Roma. L’analisi di Mino Mini di “ieri l’altro” e l’aggravarsi della crisi urbanistica della capitale

Dopo decenni di amministrazione capitolina di sinistra, il Polo della Libertà ha recentemente conseguito una strepitosa vittoria a Roma. Mino Mini, affermato professionista,  già segretario del SIND/ARCH Sindacato Architetti Liberi Professionisti di cui è stato il cofondatore e già segretario nazionale, CONSILP Confederazione sindacale italiana liberi professionisti della capitale, ci invia questo suo scritto cronologicamente e al tempo stesso “apparentemente”datato per fornire una vera cartina di tornasole ed uno strumento di duttile analisi comparativa. Questo può risultare ben utile agli amministratori di oggi, compreso il sindaco (che dovrà dimostrare di avere solo grande umiltà e non sterile presunzione) nello svolgimento del suo lavoro, ed ai lettori su ciò di cui Roma avrebbe avuto bisogno già anni addietro, ciò che è stato fatto (e come è stato fatto), ciò che non è stato fatto ed andava fatto, ciò dovrebbe e soprattutto dovrà essere fatto. Roma, insomma, e lo scempio urbanistico, dalle periferie all’Ara Pacis. Il futuro di Roma non chiede a questo punto sfide ma certezza di scelte e di risposte adeguate a fronteggiare e vincere la grande e generalizzata crisi urbanistica. E’ curioso sapere che Mino Mini redasse queste importanti schede in occasione di una tornata elettorale del 1997 per Alleanza Nazionale.

Domenico Cambareri                                          

 

 

 

 

ROMA. LE ESIGENZE URBANSTICHE PRESENTI E FUTURE DELLA CAPITALE TRA SCELTE CULTURALI, PERCORSI IDEOLOGICI, INTERESSI ECONOMICI  E OPZIONI POLITICHE

 

ARCHITETTO MINO MINI

 

 

1 . APPUNTI  SUL PROBLEMA DEL “CENTRO STORICO” NELLA CULTURA

     CONTEMPORANEA.

 

 

            In un momento di grande sbandamento culturale come l’attuale, che caratterizza – quasi emblematicamente – la fine del secondo millennio, non è fuor di luogo riproporsi il quesito circa la definizione del centro storico.

 

            Tanto per entrare in argomento: che significa centro storico?

 

            Questa definizione è già un equivoco. A rigore storico è tutto ciò che è stato edificato fino a ieri, quando questo scritto non era ancora sotto gli occhi di chi mi sta leggendo, e perciò cosa rende “storico” il nucleo più vecchio di una città?

            Già su questo interrogativo dovremmo dissertare a lungo per rimuovere tutte le “deviazioni” intellettuali del pensiero moderno che hanno portato alla attuale fase critica della civiltà. Non c’è spazio e forse mancherebbero ascoltatori attenti. Ce la caveremo sintetizzando la situazione.

            Da tanto tempo la città non è più dei cittadini, ma imposta loro da altre forze economiche e politiche. Non rispecchia più -come in epoche passate- la totalità dell’uomo, né rappresenta più il luogo dove lo spirito si invera nella materia concretizzando la civiltà in termini di calce, pietra, mattoni e cemento. Da più di un secolo, ma specialmente dalla seconda metà di questo, è ridotta ad essere un insieme di “contenitori” mono o plurifunzionali.

 

            Siamo ancora addentro -in pieno- nei limiti di visione della cultura contemporanea (moderna e post-moderna) che concepisce il mondo in cui vive come qualcosa di esterno all’uomo che si intende, oggi, proteggere a tutti i costi visti i danni arrecati, fino ad un recentissimo passato, dalla cosiddetta “civiltà del progetto”.

 

            In questa perdurante concezione, l’agire come improvvido sfruttatore o come tutore del centro storico rappresenta solo l’uniformarsi ad una delle due facce contrapposte della stessa cultura dove tale contrapposizione radicale viene giocata esclusivamente sul piano economico e su quello morale.

            Tuttavia l’atteggiamento tutorio, pur provocando la mummificazione del centro storico arrestandone il processo vitale, consente almeno la permanenza delle sue strutture per l’intuizione dei valori che le stesse conservano. Su tali strutture, una cultura più matura, non ancora espressa nella legislazione urbanistica, potrà infondere nuova vita se si supererà la dicotomia tra uomo e natura che porta alla concezione della città come un “fuori da sé” rispetto all’uomo.

            La città, in senso fisico, è tangibilmente un insieme di “cose”, ma per i valori di vita, di economia, di concezione estetica del mondo che esprime e concretizza in termini di case, edifici pubblici, strade, spazi urbani etc. è anche l’uomo ovvero un organismo simbiotico -a scala urbana- di uomo e natura. L’una condiziona l’altro e ne è condizionata.

 

            In questo senso il centro storico si differenzia dal resto della città in quanto organismo espressivo dei particolari valori del vivere civile dei suoi abitanti, quindi della identità dell’uomo e del luogo allo stesso tempo. Anche la sua “storicità” assume una dimensione categoriale diversa perché non riferita al solo simbionte uomo, ma a tutto l’organismo; in questa dimensione la storia diventa sinonimo di “processo di formazione” della città ovvero il suo continuo “divenire” per effetto dell’evolversi delle relazioni tra i due simbionti sempre in mutazione per il reciproco condizionamento.

            Si ha, così, la spiegazione del perché l’atteggiamento tutorio -esercitato al di fuori di una critica organica- equivalga a “mummificare” l’organismo urbano arrestandone il processo di evoluzione.

 

            Nella concezione più evoluta della città intesa come organismo, il fine della tutela o dell’intervento nel Centro Storico, dovrà essere quello di “reimmettere in orbita” il processo di formazione della città facendo leva proprio sul nucleo antico in quanto non solo “depositario” dei valori di identità, ma materializzazione concreta degli stessi in termini di strade, piazze, edifici residenziali e speciali etc. L’identità, infatti si esprime intrinsecamente nel modo di farsi città, di darsi forma tipica in rapporto con il luogo fisico strutturando percorsi, lotti, edifici e spazi urbani in sistemi urbani, impiegando le risorse naturali e umane a costituire sistemi economici, istituendo il sistema sociale costituito dal tessuto di rapporti fra le persone, dal perpetuarsi degli usi, dal consolidarsi degli stessi in costumi di vita; quel modo di farsi città, ovvero far sistema dei diversi sistemi, che si individua in un organismo, tipico nel suo concretizzare materialmente le leggi universali dell’evoluzione in una forma di città distinta da caratteri peculiari.

 

            L’identità si esprime, infine, estrinsecamente attraverso il linguaggio dei suoi edifici tipico del luogo che, costante nei suoi elementi costitutivi, nel suo sistema grammaticale, nella sua forma sintattica derivati dal luogo è, invece, mutevole nel tempo per lo stile (il modo, appunto) con cui viene “parlato”. Vi è, tra il linguaggio e lo stile, la stessa relazione analogica che sussiste fra la lingua e la parola.

            Riferito al valore d’identità, il linguaggio esprime il luogo, lo stile rappresenta il tempo.

 

            Ogni città storica, quindi, in quanto organismo individuato dal modo di formarsi e di evolvere costituisce modello genetico atto, perciò, a guidare -quando non venga negletto- gli sviluppi della città.

 

            Ed ecco, quindi, il vero fine dell’atteggiamento tutorio evoluto che dovrebbe guidare la pianificazione dei centri storici:

        Riconoscere e salvaguardare il modello genetico del centro “storico” per riequilibrare la città trasmettendo alle sue espansioni quella identità che non hanno mai posseduto. Ciò significa rimettere in orbita il processo di evoluzione di tutta la città al fine di garantire attendibilità di risultati alla pianificazione dell’uomo e del luogo.

 

2. RIFERIMENTO DI METODO PER L’INTERVENTO DEI CENTRI STORICI

 

 

            Una pianificazione tutoria deve porsi, in prima istanza, il problema degli interventi ammissibili. Qualsiasi intervento, massimamente nel centro storico, pone sempre il delicato problema d’inserimento ambientale di una struttura nuova in un ambiente preesistente; pertanto è necessario un metodo per misurare e valutare, scientificamente -per quanto possibile- sia il preesistente che la struttura nuova.

            In teoria alla soluzione di tale problema dovrebbe supplire l’art. 31 della L. n. 457/’78 con le statuite definizioni degli interventi. In realtà tali definizioni non sono scientifiche ma pratiche. La legge non entra, né può farlo, nel merito degli effetti dovuti agli interventi. Si limita a classificare l’azione dell’uomo sull’organismo città non l’effetto su di esso. “…Non prende decisioni, non ha volontà propria. E’ come un’arma o un utensile: funziona se c’è chi la impugna e l’adopera”(1).

            E’ compito della cultura interpretare ed applicare (impugnare e applicare) le definizioni di legge.

            Stando alla cultura ufficiale, quella dei regolamenti e delle sovrintendenze, il quesito è irrisolto.

            Le deviazioni ideologiche del pensiero moderno, ad esempio, hanno trovato su questo quesito ampio campo di dissertazione spaziando dal desiderio di potenza interventista del Movimento Moderno (M.M. in acrònimo), dove l’arroganza intellettuale giustificava ogni espressione schizoide, all’estremo della conservazione assoluta dell’esistente vincolato sotto una campana di vetro nella illusoria intenzione di salvare la testimonianza storica fermando il tempo delle cose. Tra questi due limiti, frutto  del  romanticismo  idealista  che  permea, al fondo, la cultura moderna e la devia -appunto- dalla comprensione del reale, stanno tutte le altre espressioni teorico-culturali quali:

– la liceità dell’intervento, con stilemi e “tipi” dell’architettura moderna, in libera contrapposizione con il contesto storico perché testimonianza del momento attuale che troverà, con il tempo, il suo ambientamento;

– la difesa del valore ambientale attuata mediante la falsità storica della ricostruzione “com’era-dov’era”, magari facendosi scudo del metodo filologico;

– la costruzione “in stile”, per esigenza di ambientamento;

– la citazione post-moderna degli stilemi antichi quale disinvolto repertorio di forme per comporre “ludicamente” una continuità con l’esistente.

            Sarebbe intellettualmente stimolante dilungarsi criticamente su queste diverse risposte elaborate dal M.M., ciascuna basata su un principio di particolaristica verità ideologica, ma tutte incapaci di pervenire ad una sintesi del reale.

            “La città, come abbiamo detto, è un organismo -simbiosi  di uomo e ambiente- che vive e si trasforma nel tempo mantenendo costante il rapporto equilibrato fra i due simbionti. Lo svolgersi di un fenomeno che lega unitariamente la permanenza con il mutamento è espresso da una legge ciclica che rappresenta un processo in divenire dove, al mutare di uno dei due fattori, anche l’altro dovrà mutare per mantenere costante il rapporto fra i due. Tale rapporto può degenerare; in tal caso il compito del pianificatore è quello di rimetterlo in orbita avendo sempre, come riferimento, il particolare equilibrio di cui si è detto.

            Dal concetto astratto alla realtà operativa.

            Il primo passo da fare è ricostruire il processo di formazione della città come sistema. Per questo occorre “leggere” la città nel suo tessuto murario e nelle sue facciate dove si possono rinvenire le tracce delle vicende di trasformazione evolutiva e/o involutiva.

            Ogni città ha un suo modo peculiare di dar luogo al rapporto tra uomo e ambiente che si esprime nel linguaggio degli edifici e negli spazi urbani in relazione alla collocazione territoriale, alla configurazione del terreno, ai percorsi matrice originari e ad altro. Ebbene il “modo” di far sistema dei vari elementi costitutivi a scala edilizia e da qui a quella urbana rappresenta la costante della città così come il linguaggio, al grado architettonico, lo è per gli edifici. Infatti rappresenta il “modo” in cui struttura, funzione e forma, facendo sistema, danno luogo ad un tipo edilizio, matrice del tessuto urbano, o ad un edificio speciale.

            Se nel processo di crescita o di contrazione il “modo” viene alterato, la città s’involve verso il degrado. Analogamente avviene per gli edifici al grado architettonico.

            Il secondo passo, una volta individuato il “modo” di formazione ed il linguaggio architettonico degli edifici, è quello della correzione dell’andamento del processo per rimetterlo in orbita oppure del consolidamento se si svolge correttamente.

            Le tecniche sono diverse, ma tutte riconducibili ad un unico principio: la compatibilità dell’intervento -urbano o edilizio che sia- con l’ambiente preesistente.

 

            Per una cultura evoluta “inserire una nuova struttura o restaurarne una vecchia, è sempre un atto con il quale, introducendo un cambiamento in un organismo preesistente, ci si propone di mantenerlo in vita per tramandarlo nel tempo.

            Ciò significa che per assicurare la continuità del rapporto fra una struttura e l’ambiente occorre introdurre delle modificazioni in quanto al cambiare delle funzioni dell’organismo anche le forme debbono adeguarsi.

            In sostanza per conservare occorre mutare. Tra questi due principi contraddittori deve, però, esservi un equilibrio e lo stesso è vincolato alla presenza di una condizione costante:

            -che fra struttura inserita e quella ospitante vi sia compatibilità.

 

            Per ricondurci al nostro caso, ad esempio, questa costante nel mutamento, la compatibilità, ha condizionato in senso positivo o negativo, la vita di una città, del suo contesto ambientale, dalla nascita fino ad oggi ed è necessario, quindi, se si vuole procedere scientificamente nell’intervento pianificando il mutamento per la conservazione della vita dell’organismo in questione e del suo contesto ambientale, ricercare, nei loro processi di formazione, sotto quale forma si presenti la costante del mutamento.

            Poiché lo stato attuale altro non è che il momento di arrivo di un processo dinamico di formazione che comprende una fase di sviluppo ed una di degrado, si tratta di rilevare, nella storia della città -che è altra cosa da quella degli avvenimenti di personaggi che in essa o per essa sono accaduti- quale sia stata e quale sarà la forma dell’equilibrio ai diversi gradi di valore: architettonico, edilizio, urbano e territoriale.

            In questo senso l’intervento non potrà essere altro che il ripristino ed il consolidamento di un processo vitale di evoluzione nel tempo; di fatto una “reimmissione in  orbita” dell’organismo oggetto d’intervento nel “naturale” processo evolutivo. Processo che, va da sé, per essere tale non può cristallizzarsi in un momento storico definito, ma deve svolgersi nel tempo fino all’oggi e proiettarsi verso il domani”.

 

            Se dovessimo dare un’insegna al Centro Storico che esprimesse al meglio in senso della continuità dell’organismo, proporremmo la seguente:

 

MUTARE SERVANDO

 

*       *       *

 

            Abbiamo fatto cenno alla scientificità del metodo intesa come attitudine dello stesso ad essere impiegato come strumento di misura e valutazione.

            Occorre, a questo punto, chiarire che misura e valutazione non debbono essere intese in senso metrico o ponderale o in un altro sistema ad una dimensione, ma in senso “organico” ovvero categoriale.

            L’unità di misura non comprende una grandezza, ma grandezze e funzioni organicamente differenti ed è espressiva di un edificio o di una città come organismo individuato -secondo l’oggetto- architettonicamente, oppure come tipo edilizio costituente tessuti edilizi o ancora in rapporto alla sua funzione urbana e territoriale.

            Impiegheremo allora quattro livelli di grandezza categoriale o gradi o scale:

        grado architettonico;

        grado edilizio;

        grado urbano;

        grado territoriale.

 

2.1. Grado Architettonico

 

            A questa scala di edifici o l’ambiente urbano come insieme unitario degli stessi, vengono concepiti come un organismo ovvero un individuato sistema di materiali, strutture, impianto distributivo e linguaggio espressivo.

            I caratteri architettonici degli edifici, almeno nel centro storico di Roma, sono tipici dell’area culturale “muraria” e, specificatamente, dell’area mediterranea delle costruzioni in blocchi (pisè, pietra).

            Giova ricordare che ci troviamo in presenza di tipi edilizi realizzati in muratura di tipo scatolare ovvero di quel particolare sistema che lavora staticamente per gravità e per forma avvolgente dando luogo ad un fitto tessuto murario in cui ogni unità edilizia collabora a formare sistema con le altre.

 

            Tutto questo articolato sistema di corrispondenze fra materiali impiegati, elementi strutturali, funzioni gerarchicamente distribuite, trova infine la sua espressività nel linguaggio architettonico.

            A seconda dell’importanza dell’edificio, delle risorse economiche profuse nella realizzazione e nella cultura più o meno spontanea o più o meno critica del costruttore, vengono rispettati i seguenti criteri:

 

            1. Tettonico. Ogni parte dell’edificio è gerarchicamente caratterizzata fra “portante” e “portato” dove il primo è sempre più grosso e più espressivamente denunciato del secondo. Avremo, allora: un basamento, a volte fortemente espresso che prende una parte o tutto il piano terra; una parete che, sviluppandosi per più piani, si gerarchizza attraverso il diverso trattamento delle finestre o mediante la partitura architettonica; una cornice di coronamento. In una parola si ha l’ “ordine” architettonico che stilisticamente può esprimersi in svariatissimi modi ma sempre con uno stesso “contenuto” di base: quello tettonico, appunto;

 

            2. Plasticità. La struttura muraria avvolgente è, per sua natura essenzialmente plastica. Affida, cioè, la sua espressività al valore tattile ed al “rilievo” delle sue superfici che sono sempre chiaramente denunciate al contrario di quanto avviene per una struttura elastica dove, in generale, si gioca su effetti coloristici nell’intento di annullare le pareti. La plasticità si affida, ad un livello più maturo, all’uso di un linguaggio architettonico che pur nelle diverse cadenze, colte o vernacolari, sviluppa un discorso estremamente aderente al principio della tettonica e quindi rigoroso.

            La base, liscia o bugnata, in pietra o in stucco, è sempre fortemente caratterizzata per essere letta come grave e di forte spessore. Le aperture ivi praticate possono non essere incorniciate se il trattamento architettonico le definisce come spazio vuoto non occupato da membrature, al contrario di una finestra che è sempre un vuoto nelle membrature. Come tale va rafforzata con una cornice, esattamente come si fa in un tessuto in cui si pratica un vuoto per realizzare l’asola per il passaggio del bottone: si orla con filo più forte.

            Tra il basamento e la superiore elevazione vi è sempre una fascia marcapiano o marcadavanzale oppure una fascia che le comprende entrambe.

            I piani superiori si sviluppano in generale senza cinturazioni dovute a marcapiani o a marcadavanzali. Le finestre dei diversi piani si differenziano per un uso diverso delle cornici o il ricorso a timpani nel primo piano -quello nobile- e normali cornici per gli altri piani.

            Sempre l’edificio si chiude con una cornice la quale conclude la falda del tetto di copertura o più raramente crea l’attico di coronamento di un terrazzo.

            Quando l’edificio è d’angolo, la cornice svolta concludendo un tetto a testata di padiglione.

 

            3. Colore. Trattandosi di architettura plastica il colore è solo una campionatura continua sull’intonaco che può differenziarsi, nello stesso edificio, solo per variazioni di tono su tono allo scopo di accentuare l’espressività delle partiture architettoniche. Ha valore plastico di materiale, non pittorico.

            Occorre introdurre, a questa scala, ma vale per tutte le altre, una categoria di valore importantissima per operare nel centro storico, ma soggetta -per incultura- a troppi equivoci: la decorazione.

 

            Il termine, infatti, sta a significare l’operazione di ornare, abbellire, però significa anche onorare, dare dignità, lustro, splendore.

            Ebbene per la cultura attuale più diffusa a livello di enciclopedie e trattati, decorazione sta a significare “ogni ornamento pittorico o plastico che si aggiunge a oggetti d’uso o a strutture architettoniche o ambienti per abbellirli”.

            In sostanza la decorazione sarebbe “qualcosa” portatore di bellezza che si “appiccica” ad un ambiente o ad una architettura supposta, logicamente, brutta o almeno insignificante, per renderla bella.

            Per fortuna esiste anche un’altra cultura, più attenta e indagatrice che ravvisa in decorum l’etimologia del termine e che significa -l’abbiamo detto- convenienza, sentimento di dignità, onore o anche, più appropriatamente al caso nostro, forma appropriata espressiva di tutti questi valori.

            Ci troviamo, infine, in presenza di una categoria o concetto generale sotto cui o mediante il quale si può interpretare la realtà. E’ una forma della conoscenza o più precisamente, in quanto interpretazione, di linguaggio.

            Come tale fatto di segni e di contenuti per esprimere valori, termini di misura, definizioni, sensazioni etc.

 

            Quanto detto, ovviamente, non significa certo che non esista la decorazione come “qualcosa che si appiccica per abbellire”.

            Anzi!

            Di questi tempi la decorazione è essenzialmente questo, nei fatti, anche se non voluto nelle intenzioni.

            Ma c’è di peggio!

            Per la confusione dominante nel campo, dovuta alla perduta unità di linguaggio fra architettura, pittura e scultura e per la conseguente incapacità a capire le espressioni di tale unità, rischiamo ad ogni momento il capovolgimento dei valori trasformando l’aspetto figurativo del decorum in decorazione nel senso più deteriore; qualcosa, appunto, di già appiccicato conservato, magari a brani, solo per abbellimento e/o “memoria” pseudo-culturale.

 

            A questo punto, invece, valendoci dell’ausilio della retorica -disciplina in odore di zolfo per i contemporanei- poniamoci una serie di domande.

            Se la decorazione è linguaggio cosa esprime?

            Nel nostro caso, l’ambiente architettonico sia esso interno od esterno, con tutto ciò che allo stesso è connesso: il modo di vivere, di concepire lo spazio in cui si opera, di intendere la realtà e la civiltà e quindi il rapporto fra l’uomo ed il mondo che lo circonda sia esso naturale che antropizzato.

 

            Come?

            Attraverso la forma, la modellazione e definizione dello spazio. Mediante “codici di comunicazione” espressivi dello “spirito del tempo” che, per essere l’uomo “animal symbolicum” sono sempre semioticamente significanti.

            Il concetto guida è appunto “lo spirito del tempo” cui la decorazione, per mantenere il valore di linguaggio, deve aderire pena, altrimenti, la caduta in ornamento, in quel tanto deprecato “qualcosa che si appiccica per abbellire”.

            Vi sono due chiavi per comprendere il valore della decorazione: come linguaggio o come stile. L’uno universale l’altro particolare.

            – Universale – Al di là degli stili, la decorazione va intesa come strumento di definizione spaziale e di volumi secondo la legge universale delle proporzioni.

            L’oggetto della comunicazione sarà un insieme di valori: armonia, equilibrio spaziale (o, al contrario, disarmonia o squilibrio) per trasmettere una serie di significati la cui comprensione genera la sensazione (quiete, eccitamento, appagamento, tensione, staticità, dinamicità, etc.).

            Se, come avviene oggi, si ricercano solo gli effetti, ovvero le sensazioni, nella illusione sillogica di risalire, con questo procedimento, ai significati e da lì ai valori ripercorrendo il cammino inverso, ecco che si fa decorazione e si formula un falso linguaggio.

 

            L’altra chiave è quella particolare.

 

            Al grado particolare si tratta di “leggere” quel che sta all’interno della definizione spaziale.

 

            Al di là della definizione volumetrica e spaziale, i motivi decorativi -figurativi, grotteschi, naturalistici, astratti- sono sempre “comunicazioni personali” dei valori presi come misura del mondo.

            In questo senso partecipano strettamente dello “spirito del tempo”.

            La sensazione di bellezza è il suggello di validità del contenuto e dello strumento. Una sorta di marchio D.O.C. di qualità.

            Al contrario, prendere a prestito le forme e i motivi decorativi per provocare la sensazione epidermica di bellezza senza contenuto sarebbe estetismo sterile. Peggio ancora quando, per un malinteso senso di ambientamento, si fa ricorso al repertorio degli stili del passato creando falsi storici.

 

            2.2. Grado edilizio

 

            A questa scala gli edifici acquistano una definizione tipologica, con un tessuto aggregativo, una area di pertinenza ed una loro individualità edilizia caratterizzata.

 

1.     Casa a schiera unifamiliare con alloggio su uno o più piani, a corpo semplice o doppio, prospettante direttamente sul percorso stradale sui bordi del quale è edificato. Ha accesso diretto dalla strada con doppio affaccio contrapposto e con due lati perimetrali in comune con tipi analoghi a formare tessuti edilizi di edificazione per aggregazione a parete urbana continua.

In versione urbana più evoluta il P.T. è adibito a bottega o magazzino e l’alloggio si situa ai piani superiori.

Ciò che generalmente tipizza la casa a schiera, oltre le possibilità di raddoppio in profondità (corpo doppio) o in altezza e il sistema di aggregazione, è l’area di pertinenza, ovvero quel che rimane del lotto edificatorio una volta edificato il tipo sul bordo del percorso.

2.     Casa in linea plurifamiliare, formatasi per fusione e trasformazione di due o più case a schiera o per evoluzione sincronica come tipo autonomo, con un alloggio o due per ogni piano, a corpo doppio o multiplo prospettante direttamente sul percorso stradale sui bordi del quale è edificato. Ha un unico accesso per tutti gli alloggi diretto dalla strada con doppio affaccio contrapposto e con due lati perimetrali in comune con tipi analoghi a formare tessuti edilizi di edificazione per aggregazione a parete urbana continua. Il P.T. è generalmente adibito a uso diverso dal residenziale a secondo del grado di spazialità urbana del percorso, nodo o piazza su cui prospetta.

 

Da questi due tipi derivano tutti gli altri, denominati pseudotipi, che possono  avere caratteristiche di aggregabilità in tessuti edilizi a formare, con i percorsi su cui prospettano, dei tessuti urbani o possono dar luogo a edifici isolati derivati dalla unione di più tipi in linea per contrazione o eliminazione degli spazi privati di pertinenza e perdita della contrapposizione degli affacci. In questo caso lo pseudo-tipo perde l’attitudine alla aggregazione e diventa isolato su lotto urbano (prospettante su quattro strade) o occasionale se all’interno dello stesso e non crea tessuto edilizio né tessuto urbano dotato di spazialità urbana.

 

            A seconda del tipo di percorso su cui prospettano, i tipi edilizi prendono caratteristiche particolari differenziandosi tra loro. L’edificazione in aggregazione dà luogo al tessuto edilizio composto da una successione di più tipi. Il tessuto edilizio rappresenta un sistema di tipi e pertanto nel grado edilizio esso si pone come valore sistematico.

 

2.3. Grado urbano

 

            A questa scala si misurano tutti gli aspetti dell’organismo-città come sistema dei sistemi. Sono sistemi i seguenti:

 

2.3.1. Sistema dei percorsi. Ruolo dei percorsi, nodi, poli, assi polari, impianto  zonizza-

          tivo;

 

2.3.2. Tessuti urbani. E’ il sistema dei percorsi con i lotti di edificazione sui bordi. A se-

condo del tipo edilizio che né è matrice, il tessuto urbano acquista caratteristiche e valori diversi. Acquista qualità urbana quando il fronte del lotto di edificazione è costituito per intero dal prospetto del tipo edilizio a schiera, in linea o –eccezio-nalmente- dello pseudo-tipo e quindi entra in relazione con lo spazio urbano;

 

2.3.3. Sistema delle funzioni urbane e loro localizzazione in tipi edilizi o in tipi  speciali

o organismi speciali. E’ in senso stretto il rapporto fra gli edifici che ospitano funzioni urbane e lo spazio che li accoglie, ovvero lo spazio urbano.

 

Spazio urbano è la pertinenza del tessuto edilizio (quindi del tipo) in ambito collettivo che si estrinseca nella strada o nella piazza su cui prospetta il tipo e si caratterizza in ragione del modo di costituirsi del tessuto edilizio e di quello urbano. A seconda della gerarchia dei percorsi, della loro destinazione (residenziale, mista, plurifunzionale) o del valore di nodalità (incrocio di percorsi di valore diverso, incrocio di funzioni, polarità etc.) si determina il valore dello spazio urbano. La specializzazione dei percorsi (in senso veicolare o esclusivamente residenziale, ad es.) ne riduce e/o annulla fortemente il valore di spazialità urbana;

 

2.4.4. Sistema degli organismi speciali (chiesa,  mercato,  scuole,  etc.)  e  loro  rapporto

          con l’impianto zonizzativo e con lo spazio urbano.

 

            2.4. Grado territoriale

 

            Questa scala non entra nelle valutazioni del Centro Storico per cui non ci si estende nella esplicitazione della stessa.

 

*      *      *

 

            L’ultima notazione di metodo riguarda la conoscenza della città ovvero il riconoscimento del suo processo di formazione che qui non affrontiamo.

 

 

            3.4. LO STATO ATTUALE

 

            Dal riconoscimento del processo di formazione della città abbiamo, come ultima fase, il quadro attuale che si caratterizza per la deviazione del processo verso il degrado.

            Come aspetti di questa deviazione registriamo:

 

            3.1. La formazione dell’anticittà ed il soffocamento e periferizzazione del centro storico.

 

            Fuori del centro storico è cresciuta, dal dopoguerra ad oggi, una periferia dove vive il 94% dei residenti.

In realtà, per i tipi edilizi e l’impianto lottizzativo adottati, nonché per la monofunzionalità residenziale, si tratta non già di una espansione urbana, ma dell’anticittà rifacentesi all’ideologia del suburbio.

            Questa anticittà, pressochè priva di identità per rinuncia alla stessa e di servizi, si riversa nel centro storico per soddisfare le proprie esigenze, ma ottenendo di degradarlo ai modi di vita della periferia.

 

            3.2. La mancata soluzione di continuità fra la città organica e l’anticittà.

 

            La città, aggredita dalle dimensioni delle espansioni prive di controllo, non ha sviluppato una soluzione di continuità che le consentisse di assorbire l’impatto delle periferie e di mettere in sistema il centro con il resto.

 

*       *       *

 

            Ma vediamo le caratteristiche di questo degrado verso cui, le deviazioni enunciate stanno volgendo il processo di continua mutazione della città. Vi è un degrado visibile ed uno intuito e subito, ma non compreso nella sua natura.

            Il primo è quello che tangibilmente constatiamo nello stato degli edifici, nel “cattivo gusto” degli interventi di manutenzione, ed in quello della decorazione posticcia delle abitazioni e dell’arredo urbano, nelle condizioni della manutenzione della città, nella carenza di servizi primari etc.

 

            Il secondo è più complesso da capire ma più sentito negli effetti. E’ anche il più difficile da spiegare.

 

 

            3.3. Degrado urbano

 

            Gli aspetti che caratterizzano, a questa scala, il degrado sono: la periferizzazione e la congestione strettamente correlati.

 

            La periferizzazione è, palesemente, un neologismo che vuole indicare il processo di corruzione di un centro che sta perdendo i suoi caratteri originali per acquisire quelli negativi della periferia.

 

            Il primo aspetto, il più clamoroso, di periferizzazione è quello della veicolarità motorizzata. Nasce come esigenza di spostamento da una periferia priva di servizi o di spazialità urbana che favorisca gli incontri, verso un centro che li possiede. Da esigenza, degenera in vizio allorchè si usa il veicolo anche quando non serve e quando risulta difficoltoso circolare per la inadeguatezza delle strade.

            E’ così che si innesca e divampa il degrado. Infatti il volume di un veicolo in movimento ad una velocità superiore a quella dell’uomo, preclude a quest’ultimo l’uso della città e dello spazio urbano. Ma non appena viene cacciato con violenza l’uomo dalle strade, la città perde la sua identità riducendosi ad essere un insieme di contenitori come la periferia. Il sistema di case con la pertinenza esterna dove si svolge la vita di relazione, diventa inagibile e l’uomo, limitato nella libertà di vivere nello spazio urbano dalla violenza del traffico veicolare, riduce le proprie relazioni, si imprigiona nei contenitori e vive una libertà virtuale attraverso la radio, la televisione ed il computer illudendosi, in tal modo di partecipare alla vita sociale.

            Senza l’uomo la città degrada perché vien meno la prima ragione della sua esistenza: la simbioticità.

 

            I due simbionti dell’organismo città si scindono, pur vivendo l’uno nell’altro, ed il degrado si accentua proprio quando si tenta di contrastarlo: è il caso della realizzazione delle zone pedonali concepite come riserve dove l’uomo protetto può circolare in libertà.

 

            Il secondo aspetto della periferizzazione è quello legato alla modificazione del tessuto urbano mediante l’edificazione di pseudo-tipi isolati all’interno di un lotto. Questo modello di edificazione, derivato dall’influsso ormai dimenticato dell’ideologia della “città-giardino” che rappresenta l’anticittà per eccellenza, induce all’indifferenza circa l’uso degli spazi esterni. Nei tessuti formati da case isolate nei lotti, le strade finiscono per specializzarsi solo in senso veicolare senza alcuna valenza urbana come accade, analogamente, nella periferia.

 

            La strada perde il carattere della “contrada”, definita dalle pareti urbane e dal rapporto intenso fra spazio esterno e quello interno delle case, per degradarsi alla sola funzione di percorrenza autonoma ed anonima.

 

 

            3.4. Degrado edilizio

 

            Nella descrizione del degrado urbano è già implicita anche quella del degrado edilizio.

            Il primo aspetto è quello della frammentazione del tipo in unità immobiliari più piccole per uso speculativo di ricovero temporaneo o definitivo. Per effetto di tale frammentazione aumenta il “carico” di abitanti sul tratto frontaliero della strada (degrado urbano), ma cambia anche il rapporto fra tipo e strada. Il tipo non è più un modello materializzato di vita, ma un “contenitore” di persone. Queste non vivono la città, non ne fanno parte. La usano.

            Il tipo edilizio, proprio perché tale e non semplicemente perché è un edificio, ha in sé una intrinseca legge di accrescimento e di mutazione. Il tipo monocellulare a schiera può raddoppiare in profondità e in altezza senza perdere la sua qualità di tipo edilizio monofamiliare. Può adibire il piano terra ad attività commerciale o artigianale portando, in tal modo, lo spazio collettivo dentro quello privato adibito ad uso pubblico e crescere in altezza senza perdere il suo valore categoriale di tipo a schiera monofamiliare. Il rapporto con la città è sempre di un nucleo familiare per il tratto frontaliero della strada. Ogni 5,50-7,50 mt di fronte strada, diventa spazio urbano di “pertinenza”, in ambito collettivo, delle due famiglie che vi prospettano. Una unità di misura organica di una contrada assai più espressivo di qualsiasi parametro dimensionale quale l’indice di edificabilità, o altro, della normativa urbanistica.

            Nel momento in cui la casa a schiera monofamiliare si unisce con una simile per sfruttare un’unica scala per più alloggi disposti ciascuno su un unico piano, si forma la casa in linea. Il fronte stradale si allarga a comprendere l’ampiezza delle due cellule originarie misurando fra i dodici e i quindici metri. Il rapporto con la strada, però, è cambiato perché la scala è diventata un percorso interno con lo stesso valore posseduto dalla strada nei confronti della casa a schiera: struttura di accesso agli alloggi.

            Ma mentre nel caso della schiera la strada -per dare accesso diretto agli alloggi- si “personalizzava” con l’identità degli abitanti frontalieri pur rimanendo pubblica struttura, con la casa in linea questo rapporto “personale” scompare.

            In sostanza con la linea si perde uno dei caratteri più forti di identità urbana.

            Vi è di più, ogni “modulo” di 5,50-7,50 mt non misura più 2 famiglie, ma ne comprende un numero maggiore.

            In questo processo organico di crescita e di mutazione vi è comunque una “soglia” di organicità che non può essere superata sia in rapporto alla larghezza stradale che in rapporto allo spazio urbano necessario a supplire quello perduto nella evoluzione del tipo. Generalmente questa “soglia” non viene superata quando l’evoluzione del tipo è diacronica ovvero per “scatti” successivi nel corso del tempo.

            Dati i lunghi periodi di tempo intercorrenti fra uno scatto evolutivo e l’altro, interviene una forma di equilibrio fra tipo e tessuto, fra questo e la città. Diverso è il caso di un tipo in linea che, ormai definito come tale, nasce in un’unica realizzazione. In tal caso l’equilibrio va ricercato.

            Si ha degrado quando, in un tessuto di case a schiera -o leggibile come tale- si inserisce una linea fuori scala.

            Si ha degrado quando si interrompe la continuità parietale di un fronte strada arretrando il tipo.

 

            Si ha, infine, degrado quando l’accrescimento del tipo si sviluppa al di fuori del processo di evoluzione; quasi a dire “contro natura”. Questa mutazione parassitaria rispetto al tipo può dar luogo ad addizioni non integrate che, con un successivo intervento correttivo possono “rimettersi in orbita”, oppure a veri e propri corpi estranei, le superfetazioni, che sono mutazioni non integrabili e non recuperabili.

            In ogni caso fino alla integrazione o alla rimozione, tali mutazioni costituiscono una forma di degrado del tipo edilizio.

 

 

            3.5. Degrado architettonico

 

            Il degrado architettonico assume diverse forme:

            a – Quando non si esprime nel linguaggio del luogo ma va assumendo, a riferimento, dei valori pittorici. Ad es. strutture intelaiate, denunciate come tali, tamponate da altro materiale, oppure strutture elastiche (balconi, pensiline, verande) con sbalzo fortemente accentuato senza mediazione di mensole, semi-volte o altro. Rivestimenti “appiccicati”  a creare variazioni di colore etc.;

 

            b – Quando si realizzano accrescimenti senza integrazione con il tipo base con incoerenza tipologica, strutturale e linguistica;

 

            c – Quando si introducono mutazioni parassitarie quali:

        accrescimenti discordanti con il tipo edilizio;

        nuove aperture senza rispetto per il linguaggio del luogo, per le caratteristiche del tipo edilizio, per lo stile espressivo;

        alterazione del partito decorativo che esprime, stilisticamente, il linguaggio del tipo;

        elementi estranei al luogo ed al tipo edilizio;

        alterazione del sistema di copertura in contrasto con il tipo edilizio ed il ruolo dello stesso nel tessuto urbano;

 

d – Quando si esprime  stilisticamente  in  maniera  incoerente  danneggiando  la

leggibilità del tipo edilizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLE ORIGINI DEL PROBLEMA DEL CENTRO STORICO DI ROMA

 

 

NOTE IN SOMMARIO SULLA STORIA URBANA DI ROMA

 

Estratto da: “Il governo del territorio”

 

            Per comprendere il problema del centro storico romano occorre rispondere al quesito: Cosa accadde in Italia ed in particolare nel Lazio nei 77 anni che vanno dalla L.n. 2359/1865 alla L.n. 1150/’42 (la c.d. Legge urbanistica)?

            Rispetto a quel che avveniva nel resto del mondo occidentale non avvenne nulla di un qualche rilievo. Ma ciò è comprensibile non essendovi, in Italia, i gravi problemi delle città investite dalla rivoluzione industriale. Tuttavia qualcosa accadde e riguardò Roma.

            Roma, ancora avvolta nel sonno papalino, nel 1871 aveva 200.000 abitanti e tutti ancora compresi entro il periplo delle mura urbane dove l’antico nucleo era avvolto da ville bellissime. Alcune uniche al mondo per la bellezza ed estensione quale Villa Ludovisi dove oggi sorge il quartiere con lo stesso nome.

            Dal 1864, però, monsignor De Merode, ministro delle armi dello stato pontificio, aveva iniziato un’operazione immobiliare per proprio conto su quella che sarà via Nazionale.

            Nel 1872 nacque la Società Generale Immobiliare proponendo la realizzazione del quartiere P.za Indipendenza al di là della stazione. Nacque anche via XX Settembre su un’idea e sull’autorità di Quintino Sella.

            Nel 1873 venne redatto un piano di “tendenze” che era in realtà un piano di ratifiche. Roma divenuta capitale del Regno d’Italia cominciò ad essere preda della speculazione e l’antico sistema economico-sociale, ancora in odore di feudalesimo, si fece pagare a caro prezzo la cessione del potere. Si trasformò infatti, in potere economico facendo e disfacendo al di là di ogni decisione politica, ma soprattutto sfruttando la incapacità tecnica e la incultura degli amministratori di allora.

            Le previsioni del piano del ’73 erano infatti:

 

– Quartiere Esquilino su terreni del Noviziato della Compagnia del Gesù;

– Castro Pretorio su terreni come sopra;

– Piazza Vittorio;

– Il Celio fra il Colosseo e S. Stefano Rotondo;

– Quartiere signorile sul Gianicolo;

– Quartiere industriale a Testaccio.

 

            Nacque, in quel periodo, la prima battaglia fra la speculazione, che voleva far crescere Roma intorno al vecchio centro avviando la urbanizzazione dei Prati di Castello, e il potere dello Stato rappresentato da Quintino Sella che voleva, invece, espandere la città verso est.

 

            Nello stesso anno la battaglia si concluse con il piano Viviani del 1873.

            Le previsioni erano:

 

1.     Quartiere lungo via Nazionale (11 ha, 6000 abitanti);

2.     Piazza Indipendenza (40 ha, 22000 abitanti);

3.     Quartiere tra Via del Viminale e S. Maria Maggiore (9 ha, 5000 abitanti);

4.     Quartiere tra S. Maria Maggiore e Viale Manzoni attorno a Piazza Vittorio (66 ha, 35000 abitanti);

5.     Quartiere Celio tra Via Labicana e Via Claudia dietro il Colosseo (9 ha, 5000 abitanti);

6.     Quartiere in una parte di Villa Ludovisi tra Via Sistina e Via San Basilio (non specif. circa 75000 abitanti);

7.     Quartiere sulle pendici del Colle Oppio a nord del Colosseo (non specif. circa 75000 abitanti);

8.     Magazzini ed opifici al Testaccio (36 ha, 4000 abitanti);

9.     Prati di Castello imperniato su Piazza Cavour, Piazza Risorgimento, Via Cola di Rienzo, con i ponti Margherita, Cavour, Umberto (65 ha, 35000 abitanti).

 

Nella vecchia Roma il piano propose di estendere la fabbricazione a tutte le lacune dell’esistente abitato.

Si insediarono 40.000 abitanti.

            Da questo periodo in avanti Roma visse la singolare avventura di redigere piani che vennero puntualmente smentiti dalle manovre speculative complici, da un lato, la insufficienza della legge n. 2359/1865 che nessuno aveva interesse a cambiare, dall’altro la forte concentrazione di potere economico in grado, come già detto, di fare e disfare.

            L’esempio si ebbe subito nel successivo piano del 1883.

            Era previsto il completamento del piano Viviani nonché:

 

            Edifici pubblici in Prati (Palazzo di Giustizia, Caserme, Ospedali militari);

 

            Lottizzazioni nuove a Porta del Popolo, alle pendici del Gianicolo, del Testaccio e dell’Aventino.

 

            Furono realizzate:

 

            Via Cavour, Via G. Lanza, Il Traforo, Corso Vittorio, Il Tritone, Via Minghetti, Via Tomacelli, Via Arenula, Via Zanardelli.

 

            Fu iniziata la trasformazione del vecchio ghetto e del quartiere dell’Oca a Piazza del Popolo.

 

            Fuori piano dell’83, la Società Generale Immobiliare con il Principe Ludovisi firmò, il 29 gennaio 1886, la convenzione con il Comune per la lottizzazione di Villa Ludovisi.

            La genericità del piano dell’83 fu la causa della distruzione di Villa Ludovisi e delle altre ville poiché non prevedeva alcuna destinazione urbanistica per le aree fuori perimetro di urbanizzazione. Tra Porta Pinciana e Porta Pia, ad esempio, i terreni erano nelle mani di pochi esponenti del potere economico e questa concentrazione consentì la possibilità di insediare nella zona un rilevante numero di abitanti. Nel complesso, fuori del piano ’83, la “febbre edilizia” interessò circa 900.000 mq. (90 ha) mentre i quartieri previsti nel piano ne interessavano 3.500.000 mq. (350 ha) e di questi 2.800.000 almeno erano ancora da edificare.

            Non vogliamo, qui, rifare la storia della speculazione edilizia romana che non si differenzia, del resto, da quella di tutto il mondo occidentale.

            Quello che ci preme invece chiarire è come, una volta attribuito un “valore di scambio” al terreno urbano perfino un principe romano, capace un tempo di rovinarsi per la gloria di realizzare una villa come quella Ludovisi, non esitò a distruggere per il reddito di speculazione, quello che altri in un paio di secoli avevano realizzato. Questo serva a dare la misura del rivolgimento che l’illuminismo provocò nella civiltà.

            Con tutto ciò va anche detto, ad onor del vero, che la speculazione romana colpì, è vero, le ville rinascimentali e barocche, ma riuscì anche a non creare lo squallore che caratterizzò molte altre città ottocentesche. Rispetto a ciò che accadrà con la speculazione post-bellica e l’avvento del Movimento Moderno, la realizzazione di piazza Esedra, via Cola di Rienzo, piazza Risorgimento, piazza Vittorio etc. ci appaiono, con il senno di poi, opere  più che eccellenti.

            Ed è ora di riesaminare con maggiore maturità critica parte degli interventi nel centro antico.

            Vienna aveva insegnato che si poteva attuare un ampliamento senza investire il centro antico, ma Parigi aveva dimostrato a quali livelli di organicità -entro  limiti ben definiti- poteva condurre l’operare all’interno di esso.      

            Per Roma il problema si poneva in maniera diverse e se…

            Ma non è con i “se” che si fa la storia.

 

            Del resto chi avrebbe potuto avere la maturità intellettuale di edificare fuori le mura di una città che al tramonto -ancora allora- chiudeva le sue porte?

            Ed anche in seguito molto avrebbe potuto essere evitato, in specie dopo il piano del Saintjust di Teulada del 1909 che aveva provocato il dibattito sulla liceità degli interventi nel centro antico; il nostro non è il rimpianto per la perdita del “colore” o una difesa del principio del non intervento nella città storica, ma una critica.

            E la critica nasce sul “come” si è intervenuto, ed il rimpianto è, non già per il “colore”, per suggestivo che possa essere, ma per il guasto irreparabile arrecato all’organismo della città.

 

            Una città è un organismo vitale storico e quindi ciclico. Ciò significa che deve cambiare, adattare la sua scala alla scala del mondo  del quale fa parte, ma nel suo mutare, nel suo continuo cambiamento, deve esserci una stabilità.

 

            In fondo si potrebbe dire, con Tomasi di Lampedusa, “bisogna cambiare, perché tutto rimanga come prima”.

            Roma, in questo, è stata il massimo esempio di organismo mutevole nel tempo e la sua cosiddetta “eternità” stà nella sua capacità di mutamento e di adattamento alla mutata scala del suo territorio.

            Quando Roma era “caput mundi” la sua struttura era molto diversa da quella che oggi conosciamo. Era il centro delle vie dell’Impero e di tutti i sistemi di pianificazione del territorio. I Romani -quelli veri- sono stati i più grandi pianificatori della storia e senz’altro i più bravi.

 

            Quando l’Impero cadde, perché troppo grande e fuori scala rispetto i tempi ed alle tecniche di allora, Roma si ridusse ad una piccola città crescendo poi nel corso di un millennio fino a quella che mostra l’incisione del Nolli: la Roma del 1748 che ospitava 157.881 abitanti La Roma del 1871 non era più grande.

            Ma quella Roma, era capitale di un piccolo stato, quello pontificio. Non aveva bisogno di adattarsi ad una struttura più ampia fintanto che il suo territorio fosse rimasto quello di uno stato rinascimentale.

            Divenuta capitale d’Italia era nella legge organica della vita che essa mutasse ancora una volta di scala. E non era il treno o altro sistema di comunicazione la ragione del suo cambiamento, né il traffico, ma il suo territorio.

            Riprenderemo con più pertinenza questo argomento quando affronteremo l’area metropolitana.

            Per ora vediamo, per indicazioni più che sommarie, lo svolgersi per fasi della storia della pianificazione romana.

            Cediamo la parola a Renato BOLLATI traendola da Studi per un’operante storia urbana di Roma scritto in collaborazione con S. Muratori, S. Bollati e G. Marinucci nel 1963.

 

            Fase della città contemporanea dall’anno 1800 ad oggi.

            La fase investe un periodo di oltre un secolo e mezzo, nel quale la città subisce l’incremento della capitale nazionale, con l’aumento della popolazione da circa 200.000 abitanti fino alla attuale cifra di 2.000.000.

 

            L’ordine dei successivi momenti di sviluppo è il seguente:

           

1.     Sviluppo urbano dall’anno 1800 al 1870;

2.     Formazione di una città nuova accanto all’antica: i piani Viviani e Saint Just di Teulada dall’anno 1870 all’anno 1930;

3.     Fase degli attuali piani dall’anno 1931 ad oggi.

 

Primo tempo

 

            I programmi, sollecitati dalle ampliate funzioni tendono alla creazione di una nuova città accanto all’antica. Questa idea costituisce la base di un nuovo organismo in futuro destinato a contrapporsi e via via sempre più a sovrapporsi alla vecchia città, fino ad inglobarla e accantonarla quale elemento particolare.

Il nuovo impianto si sviluppa nelle zone montane del Quirinale, Viminale, Equilino, gravitando verso il nuovo asse di Via Nazionale.

 

Secondo tempo

 

            Il piano di Alessandro Viviani del 1873, pur presentandosi per taluni aspetti ancora aderente alla città sette-ottocentesca, indica, negli interventi interni ed esterni, una incapacità di visione unitaria della città e dell’architettura.

            Per le sistemazioni interne, il piano attua il taglio del Corso Vittorio Emanuele e quello meno organico di Via Arenula, tra i tanti non attuati.

            Per le sistemazioni esterne, il piano propone, oltre alla realizzazione di Via Nazionale, il tracciamento del quartiere Prati e di tutti quelli compresi entro le mura Aureliane, con perno sull’asse S. Maria Maggiore – Porta Maggiore con la grande piazza Vittorio Emanuele, moderno centro della nuova capitale tra il vecchio nucleo e la Stazione Termini.

            Il piano di espansione, pur abbastanza omogeneo, non riesce a saldarsi al vecchio nucleo e diviene un quartiere periferico, dal monotono rigore della maglia a scacchiera, scollegato alla antica città dall’incombente sbarramento ferroviario e troppo arretrato rispetto al vecchio asse congiungente il centro con al Stazione.

            Il piano Saintjust di Teulada del 1909 contrappone alla vecchia città, ancora mutilata da tagli e sventramenti, un programma di espansione meno accentrato e rigido ma deciso nella direzione dominante. Il piano propone l’urbanizzazione di tutta la zona nord-est, compresa tra la Via Tiburtina e Prati, con gli assi coordinatori ortogonali della Via Nomentana e del Viale Regina Margherita-Parioli, collegando i nodi dei molteplici servizi pubblici, quali la nuova Università, il Policlinico, i parchi di Villa Borghese e di Valle Giulia con le Gallerie e le Accademie straniere, fino al nuovo settore di Piazza d’Armi, attraverso i Lungoteveri, e si estende ad ovest e a sud con i parchi del Gianicolo e della zona Archeologica, fino al nuovo monumento a Vittorio Emanuele.

            Anche questa volta la città rifiuta il deciso spostamento del centro che viceversa si sposta gradualmente da Piazza Colonna verso Termini, trasformando il nuovo impianto in una serie di episodi non omogenei.

 

Terzo tempo

 

            Il piano del “31 è più episodico e povero di carattere dei precedenti: fermo per lo più al colore locale e al mantenimento delle facciate svuotate delle strutture autentiche e ignaro della sostanza architettonica e urbana, porta a sventramenti e tagli drastici, quali quelli della zona dell’Augusteo, del Corso Rinascimento, delle Vie dell’Impero e della Conciliazione, ed altri non eseguiti.

            Il piano propone, oltre al salvataggio del quartiere Rinascimentale previsto con i citati interventi, una nuova città di espansione imperniata sulle aree del grande cuneo ferroviario di Termini, liberate dall’arretramento della stazione al Flaminio e al Casilino.

            Il graduale incremento urbano attua sviluppi contrapposti spontanei e pianificati anche esternamente al piano 1931, con la formazione delle borgate e dei nuclei periferici e con la creazione del centro monumentale dell’E.U.R., isolato oltre la zona archeologica.

 

*       *       *

 

            Fermiamo qui, prima del piano del 1959-62 che ancora ci “regola”, l’esposizione dello sviluppo per fasi di Roma per consentirci di fare il punto della situazione della pianificazione prima della legge n. 1150/’42; la cosiddetta legge urbanistica.

            Considerando il salto fra la genericità della L.n. 2359/1865 e l’imperatività della n. 1150/’42 che introdusse con decenni di ritardo rispetto al resto d’Europa, l’obbligo di redigere il P.R.G. e assoggettò TUTTO il territorio nazionale alla pianificazione e tenuto conto di quanto fu realizzato nel periodo intercorso fra le due leggi, viene spontaneo pensare che anche da noi, in maniera diversa dal resto d’Europa, vi sia stata una evoluzione nel concetto di pianificazione urbana.

            In effetti fu così e la storia urbanistica di Roma è esemplificata in proposito.

La legge n. 2354/1865, ad esempio, permetteva di fare un piano di ampliamento, ma non vincolava le aree fuori perimetrazione a sottostare ad un regime di salvaguardia delle previsioni dello strumento urbanistico. Fu soprattutto in quelle zone che si svolse la grande battaglia sul destino di Roma. La speculazione, agendo sulle aree protette, determinò il destino di Roma come città monopolare; la distruzione delle ville romane fu resa anch’essa, possibile per la mancanza di una vera legge urbanistica così come molti sventramenti nel nucleo antico furono la diretta conseguenza di una riconsolidata polarità dello stesso.

            Pur tuttavia il problema del futuro di Roma non era fuori degli interessi culturali degli ingegneri ed architetti del tempo.

            Ne fa fede il dibattito sul piano Saintjust alimentato da Gustavo Giovannoni nel 1911 riprendendo le tesi di F. G. Buls pubblicate in italiano (Estetica delle città – Roma 1903) con un saggio su Roma e la ripresa dell’argomento proposta da Marcello Piacentini cinque anni più tardi (Sulla conservazione delle bellezze di Roma e sullo sviluppo della città moderna  – Roma 1916).

            Si è discusso a lungo sul provincialismo italiano nel periodo fra le due guerre relativamente alla cultura della città ed ai problemi della pianificazione; è fuor di dubbio che per quanto attiene gli aspetti tecnici e normativi l’Italia fosse in ritardo rispetto ad altri paesi che avevano vissuto e stavano vivendo un’esperienza che il nostro paese conobbe solo molto più tardi. Se però si fa astrazione dall’aspetto tecnico-normativo, il discorso cambia radicalmente. Non si trattò di provincialismo, ma di esperienza totalmente diversa.

            Per quanto riguarda Roma è sufficiente ricordare la proposta che il Gruppo urbanisti romani, sotto la guida di Marcello Piacentini, elaborò e presentò nel settembre del 1929 in occasione del convegno tenuto nella capitale dalla International Federation for Housing and Town Planning. La proposta, titolata la Grande Roma, consisteva in un “proiezione pianificata della città vero est nel quadro di un decentramento comprensoriale che muove secondo la direttrice dei Castelli – P. Sica op. cit.”. Per comprenderne la portata innovatrice basta confrontarla con il piano che verrà elaborato 30 anni dopo.

            Considerando le diverse condizioni di partenza, l’assenza dell’EUR ancora di là da venire etc. la proposta della Grande Roma sorprende per la maturità della concezione assai più di quanto non faccia il più tardo “discendente” del 59-62. Non è a caso, come vedremo, che Roma, già prima del ’59 e nonostante la forzatura impressagli verso la direzione del mare, si sia espansa naturalmente verso est.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL FUTURO: LA QUINTA ROMA

 

 

LA CITTA’ MULTIPOLARE

 

 

            Il primo obiettivo da perseguire resta quello di una città non più monopolare come l’attuale, bensì multipolare cioè costruita da un insieme di sotto-sistemi dotati di sufficiente qualità urbana e largamente autonomi. Così da valorizzare anche da un  punto di vista funzionale le altre parti della città e consentire la riduzione degli spostamenti dei cittadini per soddisfare le esigenze quotidiane, e quindi limitare la necessità di ricorrere ai mezzi di trasporto individuali e collettivi.

 

            Una tale strategia comporta l’individuazione di un ristretto numero di zone vocazionalmente idonee e suscettibili di valorizzazione come centri di settore urbano, ai fini della creazione di “nuclei”, bene organizzati e interconnessi con le aree che vi gravitano, capaci di sviluppare un effettivo richiamo e di distrarre dal CS interessi e gravitazioni.

 

            Determinante ai fini della creazione di una città realmente multipolare risulta l’attribuzione ai vari sottosistemi di poteri amministrativi e di mezzi ben più consistenti di quelli attualmente a disposizione delle circoscrizioni.

 

*       *       *

 

1. ROMA CITTA’ METROPOLITANA

 

            Ci sembra logico, affrontando il tema del futuro di Roma capitale e città mondiale, darle una dimensione metropolitana. Non solo perché la legge n. 142/90 lo impone, ma soprattutto perché questa dimensione rappresenta la necessaria fase evolutiva di un processo di formazione dell’insediamento che lasciato a se stesso può generare una conurbazione priva di forma ed apportatrice di una catastrofe ambientale senza precedenti.

 

            Tale processo di formazione mostra l’insieme della città metropolitana come un “sistema” formato da un polo (il centro capitolino) e da antipoli, costituiti da raggruppamenti omogenei di piccoli centri contermini che stanno fra loro in reciproco rapporto di funzionalità e sussidiarietà. Non unità distinte e/o contrapposte, quindi, ma una unica grande città composta di un nucleo più grande, compatto, ma strutturato in circoscrizioni autonome, e di altri nuclei, meno compatti, strutturati in piccoli centri ciascuno con la propria identità e -per quanto possibile- con propria autonomia.

 

            L’articolazione dell’area metropolitana in sub-sistemi ha già delineato, sotto il profilo insediativo, il carattere del nuovo sistema metropolitano: un polo centrale in rapporto polare con insiemi che dovrebbero fungere, una volta strutturati, da città policentriche minori.

 

 

1.1. I quattro criteri direttori

 

            Innescando una “svolta” culturale e politica che porti al superamento della crisi, in atto da parecchi decenni, provocata da una concezione involutiva della città, tipica di chi l’ha governata fino ad oggi, si formulano quattro criteri direttori per il futuro:

 

            1. Strutturare e disegnare la città metropolitana come sistema organico dell’insieme di insediamenti che la costituiscono;

 

            2. Qualificare la città, superando il degrado della stessa, attraverso la “ricostruzione” delle periferie come condizione preventiva ad un futuro sviluppo organico;

 

            3. Rimuovere le cause del ristagno economico tenendo aperte le possibilità di sviluppo economico e tecnico. Per questo occorre una nuova capacità di governo adeguata a comprendere la realtà dell’organismo urbano e della sua economia;

 

            4. Ridare la città ai cittadini sia come servizi integrati per gli stessi, sia come partecipazione collettiva alla gestione dell’area metropolitana.

 

 

1.2. La mobilità ed il sistema viario

 

            L’articolazione della città metropolitana introduce il problema della viabilità e del traffico in funzione della ristrutturazione della polarità di Roma.

            In quest’ottica è indispensabile la collaborazione delle FF.SS. per la realizzazione di una struttura tangenziale, coordinata con quella autrostradale, sulla quale dirottare il traffico merci -sia in transito che destinato ai mercati urbani- per realizzare con terminali sulle linee stesse o su quelle afferenti, la intermodalità. Oltre a liberare le linee interne intasate dai treni merci, si otterrebbe la possibilità di disporre delle grandi superfici degli scali del polo capitolino per ristabilire la continuità del tessuto urbano ed eliminare la marginalità delle “zone di confine” che periferizzano ogni area urbana occupata da strutture specializzate.

            Inoltre è indispensabile la collaborazione per ristrutturare in senso metropolitano l’insieme dei collettori per metterli in sistema con le ferrovie concesse di cui ogni sub-sistema risulta dotato.

            Lo spostamento del centro per equilibrare la polarità eccessiva di Roma non preclude, anzi richiede, la strutturazione del resto del sistema viario e dei trasporti. In tal senso le linee ferroviarie, adeguatamente strutturate per il servizio metropolitano, non costituiscono solo infrastruttura di supporto, ma altresì di impianto e ridistribuzione dei nuovi pesi insediativi.

            Per quanto riguarda i pesi insediativi la politica da svolgere, oltre quella di rivitalizzare i sub-sistemi è ridurre la polarità eccessiva di Roma. Obiettivo che si sposa con quello volto a spostare a est il centro, ma che si concretizza nello strutturare il territorio oltre il G.R.A. sfruttando la bretella ed i suoi tre nodi come struttura cardine del complesso sistema dei trasporti metropolitani in sinergia con l’insieme distributivo delle consolari e delle controradiali. A nord ed a sud è possibile realizzare nodi di scambio intermodali sui quali insediare le grandi strutture che devono giovarsi dell’intermodalità: annonarie (mercati generali), centri merci, commercio all’ingrosso, gli autoporti nord e sud. Nel nodo intermedio o nelle sue vicinanze può trovare collocazione il centro fieristico ed espositivo della produzione industriale della area metropolitana. Ancora ad est, nel nodo intermedio, può essere realizzato il polo termale a Bagni di Tivoli, per il rilancio del quale occorre investire massicciamente sulla qualificazione ambientale della zona, ed è sinergicamente opportuna la realizzazione di una grande struttura per spettacoli di massa.

 

            Nell’ipotesi di gerarchizzazione del territorio urbano e metropolitano, va risolto il problema della portualità minore. Roma è situata a breve distanza dal porto turistico di Nettuno e da quello di Civitavecchia. Nonostante ciò ospita, a Fiumicino, un approdo clandestino di oltre tremila imbarcazioni ed una quotatissima cantieristica navale.

Una realtà che bisognerà accettare e rendere ufficiale: Roma ed il Lazio debbono avere il porto turistico a Fiumicino e creare in conseguenza un polo turistico che riqualifichi quel desolato litorale comprendendo Ostia a sud e Fregene a nord.

 

 

2. GLI OBIETTIVI E LE STRATEGIE PER ROMA

 

            Gli obiettivi, oltre quello di attuare la struttura di base della futura città metropolitana di cui il polo fa parte, sono sostanzialmente due:

 

            1. Superare l’attuale eccesso di polarità, anche in senso transportuale, del centro storico infrastrutturando un asse polare impiantato sul collettore est delle ferrovie, coperto e intubato collegante un sistema di centri urbani integrati (o poli minori) qualificanti interi settori della città. Stabilire una forte continuità urbana nel settore est e un forte collegamento fra questo e l’EUR. Stutturare, con centri urbani integrati (o poli minori) secondari, i settori nord e ovest.

 

            Di fatto si tratterebbe di “spostare” l’antico asse attrezzato verso ovest riducendone la forte specializzazione direzionale lineare, ma recuperandone la funzione di ribaltamento del centro verso est.

            Un simile organismo porta a rivedere la perimetrazione delle circoscrizioni o comuni amministrativi in relazione al disegno della città, come appare più logico.

 

            2. Qualificazione urbana, attraverso la “ricostruzione” delle periferie, anche mediante sostituzione edilizia, come integrazione di funzioni procedendo per aree organiche con riduzione della esigenza di mobilità.

 

            Vedi, in proposito, il punto 3.2.3. e lo elaborato in dettaglio POSSIBILITA’ OCCUPAZIONALI NELLA QUALIFICAZIONE URBANA che viene allegato.

 

2.1. Millenarium

 

            L’interesse della città avrebbe imposto, ad una classe politica meno miope e vacua, lo sviluppo di un programma di più ampio respiro che, coniugando diversi obiettivi della L.n. 396/90 su Roma-Capitale, proiettasse la città nel 3° millennio affrontando il confronto in atto tra le città europee: Londra, che opera per spostare verso di sé la polarità europea in conflitto con Berlino; Hannover, Lisbona, Barcellona etc. che, per parte loro, si propongono come poli mondiali in area europea. Ciò avrebbe significato realizzare un’iniziativa di grande impatto che avrebbe dovuto prendere le mosse dalla sfida epocale (l’avvento del 3° millennio) che si sarebbe riproposta solo fra altri mille anni.

            Tuttavia tale iniziativa, pur non potendo giovarsi della citata condizione epocale per la evidente incapacità politica, mantiene intatto il suo carattere evolutivo per la città avviando, allo stesso momento:

            – la qualificazione di una parte della città fuori del centro storico;

            – la costituzione di un centro urbano integrato che sia un modello genetico per altri centri consimili e parte del sistema organizzativo della città;

            – la realizzazione parziale dell’asse polare;

            – l’articolazione di un insieme di strutture finalizzate alla formazione di un’offerta turistica di più elevato livello quali:

a)     centri fieristici ed espositivi;

b)     strutture congressuali;

c)     sistema ricettivo;

d)     strutture di intrattenimento;

e)     spazi attrezzati e strutture per spettacoli e manifestazioni di massa;

f)      auditorium all’aperto.

 

La dislocazione urbanistica di tale iniziativa, che è stata denominata MILLENARIUM, qualora non possa essere concentrata in un’unica area, dovrebbe essere articolata in modo da costituire un continuum spaziale.

Il sito di MILLENARIUM potrebbe essere rappresentato dalla zona che dallo scalo merci di S. Lorenzo, di cui si auspica il trasferimento, si estende verso est fino a comprendere Portonaccio, Villa dei Giordani, Centocelle. La zona FF.SS., una volta ricoperta da una piattaforma su pilotis, si trasforma in un’area attrezzata con una infrastruttura viaria e di trasporto urbana (la sospirata metropolitana) ed extra-urbana. Quest’ultima quanto mai funzionale al MILLENARIUM.

Investendo tale area e quella parte degradata con un progetto di qualificazione urbana di nuova e più matura concezione, si realizzerebbe un polo urbano generatore di analoghi organismi riqualificatori della città. A tale polo, in aree vicine ed in continuum urbano si dovrebbero realizzare le altre strutture di MILLENARIUM.

 

La realizzazione dell’asse polare (vedi) porterebbe alla realizzazione della stazione Tiburtina come uno dei poli fondamentali e la conseguente liberazione dell’area della stazione Termini che potrebbe essere, in futuro, il punto più avanzato verso il Centro, di Millenarium. (Vedi allegato MILLENARIUM)

 

 

                                                                                                          MINO MINI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLEGATO n. 1

 

 

 

POSSIBILITA’ OCCUPAZIONALI NELLA QUALIFICAZIONE URBANA

ROMA 21 Aprile 1998

 

O. PREMESSA

 

            La necessità di superare la grave emergenza occupazionale, ripropone l’opportunità di impiegare la disponibilità dell’enorme, vetusto e monofunzionale patrimonio residenziale pubblico (IACP-Comuni-FF.SS.- Min. Poste-Enti previdenziali etc.) consistente in 1.121.606 alloggi (dato 1994) per avviarne una generalizzata riconversione per la qualificazione ed il riscatto delle espansioni contemporanee delle città.

Se ne parla da anni, ma mentre nel resto del mondo da tempo si sta operando concretamente in questa direzione, da noi si procede, come vedremo più avanti, esattamente in senso contrario. Eppure l’opera di riconversione, oltre a risolversi in investimento strutturale, può innescare un numero rilevante di nuovi posti di lavoro sia nel settore dell’industria delle costruzioni che nel vastissimo indotto. Poiché non si tratta di favorire, con la rottamazione, alcun “potere forte”, ma solo togliere cittadini dai ghetti, renderli partecipi della realizzazione della loro città e di offrire condizioni di lavoro a centinaia di migliaia di persone operanti nell’ambito di medie e piccole aziende, si vuole ignorare questa possibilità. Ad esemplificazione possiamo ricordare come la triplice sindacale, insieme a Legambiente, avessero garantito, nel 1994, la creazione di 200.000 nuovi posti di lavoro attraverso il recupero di 583.000 alloggi con una spesa di 18.500 MLD pari a 92.500.000 a posto lavoro.

 

            Per parte nostra, quindi, proponiamo questa possibilità per la realizzazione della quale occorre, prima, superare l’errore politico-legislativo dell’alienazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica commesso con la legge n. 560/93.

            La proposta di riconversione in questione, è bene chiarirlo, non è identificabile con il recupero ai sensi dell’art. 28 della L.n. 457/78; trattasi di qualificazione mediante demolizione e ricostruzione. Il panorama delle espansioni urbane è costellato di orrendi ed invivibili quartieri di realizzazione pubblica. Tali agglomerati, per l’errata concezione urbanistica che li ha generati, sfuggono alla possibilità di riscatto mediante recupero e la loro sola manutenzione comporta oneri insopportabili; per non parlare della infruttuosità di un tale “patrimonio” a causa della morosità degli inquilini. Per citare il caso IACP di Roma, nell’anno 1993 si registrò un debito consolidato di 400 MLD e circa 200 MLD di morosità. Situazione di deficit, questa romana, affatto eccezionale e piuttosto diffusa in tutta Italia.

 

            Nell’attuale condizione urbana, nella maggior parte dei casi l’alienazione del patrimonio significa “vendere e diffondere degrado”. Ciò significa scaricare sulla collettività un problema gravissimo pregiudicandone la soluzione. La qualificazione urbana sarà, per gli anni futuri, l’obiettivo prioritario che potrà essere perseguito soltanto dai detentori di grandi parti di città e, nella situazione attuale, ha assunto, ormai, carattere di emergenza di sopravvivenza.

            Per le ragioni suddette, ma ve ne sono anche altre da considerare, il migliore modo per perseguire un piano di riassetto finanziario e azzeramento del debito è quello di riconvertire il patrimonio.

 

 

2. RICONVERSIONE MEDIANTE INTEGRAZIONE DI FUNZIONI

 

            Come è noto una gran parte del patrimonio pubblico è raggruppata in grandi quartieri monofunzionali: i cosiddetti quartieri dormitorio.

            La proposta riconversione, prendendo le mosse dall’art. 16 della L.n. 179/92 comma 1, dovrebbe estrinsercarsi in un programma integrato “… caratterizzato dalla presenza di pluralità di funzioni, dalla integrazione di diverse tipologie d’intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana e dal possibile concorso di più operatori e risorse finanziarie pubblici e privati”, come recita la legge.

            In altre parole si tratta di riconvertire, integrando la funzione residenziale con altre -aggiuntive- non residenziali, un patrimonio vetusto, improduttivo e fonte di dissesto finanziario, abbattendolo e ricostruendolo sotto forma di edifici residenziali di nuova concezione, uffici direzionali o per terziario in genere, edifici commerciali, ludici etc. nell’ambito di un piano integrato che veda la costituzione di parte o tutto l’edificato residenziale.

            Da tempo ci si è accorti che la monofunzionalità è generatrice di degrado urbano -quale che sia la qualità degli edifici- e da parte della cultura attenta si è cominciato ad intuire che il problema della qualificazione urbana deve porsi come ripensamento, ripianificazione e riprogettazione del fenomeno urbano e della sua gestione; tanto che, davanti a prospettive di ulteriore espansione con conseguente creazione di nuove periferie riproponenti il problema all’infinito, si comincia ad intravedere la soluzione in termini in sostituzione dell’edificio (Libro bianco sulla casa del Ministero LL.PP. 1986).

            D’altra parte il recupero, che è altra cosa da qualificazione, attuato su edifici facenti parte di tessuti edilizi compresi in sistemi urbani storici ha avuto un senso; quello attuato su edifici situati nelle periferie, al di là degli effetti migliorativi sullo immobile, non ha inciso in alcun modo sull’intorno urbano rendendo, così, dubbia la validità economica dell’operazione.

 

            Sembra più opportuno, quindi, usare il recupero quando si tratti di edifici che sorgono in ambiente urbano consolidato in termini di plurifunzionalità o anche di monofunzionalità residenziale in zone qualificate, mentre conviene utilizzare la riconversione in presenza di zone di cui gli enti pubblici posseggono la proprietà degli immobili, o una parte degli stessi, in condizioni di degrado edilizio e urbanistico.

            Tra le due situazioni si collocano quelle ad intervento misto comprendente il recupero e la riconversione.

            La validità economica di una simile proposta è evidente:

 

            a. Si utilizza, come capitale iniziale, il valore di posizione dei terreni migliorabile con una accorta progettazione urbanistica ed edilizia;

 

            b. Si introducono nuove funzioni, concretizzate in nuovi edifici, che sul mercato risultano più remunerative, più facilmente gestibili e non soggette a regime di assistenzialità;

 

c. Si abbattono edifici vetusti e improduttivi per difficoltà di gestione sostituendoli con edifici diversi, più facilmente gestibili anche con il concorso dei Comitati di autogestione (quali quelli previsti all’art. 33 L.R. Lazio n. 33/87) o di altre forme partecipative dell’utenza o proprietà diffusa;

 

            d. Attraverso i suddetti Comitati di autogestione o altri organismi partecipativi, si possono coinvolgere nell’operazione gli inquilini con diritto al riscatto (art. 2 commi 6 e 9 L.n. 560/93) cedendo in permuta del diritto di alienazione consolidato, l’acquisto di quote-parti di vecchi e demolendi edifici, evitando la frammentazione della proprietà a “macchia di leopardo”. Gli inquilini diventano, in tal modo, dei creditori in quanto finanziatori;

 

            e. Si sloggiano i  morosi;

 

            f. Si trasferiscono i non morosi in altra casa (da erigere) oppure si reimmettono nella zona di nuova qualificazione con un altro contratto di affitto dopo averli alloggiati in “case parcheggio”. Contestualmente si può istituire l’anagrafe dell’utenza (censimento) con la individuazione delle fasce di bisogno;

 

            g. Si coinvolgono nell’operazione i creditori (vedi lettera d precedente) remunerando il credito con quote di proprietà di edifici non residenziali o con forme consimili. In alcuni casi di particolare condizione urbana, la realizzazione di edifici non residenziali, integrata con edifici residenziali, il maggior valore dei primi può  consentire la riconversione a “costo zero”.

 

            I vantaggi particolari e generali sono altrettanto evidenti:

 

            1. Si crea occupazione non solo nel settore dell’industria edilizia, ma in tutti quei settori, industriali ed artigianali, che contribuiscono alla formazione della città. Come si diceva un tempo: – Quando il mattone va, “tout va”;

 

            2. Si qualifica la città. Gli Enti pubblici sono detentori di grandi patrimoni immobiliari. Da soli o in sinergia tra loro, gli IACP, i Comuni, le FF.SS., i Ministeri, l’INPDADP, l’INAIL, l’INPS etc., che in generale sono enti investitori, ma non realizzatori, potrebbero avviare un gigantesco processo di qualificazione della città se si dessero un’organizzazione promozionale adeguata e criteri di management più attuali;

 

            3. Si ripianano i debiti e si risanano gli istituti pubblici;

 

            4. Si può avviare l’anagrafe dell’utenza (censimento).Finalmente il fenomeno può essere posto sotto controllo recuperando la morosità, specialmente nel caso degli IACP e dei grandi comuni;

 

            5. Si rinnova il patrimonio riprogettandolo in modo che la gestione futura non sia più negativa. Si opererebbe puntando, in primo luogo, alla qualità urbana ed edilizia più che alla quantità a basso costo iniziale;

 

            6. Si attiva il mercato e si fa circolare il capitale.

 

 

3. GLI STRUMENTI

 

            Gli strumenti normativi per la riconversione sono essenzialmente sette.

 

1° – La legge 179/92 (Botta Ferrarini) per i Programmi integrati di cui all’art. 16.

Nonostante l’annullamento dei commi 3-4-5-6-7 da parte della Corte Costituzionale con sentenza 19 ott. ’92 n. 393, l’art. 16 mantiene intatta la sua potenzialità.

            Si tratta di operare con il concorso di più operatori economico-finanziari, sociali, amministrativi, professionali per esercitare pressioni per la celerità dei tempi e per l’accordo sui contenuti.

 

2° – La L.R. Lazio N. 40 del 10 aprile 1990 e simili leggi regionali. Questa legge, in particolare, riguarda il recupero, ma il contenuto degli articoli, in combinato con l’art. 16 della L.n. 179/92 consente di ottenere finanziamenti per lo studio e la progettazione (recupero attraverso la riconversione e qualificazione urbana) dei programmi integrati. Inoltre, all’art. 5 comma 5 introduce il principio della priorità per i piani integrati quando richiedano varianti allo strumento urbanistico vigente.

 

3° – La legge n. 241 del 7 agosto 1990 per l’accellerazione e lo snellimento delle procedure.

 

4° – La legge n. 142 dell’8 giugno 1990 per quanto attiene la partecipazione popolare (art. 6) attraverso i Comitati di autogestione ex art. 33 L.n. 33/87 e per quanto attiene l’accordo di programma fra Regione, Comuni, IACP etc. in quanto “altro soggetto pubblico” di cui all’art. 27 commi 1 e 5.

 

5° – La legge n. 560 del 24 dicembre 1993 per quanto attiene l’alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Tale legge andrebbe interpretata ed impiegata nel senso di vendere quote-parti di vecchi e demolendi edifici come capitale da investire nel programma di riconversione/qualificazione.

 

6° – L’art. 17 comma 59 della L.n. 127 del 15 maggio 1997 per la costituzione di società di trasformazione urbana il cui spettro di azione dovrebbe abbracciare anche la possibilità di agire in variante degli strumenti urbanistici vigenti.

7° – Deliberazione del CIPE sulla Disciplina della programmazione negoziata del 21 marzo 1997 per le intese e la costituzione del partenario (sic) sociale mediante l’istituto dei contratti d’area.

 

            Agli strumenti suelencati dovrebbero aggiungersi regolamenti specifici che consentano, anche per la riconversione, la possibilità di costituzione delle società miste (di cui al punto 6° art. 17 c. 50) con la partecipazione degli enti proprietari del patrimonio da riconvertire, degli acquirenti di quote-parti di demolendi edifici e delle imprese.

            Inoltre, per accedere ai finanziamenti stanziati dalla L.n. 662/96 fondi ex GESCAL, la rinconversione dovrebbe potersi inserire, con proprie caratteristiche, nell’istituto dei “contratti di quartiere” previsti dal bando del Ministero LL.PP. del luglio ’97.

 

 

                                                                                                          MINO MINI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLEGATO n. 2

 

MILLENARIUM

 

            E’ evidente come il volgere del millennio rappresenti, un’occasione di riflessione su tutta la vicenda civile di coloro che misurano la loro storia dalla nascita di Cristo, siano essi cristiani o meno.

Diversamente dagli altri paesi, nel campo delle conquiste dello spirito umano – quali sono quelle conseguite dalla scienza, dalla tecnica, dall’economia, dalla politica e dall’arte – vogliamo ricercare le ragioni delle “deviazioni” del pensiero moderno per rimettere in orbita il processo reale della civiltà. A questo ideale pellegrinaggio verso il rinnovamento del “modello di civiltà” che in tutto il mondo è entrato in crisi per l’incertezza dei valori di riferimento, devono poter partecipare tutti gli uomini e Roma e l’Italia devono rendere tangibile, materializzandolo concretamente in ambiente costituito, tale “modello”.

            Ma come Roma stessa dimostra palesemente con il 94% del suo edificato ad emblema di ciò che avviene in tutto il mondo moderno, l’ambiente costruito, la città, da tempo non rispecchia più la totalità dell’uomo, né rappresenta più il luogo dove lo spirito si invera nella materia concretizzando la civiltà in termini di calce, pietra, mattoni e cemento.

 

            Il Comitato, al fine di cogliere l’occasione epocale per la riaffermazione dei valori civili più evoluti atti a comprendere la realtà del mondo contemporaneo e renderlo tangibile concretamente, propone -quindi-, la promozione e la realizzazione di una grande esposizione millenaria permanente da denominarsi MILLENARIUM, da tenersi a Roma e -in coordinata e con contenuti distinti ma complementari- nelle città più significative d’Italia.

 

            Se ne elencano alcune già sedi di importanti manifestazioni espositive:

            Torino                        (Salone auto e design industriale)

            Milano                                   (Industria)

            Genova                       (Nautica e cantieristica navale)

            Venezia                      (Cinema-Teatro-Televisione-Cultura e media)

            Bologna                      (Edilizia)

            Firenze                       (Artigianato e arte)

            Napoli                        (Fiera d’Oltremare)

            Bari                            (Fiera del Levante)

            L’elenco è puramente indicativo in quanto i contenuti sono tutti da decidere.

            Per sviluppare l’ipotesi di lavoro occorre articolare la trattazione individuando dei temi che siano, al tempo stesso, quesiti di ricerca e argomento di trattazione espositiva. Essi sono, in prima analisi, i seguenti:

1.     MILLENARIUM. Finalità e contenuti

2.     I precedenti

3.     La struttura di MILLENARIUM

4.     I protagonisti realizzatori

5.     Il sito

6.     L’organizzazione di MILLENARIUM.

 

 

1. MILLENARIUM. Finalità e contenuti

 

            Molteplici sono le finalità che suggeriscono la realizzazione dell’iniziativa. Parafrasando quanto ebbe a dire il presidente del Comitato esecutivo dell’Esposizione universale di Roma 1911, conte Enrico di S. Martino, nel discorso d’insediamento, si potrebbe enunciare la sintesi delle finalità in questi termini:

 

“Roma e l’Italia chiamano il mondo a riconsiderare il cammino della civiltà dello spirito percorso in due millenni di storia per superare le secche del pensiero moderno ed aprire la strada all’evoluzione nel 3° millennio”.

            Per analizzare, invece, nei diversi aspetti la finalità del MILLENARIUM possiamo distinguere:

 

            1. Funzione politica. Questa si esprime in tre gradi di complessità: internazionale, nazionale e romana. La funzione politica internazionale dovrebbe ridare all’Italia un ruolo geo-politico nell’ambito mediterraneo e mediorientale oggi negletto. Inoltre, in occasione del MILLENARIUM, si potrebbe dar vita ad un “forum dei popoli” su temi di grande attualità – risorse, difesa dell’ambiente, biogenetica etc. – che affermino un nuovo ruolo diplomatico della Italia nel conflitto fra popoli ricchi e poveri, fra neocolonialisti e neocolonizzati.

            La funzione politica nazionale mira a ridare alla visione unitaria dello stato nazionale il valore di identità collettiva, sintesi delle individualità locali. Dare a tutti un obiettivo unitario da perseguire raggiungibile in quanto italiani, ovvero detentori di una visione del mondo distinta da quella più genericamente definita “occidentale” di cui, comunque, siamo partecipi e contribuenti. Un obiettivo individuabile in un “modello di vita” tutto italiano.

            La  funzione  politica romana punta a chiudere il ciclo, da internazionale a locale, per affermare un perseguendo ruolo di “capitale mondiale” insieme alle altre capitali mondiali esistenti, ma con una caratterizzazione diversa moralmente e culturalmente. Roma e l’Italia devono mostrare, ancora una volta, nel MILLENARIUM, il modello che vogliono concretizzare: la città dell’uomo del nuovo millennio. In sostanza: MILLENARIUM dovrebbe, come finalità politica, perseguire il sogno di far evolvere l’uomo più che moltiplicare le cose che lo gratificano e lo condizionano.

 

            2. Funzione culturale. E’ ciò che motiva, al fondo, la funzione politica.

            Attraverso mostre, convegni, pubblicazioni, MILLENARIUM deve rivisitare, in chiave processuale, tutti gli ideologismi degli ultimi due secoli riproiettandoli in una dimensione temporale millenaria e superandoli in una più matura concezione del mondo. La visione del mondo secondo la scienza, la filosofia, l’economia, le istituzioni giuridiche e l’arte si dovrà confrontare con l’espressione materializzata della civiltà: la città dell’uomo. Da qui il mito che MILLENARIUM dovrebbe risuscitare come obiettivo particolare: Roma eterna ovvero la QUINTA ROMA.

            Di tale Roma rinnovata nei contenuti sociali ed economici, oltre che nell’immagine, MILLENARIUM dovrebbe essere il modello genetico da riprodurre per dare al 94% dei suoi abitanti e del suo edificato una identità romana. La funzione culturale del MILLENARIUM, oltre a mostrare “modelli di vita” estrinsecati in modelli di città, dovrà porsi il problema dell’arte come intuizione del mondo e dell’evoluzione del rapporto uomo/ambiente.

 

            3. Funzione economica. MILLENARIUM deve dare profitto al capitale investito e diventare un volano per l’economia italiana.

            Il primo obiettivo si basa sui visitatori paganti e sulla pubblicità. Il concetto dell’esposizione come “Il più grande spettacolo del mondo” – inteso come espressione di comunicazione – deve denominare l’iniziativa. Ad esempio: i grandi spettacoli di massa di livello internazionale dovranno costituire il richiamo costante di pubblico pagante.

            Una sicura fonte di finanziamento potrebbe essere data da una lotteria come fu per la Esposizione Internazionale del 1911.

            Un indotto immediato e un aspetto del volano per l’economia del futuro è rappresentato dal turismo. Roma e l’Italia, sotto questo aspetto, hanno risorse immense.

            Il turismo offre un’occasione unica per il rilancio dell’occupazione, per l’aumento del PIL ed il riequilibrio dei conti con l’estero. Alberghi, strutture congressuali, espositive, ludiche saranno le strutture primarie del MILLENARIUM.

            L’indotto più importante, però, sarebbe dato dal volume degli affari che potrebbe essere trattato nelle diverse fiere e lo scambio di tecnologie di cui si potrebbe dar luogo.

 

            4. La funzione sociale. MILLENARIUM è già, di per sé, un’opera altamente sociale essendo la realizzazione di uno dei modelli/poli secondo i quali dovrebbe configurarsi il futuro disegno delle città. Nel caso di Roma, sarebbe uno dei poli da realizzare nell’ottica di superamento dell’attuale PRG in chiave metropolitana. Polo realizzato bonificando un quartiere degradato. Si vedrà più avanti al punto 5.

            L’esposizione sarà una parte reale della città futura nella quale il cittadino troverà il modello concreto della vita urbana dell’inizio del 3° millennio. Sarà la realizzazione di quello che tecnica e scienza, economia diritto ed arte sapranno concepire di meglio in termini di città. Sarà la vetrina del mondo futuro come lo immagina la civiltà occidentale.

 

 

2. I precedenti

 

            A Roma ne abbiamo due: la Grande Esposizione internazionale del 1911 e quello mancato dell’E 42 poi diventata EUR.

            Della prima vi sono molte cose da dire, ma le più importanti, ai nostri fini, sono due:

– i tempi di realizzazione;

– le opere realizzate e la loro influenza urbanistica.

            Quanto ai tempi di realizzazione, vi è da dire che per concepirla e portarla a compimento occorsero circa tre anni. Il discorso parafrasato del conte Enrico di S. Martino fu pronunciato il 31.01.1908. Ogni aggiunta è superflua.

            Quanto alle opere realizzate ed alla loro influenza urbanistica si citano:

– il concorso per la casa moderna (villino);

– il quartiere espositivo a vigna Cartoni, ovvero l’attuale Valle Giulia con i suoi musei e le sue accademie internazionali;

– il ponte Flaminio che collegava vigna Cartoni con la p.za d’Armi (viale Mazzini e dintorni) dove erano situati padiglioni e dove doveva sorgere il quartiere modello;

– il completamento dell’Esedra e la realizzazione di ponte Vittorio che completava l’asse che dalla citata piazza, attraverso via Nazionale e C.so Vittorio Emanuele, portava a S. Pietro;

– il completamento di p.za Venezia;

– la passeggiata archeologica;

– il restauro di Castel S. Angelo;

– il cavalcavia tra il Pincio e villa Borghese;

– il giardino zoologico più moderno (per allora) d’Europa;

– l’ippodromo;

– lo stadio nazionale.

            Anche qui risulta superfluo ogni commento.

            Il secondo precedente è fin troppo noto rappresentando, oggi, l’unico esempio romano (e non solo) che abbia un’identità precisa. Inutile ricordare il ruolo fondamentale esercitato dall’ex E42, divenuta EUR, nelle olimpiadi del 1960.

 

3. La struttura del MILLENARIUM

 

            L’articolazione del MILLENARIUM è, come abbiamo detto, diffusa a livello nazionale ed è costituita da:

– centri fieristici ed espositivi;

– strutture congressuali;

– sistema ricettivo;

– strutture di intrattenimento e ludiche;

– centro informativo con sale multimediali;

– spazi attrezzati e strutture per spettacoli e manifestazioni di massa;

– auditorium all’aperto e, disponendone, al coperto.

            La dislocazione urbanistica, qualora non sia concentrabile in un’unica area, dovrebbe essere articolata in modo da costituire un continuum spaziale, percorribile, cioè, con spostamenti pedonali e, quando occorra, meccanizzati nell’ambito del MILLENARIUM locale.

            Principio basilare della struttura unitaria del MILLENARIUM è quella di essere permeabile allo scambio di relazioni con la città fino ad identificarsi quale parte integrata (in termini di funzioni) con la stessa.

            A Roma, in particolare, MILLENARIUM dovrebbe identificarsi come uno di poli urbani secondo i quali dovrebbe costituirsi la città.

            Alcune particolari strutture e/o manifestazioni potrebbero o dovrebbero essere collocate in luoghi separati dall’insieme (ad esempio: le strutture e gli spazi attrezzati per spettacoli e manifestazioni di massa per ragioni di controllo delle emissioni acustiche e di affluenza contemporanea del pubblico), ma sempre deve esservi la sensazione di continuità spaziale.

 

            L’insieme delle strutture “logistiche” dovrà essere affiancato da quello organizzativo e gestionale.

A secondo delle finalità perseguite (vedi 1° cpv.) dovranno essere messi a punto i diversi aspetti attuativi e gestionali ma sempre avendo riferimento al significato dell’avvenimento: l’avvento del 3° millennio.

 

            MILLENARIUM dovrà fornire il riconoscimento del processo di formazione della nostra civiltà individuandone la possibile evoluzione futura e tentando di “rimettere in orbita” una coscienza più matura e diffusa della stessa.

 

 

4. I protagonisti realizzatori

 

            In prima istanza possono identificarsi, nei realizzatori tutti coloro che possono trarre profitto dal MILLENARIUM:

– costruttori;

– industriali interessati allo scambio di tecnologie e ad aprire nuovi mercati;

– finanzieri;

– impresari degli spettacoli di massa;

– operatori turistici;

– editori multimediali;

– etc.

            Oltre a questi, italiani e stranieri, direttamente interessati sono:

– i proprietari del sito;

– le FF.SS;

– i Comuni;

– l’IACP;

– gli Enti investitori;

– gli Enti Fiera (ultimi, ma non ultimi).

            Occorre formare un primo nucleo di possibili investitori, ai quali deve essere sottoposto un programma articolato del quadro generale di MILLENARIUM, e attraverso la loro mediazione ricercare altre decisioni.

 

 

5. Il sito

 

            In questa prima fase ci si riferisce a Roma, ma i criteri sono validi anche per le altre città.

            La città contemporanea extra Centro Storico, il già cennato 94% dell’edificato, è composta, in parte, di quartieri monofunzionali (dormitori) di proprietà pubblica (IACP, Comune di Roma, ENASARCO, INPDAP etc. etc.) i cui costi di gestione e manutenzione sono diventati proibitivi per l’errata concezione urbanistica che ne ha prodotto la nascita. Questa situazione sulla quale non ci soffermiamo rinviando ad altri scritti sull’argomento è una delle basi della strategia del MILLENARIUM.

 

            La seconda base è costituita dal sistema delle ferrovie. Come ognuno sa, le ferrovie costituiscono una invalicabile barriera alla continuità della città. Talvolta ciò costituisce un vantaggio limitando la congestione dell’edificato senza regole, talaltra rappresenta un notevole fattore di dissociazione e disorganicità. Alla luce della realtà urbana romana oggi le FF.SS. rappresentano la speranza di ottenere in breve tempo un servizio di metropolitana e di avviare un processo di qualificazione urbana. Esistono diverse aree ferroviarie suscettibili di svolgere questa funzione.

            Il sito di MILLENARIUM dovrebbe essere un quartiere monofunzionale in degrado vicino ad una di queste zone ferroviarie. La zona FF.SS., una volta ricoperta da una piattaforma su pilotis, si trasforma in un’area attrezzata con una infrastruttura di trasporto urbana (la tanto sospirata metropolitana) ed extra-urbana. Quest’ultima quanto mai funzionale al MILLENARIUM. Investendo tale area e quella del quartiere degradato con un progetto di qualificazione urbana di nuova e più matura concezione, si realizzerebbe un polo urbano generatore di analoghi organismi riqualificatori della città. A tale polo, in aree vicine ed in continuum urbano si dovrebbero coniugare le altre strutture di MILLENARIUM.

            Senza addentrarsi in una descrizione dettagliata, l’operazione si presenta fattibile e soddisfacente per tutti:

       le FF.SS. che senza perdere nulla delle loro strutture le potenziano ad una scala senza precedenti;

       gli abitanti del quartiere che rimarrebbero in sito, ma con ben altre qualità urbane e ben altro valore immobiliare;

       la città per guadagnare un polo urbano e strutture di servizio di alto livello;

       gli investitori per i profitti;

       il mondo per MILLENARIUM.

 

 

6. L’organizzazione di MILLENARIUM

 

            Abbiamo detto in apertura che i capoversi trattati, questo ultimo in particolar modo, costituiscono individuazione di temi ovvero quesiti di ricerca. La trattazione espositiva riguarda solo l’enunciato del tema non la trattazione esaustiva dello stesso.

            Per l’organizzazione di MILLENARIUM vale ancor di più questo criterio dal momento che intervengono in essa diverse competenze.

            Una dissertazione teorica sulla scienza dell’organizzazione, in particolare (ma non in esclusiva) sul “city management”, non ci sembra opportuna. Attinendo al tema ed ai principi della pianificazione, per avere una guida si rinvia ad altri scritti. Va detto, però, che occorrono competenze specifiche nei seguenti settori:

– economia e “project financing”;

– finanza;

– tecnica pubblicitaria;

– turismo (pianificazione turistica);

– informatica;

– organizzazione spettacoli;

– tecnica della comunicazione multimediale;

– divulgazione culturale;

– urbanistica & architettura;

– ingegneria trasporti;

– ingegneria impiantistica.

            Questo per cominciare a verificarsi e a perfezionare il seguente abbozzo del MILLENARIUM.

 

 

7. Roma Capitale e MILLENARIUM

 

            Poiché l’iniziativa si proietta ben oltre nel 2000, MILLENARIUM deve inserirsi, nel quadro romano, nel più ampio programma di Roma Capitale.

            Tra gli obiettivi individuati nell’art. 1 della Legge n. 396/90 per Roma Capitale, alla lettera f) e segnatamente previsto di: “costituire un polo europeo della industria dello spettacolo e della comunicazione e realizzare il sistema congressuale, fieristico espositivo anche attraverso il restauro, il recupero e l’adeguamento delle strutture esistenti”.

            Come è facile arguire da quanto già esposto, MILLENARIUM rappresenta, appunto, la estesa realizzazione di questo obiettivo e, allo stesso tempo, costituisce modello genetico dei poli urbani secondo i quali dovrebbe configurarsi il futuro disegno di Roma nell’ottica del superamento dell’attuale P.R.G. e della qualificazione della città.

 

 

                                                                                             

 

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