Nasce l’Europa della Libertà. La grande sfida politica e culturale di Domenico Cambareri e Gino Ragno

13 Ottobre 2008

Rita Bittarelli

(fonte: Parvapolis)

Nasce l’Europa della Libertà

La grande sfida politica e culturale di Domenico Cambareri e Gino Ragno

È online il sito L’Europa della Libertà (www:europadellaliberta.it), da cui vien fuori che un gruppo di intellettuali e professionisti italiani, con Domenico Cambareri e Gino Ragno vuole guardare al progetto del futuro nazionale ed europeo in maniera più concreta e fondata, ma anche con una forte carica ideale, e al contempo senza rinunciare a fare definitivamente i conti con le “storie” sospese della nostra storia di metà secolo scorso, senza nulla avere, senza nulla dovere rinnegare, visto che i più seri antifascisti sono i primi a voler mettere fine a discorsi demagogici e di puro comodo. Quindi, nel recupero inegrale della storia italiana, senza fratture, nel pieno riconoscimento non solo dei “motivi” dei giovani di Salò, ma anche dei tantissimi antimusssoliniani che accorsero al Nord soltanto per l’onore della Nazione in guerra e non per motivi ideologici. Le motivazioni dei vinti sono fortissime, come fortissime sono le colpe dei vincitori.
Non possiamo accettare la tesi hegeliania e marxiana che la storia è fatta solo di opposti, l’idea crociana dei distinti costituisce un arricchimento e un contributo ulteriore anche se non bastevole. Ugualmente, non possiamo non riconoscere validità al ruolo svolto dall’ideologia socialista, ma esso fu non bastevole e non adeguato nelle idee e nella prassi. Comprendiamo le grande passioni delle lotte delle plebi proletarie e contadine, ma la guida di essa si mosse rigidamente entro un contesto monoclassista che ebbe solo a tradursi da un lato in una sconfitta delle posizioni massimaliste, dall’altro in una più propositiva azione di riforma entro l’ottica del lungo percorso che ebbe però scarse possibilità di incidere concretamente. Più adeguate, ma quasi prive di riscontro, furono le idee più aperte alla riforma al di fuori della lotta di classe espresse nel solco mazziniano. Di esse non cancelliamo la memoria. Allo stesso tempo, non possiamo disconoscere come il ruolo svolto dalle élite borghesi abbia prodotto un lungo e quasi ininterrotto periodo di accrescimento di tutto l’Occidente e poi del resto del mondo, arrecando benefici imprevedibili in qualità e quantità ai ceti subalterni. Ma ciò avvenne entro un’ottica classista e di selezione biologico-sociale all’interno dei singoli popoli che è perdurata nei modi più ovattati.
Il fieri della dinamica storica oggi consente a questo dato peculiare e nazionale e sociale di potersi porre nuovamente al centro della luce del sole, senza paure di recriminazioni, senza tentennamenti, senza illogiche, immotivate, demagogiche, strumentali, servili abiure.
Abbiamo visto come ancora in anni recenti e meno recenti, la cosiddetta terza via è stata ricercata è ed ricercata: dai giorni della “dottrina” interclassista della clericale Democrazia Cristiana e dei nostrani lib – lab all’ancora oggi con i tanti orfani del socialismo e del comunismo, dalle sponde della Manica all’America. La stessa Forza Italia e lo stesso Popolo della Libertà, oggi, non vogliono e non possono rinunciare a rivestire il ruolo di forze politiche rappresentative che programmaticamente abbracciano ampi e differenti strati della società in riferimento all’estrazione culturale e lavorativa. Le nostre idee, le nostre formulazioni e le nostre proposte possono perciò contribuire ad arricchire le discussioni e la validità dei riferimenti, dei referenti, del patrimonio complessivo di questo ancor variegato polo di centrodestra. L’esigenza di contemperare gli effetti del liberismo e del capitalismo di mercato con gli interessi delle masse è stata avvertita pure da tanti figli di questo liberismo spesso iniquo e da quelli del liberalismo rimasto imperfetto nel non sapersi mai adeguare in tempo alle istanze e alle pressioni che vengono dai ceti economicamente più deboli. E ricercata anche negli USA. Il concetto di partecipazione agli utili dell’azienda da parte del lavoratore, di diretta ascendenza del corporativismo è stato ripreso e scopiazzato ovunque, in Italia e all’estero, perfino dalle più eterogenee organizzazioni sindacali che si blasonano di antifascismo. Esso tuttavia oggi non è più bastevole per fare perdurare in maniera efficiente e incisiva le condizioni di correzione accordata e armonica del sistema in cui è garantito il diritto alla proprietà dei mezzi di produzione e del profitto, al fine di non generare grande scapito per i prestatori d’opera. Il concetto anglosassone di “fringe benefit” risponde parzialmente al suo significato, visto che è propinato solo secondo l’ottica del profitto proprietario. Esso, assieme ad altre robuste e lodevoli misure di attenzione e cura del benessere complessivo dei propri dipendenti messe in atto con intelligenza e anche con sensibilità da una parte delle imprese americane, al di là delle disquisizioni dottrinarie, costituisce un insieme di indubbi vantaggi per quei dipendenti che ne usufruiscono. Il problema oggi e nel futuro tuttavia non si risolve con questi strumenti settoriali e parcellizzati, compreso quello della partecipazione agli utili. Elementi profittevoli in uno scenario finanziario-industriale-lavorativo incessantemente soggetto a radicali e imprevedibili trasformazioni con dirette ricadute sul piano produttivo e sociale; elementi profittevoli non necessariamente in senso monetario quanto di garanzia del futuro sarebbero quelli atti a rendere attivo, quantomeno come momento di verifica vincolante e di diritto, il controllo della politica degli investimenti industriali messa in atto dai consigli di amministrazione, mirando dunque alla salvaguardia del profitto secondo l’ottica della redditività entro cui ricade il calcolo dei guadagni e dei rischi di medio e di lungo periodo. Sarebbe un potere di controllo e di garanzia eccezionale, anche in riferimento all’attuale logica della de-localizzazione produttiva. Ciò dovrebbe avvenire attraverso la creazione di strumenti normativi in grado di rendere assolutamente distinti ruolo e diritti della proprietà societaria e della direzione da quella dei rappresentanti dei lavoratori, evitando inciuci e compromissioni inverosimili che frantumano e assorbono nella sfera dei mille compromessi non scritti l’azione dei rappresentanti delle categorie produttive e del mondo delle rappresentanze politiche.
Continuare ad affermare il principio della coesistenza del dato nazionale, dei dati nazionali, con il dato sociale, con i dati sociali, della loro definitiva interconnessione, in una realtà europea enormemente più ramificata e complessa rappresenta quindi la sfida principale nell’ambito della sfera politica di tutto il nostro futuro. Ciò vuol dire, nel nuovo e nel futuro contesto storico italiano ed europeo, svolgere una missione di moderata e feconda e profonda azione riformatrice. Vuol dire, superati i contesti i dissidi i conflitti della prima metà secolo del ‘900, realizzare appieno il significato del “non restaurare, non rinnegare” che ebbe adeguata, coraggiosa enfasi nell’azione svolta da De Marsanich a Giorgio Almirante.
In un brevissimo e doveroso sguardo al novecento,vediamo come si individua e si riconosce nel percorso storico del primo novecento italiano il collasso interno a cui pervenne il sistema partitocratico già imperante, che di liberale aveva ben poco. Gli assalti armati delle sinistre estreme non furono che la sollecitazione oggettiva, neppure tanto esogena anche alla luce dell’esaltazione mistica, chiliastica dell’età della rivoluzione violenta e definitiva delle masse proletarie sull’onda del colpo di mano bolscevico all’interno della rivoluzione russa. E’ un dato di fatto che la maggioranza della popolazione era rimasta e rimaneva esclusa dal circuito attivo della vita civile del Paese e che viveva in condizioni di miseria proletaria elevata; e che le decisioni venivano prese da minoranze sempre più esigue che avevano dato e continuavano a dare la peggiore dimostrazione di governo della Nazione e della difesa dei suoi territori irredenti e degli interessi generali italiani alla fine della Grande Guerra. Nato e sviluppatosi da e in questo preciso contesto, il movimento e poi partito e poi regime fascista rappresenta un unicum irripetibile nella storia. Movimento fortemente innovatore sul piano delle originali e grandi sintesi ideologico -politiche, regime autoritario e, nella sua accezione (antitetica a quella d’uso odierno) fortissimamente positiva, enfaticamente totalitario, sospese alcune delle libertà civili primarie e ne limitò delle altre sotto l’usbergo del re. Al tempo stesso, risvegliò e fecondò il senso della comune appartenenza, del vivere civile, della laboriosità della gente, dell’ardimento dell’ingegno e dell’impresa. La grandezza a cui giunse l’Italia in quel periodo è un dato incontrovertibile nonostante i chiaroscuri che lo accompagnano. Voler raffrontare gli scandali dei telefoni bianchi di allora con quelli di oggi è, a dir poco, qualcosa di assurdamente ridicolo e farsesco. Le tarde leggi razziali scimmiottate dai nazisti, colpivano italiani leali sudditi del re, in particolare i componenti delle piccole comunità ebraiche nazionali. Uomini che facevano parte del vivo sentire del popolo, della Nazione, della sua italianità, che erano espressione del mondo della cultura e della scuola, delle Forze Armate, del partito e della politica. Per un errore miope e del tutto strumentale, si dava credito alla teoria della razza ebraica, cosa che non esiste, come non esiste il popolo ebraico, e si abbandonava ad un triste destino il movimento sionista filofascista. Maggiore lucidità avrebbe dovuto portare sovrano, duce e governo a non avvitarsi nella lotta fra nazisti e nazisti ebrei arianizzati da un lato e il movimento sionista dall’altro e gli ebrei comunisti dall’altro ancora. Lotta che ha lasciato quello che ha lasciato di massacri in cui le vittime furono quelle di una sola parte, cioè dei componenti delle comunità religiose ebraiche dei diversi popoli europei assoggettati dalle armate germaniche.
Una critica al regime più trasparente, non faziosa, storicamente fondata, non può non venire che muovendosi nell’ambito stesso della visuale di allora. E cioè: l’alleanza stretta fra monarchia e partito e poi, ancora, fra di essi e la chiesa cattolica rese il sistema politico assolutamente centralizzato bloccando ogni possibilità di realizzare la “rivoluzione fascista” in chiave nazionale, laica, sociale. La camera dei fasci e delle corporazioni rimase un organo assolutamente ininfluente, subordinato al potere del governo che venne ad assommare in sé anche la funzione legislativa. La realizzazione di un sistema politico basato ed espresso dalla rappresentanza diretta delle categorie del mondo del lavoro diverso da quello basato sulle strutture partitiche concorrenti che si contendono la gestione del potere e perfino l’occupazione e l’appropriazione stessa delle cariche e dei luoghi a ciò deputati; la realizzazione di un simile modello non escludeva – non avrebbe dovuto escludere alla lunga – e non esclude in modo alcuno le libere espressioni di pensiero, quelle politico-ideologiche erano e sarebbero da collocare altrove, decontestualizzandole dal quadro del vertice costituzionale e legislativo: ma essa rimase solo sulla carta. Infatti, la possibilità di sperimentare e valutare in termini reali la funzionalità e la validità di tale sistema, specie nell’effettivo esercizio del potere legislativo e del suo rapporto con la sfera della gestione del potere esecutivo, non fu realizzata. Prevalse l’incontrastato ruolo svolto dal “premier”, leader e capo indiscusso, sull’onda emozionale sempre più spinta e sospinta dagli avvenimenti del quadro politico internazionale in cui il ruolo e le scelte politico-economiche e strategiche di Parigi e di Londra risultavano in generale sempre a noi fortemente avversi e perfino ostili. La borghesia, “sale del popolo”, espresse le migliori energie ma esse furono incanalate non sempre nel modo migliore. La militarizzazione della società come irrinunciabile, palpitante attualità dell’eredità della Grande Guerra, espressione di mobilitazione delle masse e strumento atto a forgiare il carattere, l’educazione e l’attivo senso di appartenenza civica degli italiani dimostrò aspetti positivi che risultarono minori a fronte della stereotipizzazione stucchevole degli apparati espressivi e dell’enfatica gerarchizzazione dei rapporti sociali manifestatasi su scala temporale.
Il confronto bellico risultò errato a posteriori, non in riferimento alle previsioni e alla realtà potentemente condizionante del presente, del “momento” che necessitava di decisioni immediate non solo nell’interesse nazionale ma, per quanto non deve ormai sembrare cosa campata in aria, come insegna la riflessione storiografica, nell’interesse dei più ampi equilibri generali europei e internazionali, laddove si fossero verificati un totale crollo francese, come si stava verificando, un probabile riflusso britannico, una potenziale esclusiva egemonia germanica. Anche davanti al grado di impreparazione delle Forze Armate, nell’ottica stringente di una guerra brevissima. Alleato che interviene non tanto per una guerra parallela ma, all’inizio, e prima dei gravi e irrimediabili errori strategici, anche per moderare e contenere l’irruente espansione e l’incontenibile e in parte ben comprensibile senso di rivincita dei tedeschi. E’ anche vero, altresì, che non minori e anzi immense furono le responsabilità francesi, inglesi, polacche per lo scoppio del conflitto che non si può, sul piano di una corretta recezione dei dati storici nell’ambito politico, ancora comodamente, scriteriatamente e scandalosamente, tardamente attribuite soltanto al dittatore tedesco quale artefice esclusivo di tutto. Molto, molto comodo. Con buona pace per tutti, ad onta della verità e a pro delle false coscienze pulite. E’ anche vero che in tutto questo giocò ed ha giocato un grande e pesante ruolo l’enorme quantità di vernice ideologica utilizzata dai capi di allora. Esso è oggi purtroppo determinante nelle interpretazioni strumentali e demagogiche predominanti anche nel mondo della cultura, ma, oggettivamente, utilizzare come dato interpretativo il solo dato ideologico è qualcosa di fuorviante che porta a conclusioni di comodo, scriteriate e aberranti. Come quelle nostrane della “cobelligeranza” e dell’antifascismo vittorioso, che lasciano aperti solchi enormi e continuano ad alimentare il disprezzo di vincitori e vinti. Oppure quella che nasconde in maniera sistematica la convinzione generalizzata e non infondata dei tedeschi, regime nazista a parte o compreso, che la seconda guerra non fosse e non era altro che la fatale continuazione della prima. Dallo scatenamento della guerra alle sue conclusioni, prevalsero gli interessi economici e strategici nazionali, mai in maniera lineare, salvo per l’Unione Sovietica in cui comunque Stalin fece ricorso all’essenziale espediente della santa madre Russia. Torti e ragioni si confusero spesso in maniera inestricabile.
La storia del secondo dopoguerra dimostra pure ai ciechi che i cosiddetti vincitori europei, quelli che ottusamente non avevano mai voluto ascoltare le ragioni degli altri, inglesi e francesi, perdevano più degli sconfitti. Essi perdevano i loro imperi e le loro supremazie planetarie. L’Europa diventava provincia divisa fra gli USA e l’Unione Sovietica.
È da questo disastro estremo che è cominciata a risorgere l’Europa. È da questa finalmente acquisita comprensione di sapersi rimboccare insieme le maniche e di imporre ciascuno a se stesso di cercare di capire, di voler comprendere gli altri mettendosi nella loro stessa visuale, nella loro stessa posizione, che si sono fatti i grandi, immensi progressi a partire dall’Europa dei Sei. Essa costituisce il nostro “medioevo” contemporaneo ultimo, che guardava idealmente e in maniera per i suoi tempi proporzionata al ristretto ambito dell’alto medio evo e all’età del chiuso impero di Carlo Magno. È l’Europa distrutta, di vincitori e di vinti, l’Europa dell’età glaciale dei blocchi contrapposti e della cortina di ferro. Da allora, quanti passi sono stati fatti, e quanti ancora ne dobbiamo fare innanzi!
Il secondo conflitto mondiale è risultato un disastro umano non solo per l’immensa quantità delle vittime belliche, ma anche per quelle uccise per i motivi più diversi e abietti, per motivi etnici e razziali, religiosi, politici. Per i conflitti intestini esplosi in alcuni Paesi, come in Italia, Paese in cui le negative conduzioni belliche portarono a determinazione segrete nefaste, a un ancor peggiore armistizio, foriero di altre tragedie. La Nazione divisa tra eserciti stranieri, l’invasore vincitore e l’alleato che all’improvviso il re e il nuovo governo chiamarono nemico. E la guerra civile. Come ha scritto in anni recenti, ma tardi della sua vita, una medaglia d’oro rimasta fedele al re e che combatté contro la Repubblica Sociale Italiana, l’ammiraglio Gino Birindelli, sarebbe stato meglio continuare la guerra ad oltranza senza l’ignominia della resa senza condizioni e del (di fatto) contestuale tradimento. La Nazione e il popolo avrebbero patito sì più sofferenze, ma minori sarebbero state le stragi intestine, minori le battaglie fratricide, minori i fossati di odio ancora oggi non colmati.
L’Italia che rinasceva, però, non faceva tesoro alcuno dell’esperienza della dittatura. Un fanatismo veemente si abbatteva sul Paese e si abbarbicava in ogni municipio, in ogni villaggio, in ogni città e trasformava il popolo in cliente. Non rinasceva la democrazia. Rinasceva la partitocrazia “antifascista”. Con una costituzione per nulla antifascista, se non in una “disposizione transitoria e finale”, che rubava agli ideali sociali del fascismo a piene mani, che con grande e ingiustificabile pasticcio inseriva il trattato del Laterano fra i suoi articoli. Di quei giorni e di quegli anni, noi abbiamo rispettato e rispettiamo i protagonisti che seppero porsi un limite, che non infierirono sui vinti, che non profittarono della cosa pubblica, che ritennero di tenere alto con la loro scelta l’onore della Patria. Essi, come ben si sa, purtroppo furono pochi, se non molto pochi.


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