Roma. El Alamein. Domenico Cambareri: «Un Ariete e una Folgore insieme, che spero si abbatterà su chi ha annichilito la nostra memoria»
28 Ottobre 2002
(fonte: Parvapolis)
Si è svolta ieri mattina, nel teatro “Sala Umberto”, nel cuore di Roma, colmo di partecipanti, uomini e donne di tutte le età, ad iniziare dai reduci di guerra, la celebrazione del 60° anniversario della Battaglia di El Alamein. L’appuntamento di quella che può e deve essere considerata – accanto al 4 novembre – la giornata della memoria delle gesta eroiche e dell’identità nazionale del popolo italiano è stato indetto dall’Associazione Amici delle Forze Armate. La documentazione fotografica esposta attingeva ai documenti dell’Ufficio Storico dell’Esercito Italiano. Alla manifestazione è giunto il messaggio del Capo dello Stato.
Gli interventi di saluto sono stati portati da alcuni dei diretti protagonisti, fra i pochi ancora in vita: i combattenti conte Francesco Marini Dettina, Carlo Massoni, Fernando Tabelli. La manifestazione patriottica è stata presieduta dal generale dei paracadutisti Giuseppe Palumbo e dal principe Sforza Ruspoli, in rappresentanza del suo casato (erano presenti figli e nipote dell’eroe della famiglia gentiliza caduto eroicamente a El Alamein) ed è stata coordina e organizzata dal segretario generale dell’Associazione Amici delle Forze Armate, l’instancabile Gino Ragno. La manifestazione ha avuto una grande partecipazione di cittadini di tutte le estrazioni sociali e dei più diversi orientamenti politici e molti momenti di toccante ed elevata commozione, alla presenza dei rappresentanti delle Associazioni combattentistiche e dei veterani. Particolarmente diffuso nell’inquadramento storico, nella tensione del pathos rievocativo e nei molteplici riferimenti alla più accreditata bibliografia internazionale è stata la relazione del vecchio corrispondente di guerra Luigi Romersa. Il giornalista e scrittore infatti partecipò in prima persona agli eventi bellici di El Alamein, testimoniando direttamente l’insuperabile ardimento dei paracadutisti della Folgore, e poi, anni più tardi, testimoniò del lavoro a cui dedicò la sua vita il conte Paolo caccia Dominioni, parà combattente di El Alamein, il quale è stato l’artefice indefesso della raccolta dei resti dei soldati italiani caduti e della realizzazione del cimitero e del mausoleo di “Quota 33”. Caccia Dominioni e Romersa ritrovarono insieme i resti del principe Sforza Ruspali, caduto colpito dalla mitraglia inglese in pieno petto tanti anni prima. Un altro esponente di questa famiglia cadde con il proprio caccia abbattuto durante i combattimenti aerei.
Al termine delle allocuzioni celebrative, è stato proiettato il vecchio film «Divisione Folgore» di Duilio Colletti, restaurato per intervento del principe Ruspali. L’appuntamento di ieri, dopo la visita ufficiale della scorsa settimana del Presidente della Repubblica, Carlo Azelio Ciampi, al Sacrario di El Alamein, rappresenta il primo importante appuntamento nazionale per cominciare a riscrivere per intero la storia del novecento del popolo italiano, soprattutto in fatto di nobiltà d’animo e di coraggio e di fulgide gesta dei nostri soldati di fronte ai distruttivi stereotipi per decenni imposti, nel segno di una viltà e di un’incapacità atavica del popolo a combattere e di un’assenza quasi generalizzata di dedizione alla Patria.
Tra le sabbie di El Alamein, tanto gli alleati tedeschi quanto gli inglesi ebbero a doversi ricredere dell’indomito eroismo degli italiani. Eroismo che non fu travolto ma soltanto dimenticato nelle successive tragedie del nostro popolo, sino alla sconfitta e, purtroppo, e salvo rare eccezioni, dalla ricostruzione ai giorni nostri. Tutti i soldati italiani, dai piloti degli aerei ai bersaglieri ai carristi ai fanti ai genieri ai parà della Folgore hanno scritto con il loro sangue fulgide imprese che sono additate ad esempio delle virtù guerresche in tutto il mondo. Ogni impossibile comparazione della disparità delle forze con il nemico – tanto era immensa la differenza sotto i molteplici aspetti, ad iniziare dalla qualità e dalla quantità dei rifornimenti e dalla massa di reparti “freschi” e dall’enorme quantità di nuovi carri armati che l’armata inglese allineava – fu vinta con geniale arditezza tattica e con indomito eroismo. Il mondo ce ne ha dato atto, ma ancora tanti italiani sconoscono le imprese e il senso del dovere e dell’onore dei loro soldati.
Sono nato quasi dieci anni dopo la Battaglia di El Alamein, il 30 giugno del 1952. Il Sole si approssimava allo Zenit, ma la storia della Nazione era molto al di sotto del Nadir. La stessa Omega può dare solo un pallido raffronto fra la morte di un individuo e la morte di un popolo. Ricordo ad esempio, ancora ragazzino, senza dover troppo divagare senza meta, quanto veniva proiettato dai cinegiornali Luce nelle sale cinematografiche, ricordo in particolare quello che veniva mostrato e detto sulle foibe, su cui calò più tardi, improvviso e tombale, il silenzio del regime “democratico”. Ho ricordato e ricordo sempre le scene più eroiche del film sulla battaglia di El Alamein, riproposto ieri nella celebrazione del 60° anniversario Per quanto le istituzioni rappresentative e le garanzie formali erano tornate nel solco delle libertà frutto del retaggio delle rivoluzioni moderne, inglese e francese, la Nazione era scossa da continui brividi, pericolosi quanto persistenti. Il prolungato malessere era frutto delle misture corrosive che le si davano a grandi dosi. I maggiori corifei dell’antifascismo, gli azionisti, alcuni fra essi sicuramente esponenti coraggiosi e intrepidi, avevano perso nella dissennatezza della rivalsa ogni limite permissibile e permesso in termini storici e politici. La loro sconfitta politica sul piano elettorale a nulla servì nel rinsavirli. Anziché iniziarsi a porsi delle domande sul perché di questa irriducibile faida con la componente fascista che, per quanto odiosamente avversa sconfitta e dispersa (dagli angloamericani), costituiva l’altra eredità del Risorgimento non meno legittima e almeno pari se non superiore alla loro, pur con gli accadimenti ulteriori e non positivi del fascismo “regime”; e a chiedersi verso dove stava andando la sorte della Nazione, dopo l’avvento di una Repubblica parlamentare sulla quale già erano avventati con inaudita violenza gli artigli partitocratrici di memoria prefascista. Non si ponevano neanche dubbi sulla liceità politica e morale dello sfilare sempre uniti, nella stupida e strumentale unità antifascista, bianchi e rossi, liberali e azionisti, monarchici e comunisti, repubblicani e “cattolici”. Una grande, sterminata, interminabile abbuffata che di ideologico e di storico ebbe solo il grottesco, se non fosse stato per le risate a cielo aperto dei nuovi alleati, per i quali si rimaneva innanzitutto dei vinti e degli “alleati” inaffidabili e divisi, dei “badogliani” che non davano garanzia alcuna, dal momento che l’esaltazione dei comizi e delle piazze rosse riproponeva l’attrazione fatale del “biennio rosso” e delle parate dell’Armata Rossa. Non si chiedevano i feroci custodi dell’antifascismo illibato cosa stessero ancora facendo, mentre i comunisti italiani solidarizzavano a tutti i livelli palesi e occulti con l’Est europeo, dopo avere attentato ripetutamente e proditoriamente all’unità territoriale lungo i confini orientali e alla difesa del popolo di quelle terre.
L’Italia nata, era rinata male, forse più morta che viva, nelle condizioni del provvisorio in tutto e per tutto, sin nei suoi aspetti più delicati e simbolici: dal ricorso del re (ex?) all’alta Corte di Giustizia per i risultati referendari, all’inno nazionale “provvisorio”. O forse, l’Italia nata dopo la disfatta era mal rinata, forse più morta che viva, perché rinata – nel senso deleterio del termine – fascista e ancora più fascista di prima? Quest’Italia repubblicana e antifascista, vissuta per decenni sulle istituzioni e sugli istituti e sulle opere e sulle organizzazioni fasciste, cosa è, anche e soprattutto nell’accanimento antifascista se non fascista?
Nel triste giuoco di parole creato dai “democratici popolari” di marca rossa, tanto da apostrofarsi e condannarsi vicendevolmente, come e non soltanto nel caso esemplare delle chiese russa e cinese, come fascista, vi è qualcosa che i fascisti mai fecero: seppellire la storia precedente. Seppellire tante storie, quelle dei fronti di guerra, e quelle dei fronti della guerra civile, delle trame, dei sabotaggi, degli agguati a ogni tentativo di mediazione nella “Roma città aperta”, ad esempio, accettata da esponenti comunisti ma fatta saltare da altri in aria con la strage di via Rasella, strage di carni italiane che giammai ha presentato caratteristiche tipiche di un’operazione di guerra o di guerriglia. Stragi che miravano e colpivano nel segno della spiralizzazione della risposta, del chiamare altre stragi.
Una colpa inemendabile degli azionisti, dei liberali, dei repubblicani dei socialdemocratici, dei socialisti è stata quella di avere soggiaciuto, più che inerti, colpevolmente complici nell’abiura storica fatta operare, per quanto per opposti motivi, dai “cattolici” e dai comunisti. Essi hanno assistito e infine partecipato politicamente ai festini con cui si celebravano le tante ripetute nozze del popolo italiano con il nuovo immaginario collettivo, con l’italiano esemplato nello pseudo prototipo del “simpaticone” personaggio rappresentato da Alberto Sordi. Hanno sepolto, giorno dopo giorno, il dovere di preservare e diffondere il ricordo di quanto comunque e sempre seppero fare i soldati italiani, perché erano soldati italiani e non soldati fascisti – anche le camicie nere e gli universitari del GUF che partirono volontari per la Spagna, l’Etiopia, Giarabub e la Russia – perché la guerra era e rimarrà sempre una guerra italiana, prima e al di sopra di ogni altra aggettivazione. Ulteriore immane responsabilità storica, salvo non molte eccezioni, perché lasciò esclusivamente ai neofascisti compito, ruolo, responsabilità di difendere le tradizioni patrie recenti e le tragiche intestine contraddizioni, e ancora la difesa dell’identità nazionale, del sicuro supporto all’Occidente e alla Nato (dopo i primi anni di scontata opposizione passionale e politica), della difesa stessa del “regime democratico” nei momenti di maggiore pericolo istituzionale, fino ai fatti di Genova e all’attacco al governo Tambroni. La sintesi di questi giudizi sussume aspetti cronologici parzialmente differenti ma coerenti nel valutare le genesi e gli svolgimenti politici ulteriori.
Questi decenni hanno scarnificato la coscienza dell’identità del popolo italiano nelle sue memorie e tradizioni storiche, soprattutto quelle recenti. Ben ci voleva, e per questo è il benvenuto, da parte mia, un Presidente azionista. È il primo presidente che comincia a parlare con sano e corretto senso di amor di Patria e di spirito di dedizione al dovere e di legame necessario e ineludibile con le più alte tradizioni della nostra Nazione. Ben ci voleva questa mai tarda riscoperta, ben ci voleva questa mai tardo ricominciamento. È un Presidente che non si vergogna di essere italiano, anche accanto a un americano, a un tedesco, a un giapponese. Per quanto tante opinioni e dei giudizi del Presidente della Repubblica non mi trovano concorde sulle cose di cui sto qui scrivendo, alcune, e ritengo le più importanti, hanno la mia condivisione: quelle che superano lo spirito della fazione e della parte, del rancore e della rivincita, dell’autocelebrazione e delle invenzioni, dell’immarcescibile e inesistente “vittoria” che si sostituisce alle insignificanti avanzate delle armate angloamericane. È nelle virtù militari che si misura, nei momenti tragici e nelle svolte cruciali della storia, la qualità degli uomini, dei capi e di interi popoli. È questo che è stato reso cosa pressoché proibita nella coscienza viva e nella cultura della Nazione, in particolare delle giovani generazioni.
Per quanto impreparata e inadeguata allo sforzo bellico fosse la nostra Nazione, la nostra fragile partecipazione al secondo conflitto mondiale dimostrò che in molte occasioni, anche di fronte alle più avverse condizioni, e indipendentemente dagli errori strategici o tattici dei comandi, i nostri soldati combatterono con accanimento senza pari. Se a El Alamein mancò non solo la fortuna ma la lucidità della condotta strategica, anche e forse soprattutto di Rommel nel convincere i capi politici sul posporre la conquista di Malta; se mancarono ancora tante altre cose, non mancò il coraggio, un enorme coraggio, l’enorme coraggio che rimane imperituro nel nome della località egiziana delle “due bandiere”. Certo, anche in guerra il coraggio è l’ “arma” a cui il soldato ricorre come mezzo estremo, ma è nell’averla nel cuore e nell’utilizzarla che appunto si misura la sua grandezza, per quanto la disfatta ne affonderà le carni nella terra. E a El Alamein, intrepido e gagliardo fino alla morte, il soldato italiano sfidò cannoni e corazze nell’impari proporzione numerica e nella disparità irrafrontabile fra muscoli e acciaio. Così le sfidò sotto e sopra i mari con gli arditi della X Mas, così le sfidò nel gelo russo e nei cieli. Un medaglia d’oro ancora in vita, il famoso ammiraglio Gino Birindelli, uomo della X Mas del principe Junio Valerio Borghese, ubbidì, dal campo di concentramento americano in cui era rinchiuso, al governo del Re, tornando così a combattere in Italia, nell’Italia divisa dalla guerra civile e non dalla guerra di “liberazione”, ha riconosciuto che se avessimo continuato a combattere ad oltranza, senza l’onta di Cassibile e della resa senza condizioni, avremmo avuto un trattamento in fin dei conti non più duro di quel che ricevettimo. Ma non avremmo avuto una così odiosa guerra civile e una spaccatura così profonda in tutto il secondo novecento, e un così diffuso disprezzo nel mondo.
Un campione dell’antifascismo, il repubblicano Randolfo Pacciardi, capo degli antifascisti volontari in Spagna, sino a prima di morire ha difeso l’italianità al di sopra della fazione, come nel caso del sempre ritornante scempio demagogico sull’arco della Vittoria di Bolzano. Verso dove bisogna guardare per orientarsi? E chi può farlo?
Certo non è in grado di farlo Berlusconi. Men che mai i suoi avversari, se sono arrivati così in basso pur di combatterlo, incastrando sempre e ancor di più la Nazione nello scontro delle fazioni.
Bisogna, innanzitutto, ritornare alle memorie che non solo edificano ma dapprima purificano l’animo e le intenzioni del cuore e della mente. Solo così potremo capire il tragico lascito dell’asso dei sommergibilisti italiani, Carlo Fecia di Cossato che, come Birindelli, rimase fedele al re. Ma si suicidò poco dopo. Il suo testamento spirituale, nella lettera scritta alla madre, sconosciuto sicuramente anche alla quasi totalità dei “colti”, pesa sulle teste dei politici, ma anche di tutto il popolo italiano, finché non si ritroverà coscienza e dignità insieme. Coscienza e dignità che non può avere un popolo che si è indebitato per tre generazioni, che non può assolutamente avere un regime democratico – questo regime democratico dell’ancora non morta prima repubblica – che così lo ha soltanto svuotato nell’animo e immiserito nel consumismo più abietto, facendogli dimenticare cosa vuol dire investire sulle intelligenze, sulla ricerca, sulla scuola, sulla difesa. E per fare questo occorrono i ritorni e le rivisitazioni, occorre la memoria. Non solo del pensiero dei suoi filosofi e dei suoi scrittori, non solo della saggezza e della fede dei suoi santi, ma di questo e ancor di più: di quello che fecero i soldati in guerra.
È nell’eroismo, è anche nell’eroismo che si trasvalutano i valori, anche dell’ultimo degli uomini. Se si griderà che questa è una un’asserzione irrazionale, dico che non lo ritengo proprio, ma ciò per tanti motivi non mi dispiace. Soprattutto per motivi di scandalo dei chierici di turno. E dell’eroismo italiano bisogna scoprire ancora tutto. Iniziando dalla disfatta di El Alamein, che da allora ci ha sempre riscattato da ogni infamia. Essa è davvero un Ariete e una Folgore insieme, che spero che si abbatterà su chi ha annichilito la nostra memoria e negato la nostra identità. Le prossime tappe del processo unitario europeo infatti richiedono coscienza e progetti nazionali saldi. Non le svendite. E su questo abbiamo punti di distanza da recuperare, tanti ma proprio tanti con gli inglesi, i francesi, i tedeschi.
L’importante è adesso ricordare che per quanto non si possono e non si debbano amare le disfatte, nella disfatta, per noi fu il massimo onore. El Alamein ce lo ricorda, ce lo impone, come indistruttibile ago magnetico per la nuova Italia, oltre ogni antifascismo rancoroso e vile. Al contempo mi inchino di fronte ai combattenti di Salò non meno che davanti ai partigiani come Paolo Caccia Dominioni, parà della Folgore a El Alamein, due volte eroe, nel donare tutto il resto della sua vita alla raccolta di quanto restava dei nostri caduti nella depressione del deserto sahariano, prossimo agli egiziani di Alesandria che ci aspettavano come liberatori, quel deserto che oggi, con Caccia Dominioni, è il sacrario di El Alamein, a “Quota 33”.
“Quota 33”: nome mitico e mistico, come la Folgore, come l’Ariete, che dovrà far parte del bagaglio delle conoscenze di base di ogni italiano cosciente della propria identità davanti agli altri popoli europei fratelli e davanti al mondo. A partire da El Alamein.
Domenico Cambareri