che schiaccia, copre, rabbuia per sempre, e qui non sacralizza, a strapparle lembi e nervi, fatti e nomi. Per ridare attimi di colorito ai volti e di vita, prima dei supplizi, delle ruote, degli squartamenti, del fuoco. Prima della loro irreversibile polverizzazione e mineralizzazione. A dar vita a pagine fitte di cultura giuridica, di atti, di accuse, di procedure in cui la sovranità della legge non esiste, l’autonomia della funzione giudicante si imbestialisce. Ambedue puro strumento del dispotismo e dell’onnipotenza della sfera fideistica e della sua assolutizzazione in preminenza dottrinaria, teologica, religiosa che in maniera immonda per oltre quindici secoli ha impresso sigilli truculenti alla nostra storia. I cinque poemetti raccolti da Alfonso Malinconico in questa Cautio Criminalis (collana Sassifraga delle edizioni Empirìa, Roma 2006, con prefazioni di Anna Foa e di Francesco Muzzioli, pp.121, € 12,00) rappresentano una purificatrice discesa negli inferi della demonologia e della stregoneria, dei decreti e dei processi relativi ad alcuni avvenimenti accaduti nell’Italia cattolica fra Sei e Settecento e nella Nuova Inghilterra (USA) protestante di fine Settecento. Personaggi storici sempre, come vittime e come carnefici, come testimoni delle vittime e nemici degli strumenti giudiziari e della stessa categoria di ciò che è stregoneria (per molti probabilmente in maniera inaspettata), anche fra esponenti del clero e addirittura fra gesuiti. Nulla di cui anticipare con precisi nomi, compresi quelli delle ragazzine di Salem e i rivoli di sangue ambrosiani dell’età di Carlo Borromeo. Nulla di cui anticipare di più, se non invitare a scendere in una catartica ma non escatologica lettura e in approfondimenti storici, giuridici, psicologici che con mano maestra sono condotti da un poeta di lungo corso di fine e sperimentata esperienza avanguardista non meno che critica, da cui l’animo di ogni lettore non potrà che uscire all’inizio fortemente stordito, come lo stesso autore testimonia con la qualità e le particolarità della sua poesia. Non psicodramma guidato: tragedia, in immersione totale e autonoma, dalla tortura allo scannamento. Per capire e ricordare sempre che questa è storia. E storia scesa da pulpiti rapiti d’ebbrezza d’amore divino, e non solo strumentale sua utilizzazione. Che di dio e della natura hanno fatto non meno scempio delle carni delle vittime, per secoli, fra incensi e mirra e de profundis. Per ricordare e mai dimenticare a quale grado di abiezione arriva la natura umana, non di meno quando l’uomo proclama la sua fallibilità il suo inclinare al male la sua salvazione per opera della grazia. E senza mai dimenticare, cattolici e cristiani, che la loro fede è nient’altro che un incanalamento di puri accadimenti storici. Di fronte ai quali quelli di altri cristiani come Pelagio avrebbero potuto condurre per altre vie. Forse meno o per nulla abiette nella dimensione dell’esercizio del potere teocratico, che non sarebbe neppure potuto esistere. Cose però che sono rimaste sepolte nella dimensione di una trascorsa e trascolorata virtualità, e che pertanto non potremo mai sapere. Rimane soltanto quanto realmente accaduto dal medio evo all’età moderna. Quanto il dolore straziante dei versi di Alfonso Malinconico comunica al nostro animo e rende edotta la nostra coscienza su avvenimenti non ristretti ad eruditi. Che tutti dovremmo conoscere. Più che duplice, dunque, l’aspetto meritorio della sua sensibilità etica e della sua opera poetica.


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