09 Settembre 2008
Domenico Cambareri
(fonte: Parvapolis)
In margine alle polemiche in atto tra scrittori, intellettuali e giornalisti latinensi. ” Vi spiego io cos’è la Cultura”
L’amore del sapere è incontenibile, ma esso stesso ha un suo cifrario non segreto. In un territorio non c’è solo la storia delle culture minori marginali subalterne provinciali. Quello è folkore, al massimo
Nell’ininterrotto processo di allargamento degli orizzonti conoscitivi, il cui re-inizio possiamo collocare – come riferimento di metodo e di “prossimità” – in termini cronologici quanto simbolici con l’inizio dell’età moderna, ne abbiamo visto di cotte e di crude. Le querelle sulla cultura sono state innumerevoli nel numero, variegate nella loro tipologia nel loro spessore e nella loro qualità. Esse sono state non di rado promosse e in esse sono state protagoniste personalità di rango che consideriamo immortali nella storia della nostra cultura. Cultura simultaneamente intesa nel senso più lato e nel senso più largo. Non nulla di già visto, dunque, ma tutto già visto. Non per questo esse avranno termine. Esse sono espressione di un locum antropologico che può sconfinare, come altre cose, nel luogo comune e scadere nella banalità. Sono dunque espressione dell’attività intellettuale stessa degli uomini, della loro esigenza di confrontarsi, di misurarsi valutarsi criticarsi vicendevolmente a volte con modalità e passionalità eccessive, veementi, perfino compulsive. Non rare volte spirito icastico e corrosivo, arroganza e albagia intridono completamente il dire degli assertori delle diverse tesi tanto da superare ampiamente la gamma delle “tonalità” passionali e persuasive dei migliori retori e dei più accesi arringatori. Diventano dunque veri salotti o veri saloon in cui una platea di Demostene degusterebbe gaiamente diatribe davanti a cui i protagonisti del sic et non le cui voci rintronavano nelle navate gotiche si troverebbero forse sperduti. Frementi amanti della cultura e cercatori inesausti della sua essenza che si paludano in attori di lungo corso ricchi di mille espedienti di fronte ai quali i protagonisti del teatro goldoniano diventano pivelli d’umorismo e di saccenza. Non dimentichiamo mai, d’altronde, che l’ilarità graffiante s’accompagna spesso alla pepata maldicenza e alla reazione sanguigna che sfocia in rabbia. Colpi e fendenti senza esclusione. Quante pagine della storia ci riportano a queste scene illustrate della comunque spassosa attività umana! Se ci mettiamo dentro ciò che va oltre le metafore, i parossismi le iperbole il per assurdo rendiamo ancora più verace la cosa. La cosa. Cosa di più multiforme e poliedrico c’è della stessa natura umana? E del suo linguaggio, con termini affini a più non posso e con termini polisenso che pare che tramano agguati a giusta posta? A volte, potrebbe sembrare quasi un teatro da matti, e non poche volte per di più, parti delle querelle risultano più serrate, stridenti, graffianti e al tempo stesso inconcludenti proprio perché la parole che sto usando e che al tempo stesso sta usando il mio interlocutore o “avversario”, questa parola è da noi utilizzata assegnandole un contenuto, un significato non identico, non univoco. Quanti errori vengono così commessi, quante diatribe avrebbero non ragion d’essere e il campo del contendere potrebbe essere limpidamente circoscritto se si fosse più avveduti, non malaccorti, non portati a strafalcioni dalla presunzione del saper cogliere in fallo e del saper tacciare gli altri!
Massimamente, poi, un simile prontuario che nulla innnova in quello che in tanti da tempo immemorabile ricordano sul come è facilissimo sbagliare, ad ogni piè sospinto, anche senza volerlo, andrebbe tenuto mentalmente presente come obbligatori preliminare di verifica linguistica sui termini – chiave del contendere che sta per iniziare. C’è chi la vuole cotta, c’è chi la vuole cruda. Se la cultura è come zappare, è proprio così. C’è modo e modo di zappare, anche in funzione delle finalità. C’è cultura e cultura. In senso largo, adeguato all’odierno ininterrotto dilatarsi dei panorami e degli interessi e delle curiosità dell’animo e dell’intelletto umano, non c’è scandalo alcuno nel dire che la cultura è espressione onnicomprensiva. Già, lo scibile umano, con i suoi hobby, con i suoi amateurs, con i suoi innumeri antiquari e collezionisti le sue partiture, le sue specializzazioni, le sue gerarchizzazioni. Nulla dovrebbe sfuggire alla conoscenza dell’amante delle cose, degli accadimenti, degli esperimenti, dei moti nascosti delle particelle e dell’animo…del sapere. Anche nella dimensione della quotidiana “superficialità”, della banalità che tale è non soltanto per reazione, quasi fosse un impulso fisologico, e non solo nella storia delle tecniche, delle culture minori marginali subalterne provinciali e delle loro presunte riscoperte, dei “saperi – sapori”, di quello e di quanto è inestricabilmente connesso, nella denominazione specialistica italiana, nelle discipline demo-etno-antropologiche, folklore o tradizioni popolari e dialetti compresi. Pure la lestra, le mozzarelle, il chicco di grano. Tutto fa brodo, tutto fa cultura, anche il fatuo. Ma esso in ciò rimane, assolutamente circoscritto al fatuo, fra i tanti brodi, gustosi o meno. Ossia, assolutamente inessenziale. Non parliamo della storia dell’economia o di altro ancora, polverizzeremmo ancor di più i riferimenti, tutti leciti scontati naturali ovvi certi. D’altronde, ci si accorge poche volte che le cose più terra terra, a noi più prossime riportano all’essenza dei Cieli e della Terra, dell’uomo, dell’esigenza di comunicare con se medesimo e con gli altri, per la inadeguatezza del linguaggio empirico all’esigenza astrattiva, con meta-linguaggio, con metafore e altro: ecco il mondo ulteriore dei suoi simboli dei suoi credi del suo pensiero, come nel caso specifico del chicco di grano.
L’amore del sapere è incontenibile, ma esso stesso ha un suo cifrario non segreto: è quello che può menare per le vie più impreviste e inesplorate, per la tensione interiore e la brama e l’intuizione folgorante all’atto creativo dell’ingegno e, soprattutto, a quelli della sfera supremamente appagante delle lettere e delle arti. E del tentare di dare, del cogliere o del tentare di cogliere risposte a domande inesauste. La pagina di un romanzo, una scultura, un numero, un semplice verso, una riflessione filosofica slarga davvero verso l’immenso e apre a ciò che sentiamo repentinamente vicino e al tempo stesso insondabile. Appagare, non appagare, far vibrare le membra come una foglia sbattuta dalla tempesta … È essa, questa cultura, che ha costruito la storia delle civiltà intesa come la torcia della coscienza e dell’intelletto che rimuovono veli e sonno. Per vedere, per aiutare a vedere. A comprendere. Essa dunque, oltre i dibattiti e le sferze della sofistica, cosa primariamente è? Probabilmente, non solo ciò di cui ci nutriamo. Non solo quanto viene dalla storia sociale ed economica o dalla cronaca odierna di esse. Non solo dall’entomologia o dalla geologia. Non è solo le malattie, le epidemie, le guerre. Non solo la disoccupazione. Esse vi rientrano, ne sono riassorbite e metamorfizzate in mille e mille sconosciuti modi. Ma chi cerca di queste cose volutamente l’enfasi, svilisce ogni discorso e scade in irricevibile demagogia. Irricevibile, perché soprattutto di bassa lega, anche in una piccola diatriba di campanile o di piazza o di crocicchio.