Pubblichiamo un terzo articolo di Ebea Franza, osservatore delle realtà finanziarie, dopo “Prepariamoci alla crisi” . (in Pagine) e “La dua strada della fiudica: ricette per l’economista”
Enea Franza
Per l’Economist, è necessario estendere il controllo alle attività fuori bilancio dele banche e costituire riserve ai fini di attivare strumenti anticiclici
Appare sorprendente che, mentre la crisi in atto è la più grave che si sia manifestata dopo quella del 1929, nessuna riforma organica dei meccanismi di governo dei mercati e delle istituzioni finanziarie abbia ancora visto la luce, né appaia in un avanzato stato di preparazione. Sul fronte delle riforme si manifestano soltanto alcuni movimenti limitati negli Stati Uniti come negli altri paesi.
Il resto, come recita una nota canzone, è noia !
Ed, infatti, tra i tanti….H. Paulson, il ministro del Tesoro e il settimanale Economist (l’unico settimanale che si sia preso la briga di cercare soluzione alla crisi) continuano ad affidare la soluzione ai problemi alle forze spontanee del mercato, con soltanto moderati mutamenti nelle regole di controllo da parte degli enti di governo del sistema è sostenuta.
Com’è noto, il ministro ha presentato alla fine di marzo del 2008 un piano di riforma, ma del piano di Paulson, a distanza di pochi mesi, nessuno sembra più parlarne seriamente, segno che dei pannicelli caldi proposti nessuno vuole più sentire parlare. La linea dell’Economist (vedi The Economist, Fixing finance, 3 aprile 2008; – The Economist, Barbarians at the vault, 15 maggio 2008 )è più strutturata ed è andata formandosi con una serie di articoli molto bene scritti, ed attenti a non scivolare sulle posizioni oramai perdenti del liberismo tout court, parte dalla considerazione che la finanza può essere resa certamente più efficiente e corretta, ma soltanto avendo presente sin dall’inizio che i fallimenti sono connaturati al sistema. In altre parole, le bolle, gli eccessi, gli eventi calamitosi, sono un male endemico e fanno parte di un sistema finanziario sofisticato ed innovativo, che è naturalmente portato a boom distruttivi. Viceversa, un sistema semplice, strettamente regolato, condannerà l’economia ad una crescita lenta, mentre, d’altro canto, una sorveglianza anche molto stretta non garantisce che non ci possano essere delle crisi finanziarie…
Non è che l’Economist faccia finta di non accorgersi che è in atto una crisi ed, infatti, per evitare di essere sommersi dai comportamenti malavitosi, la rivista economica propone alcuni interventi desiderabili ed inevitabili. Per quanto riguarda gli organismi di regolazione e di controllo del sistema, per l’Economist essi devono devono estendere lo sguardo alle attività fuori bilancio delle banche, nonché porre sotto controllo altri organismi di gestione del denaro, come le banche di investimento, gli hedge funds, i fondi di private equity. Devono, poi, essere previsti strumenti anticiclici che spingano le banche a costituire delle riserve quando i tempi sono buoni, per averle a disposizione quando essi volgono al brutto. Cosi non è oggi dove, invece, il sistema, attraverso sia l’atteggiamento delle banche, sia attraverso le regole contabili attualmente in essere, sia infine in ragione dello stesso sistema di Basilea 2, amplifica gli estremi del ciclo.
Questi cambiamenti, per i giornalisti del settimanale, non saranno esenti da costi e comporteranno un aumento dell’ammontare del capitale e delle liquidità che le banche stesse dovranno mettere da parte; questo ridurrà necessariamente il livello di intervento complessivo del sistema a favore delle imprese e dei privati. Inoltre, in un’economia aperta, un’impresa può sfuggire ad una stretta regolatoria avviata in un paese semplicemente trasferendosi in un altro.
Il settimanale sottolinea come anche per il business dei prestiti ipotecari in America sia già in via di rilevante trasformazione; centinaia di istituti finanziari sono scomparsi dalla scena, così come è crollata la falsa assunzione, che per molti si è rivelata fatale, che i prezzi delle case non scendono mai. La domanda di cartolarizzazione di prodotti complessi si è grandemente ridotta. E si potrebbe per la rivista continuare.
Spetta a Blackburn ( vi invitiamo a leggere Blackburn R., The subprime crisis, New Left Review, marzo-aprile 2008), la più radicale posizione sulla riforma della finanza internazionale.
L’economista parte dalla considerazione del ruolo generale della finanza e, fa riferimento alla necessità di subordinare tale funzione alle esigenze dell’economia produttiva e della società.
L’idea guida è che quando la finanza è vincolata in strutture di controllo sociale, essa è utile ad allocare i capitali, facilitare gli investimenti, governare la domanda in modo utile, viceversa, non regolamentata essa non è trasparente e diventa sovrana nel processo di riallocazione delle risorse, girando presso di se la parte più grande dei guadagni che essa stessa rende possibili – inclusi i guadagni anticipati prima che siano realizzati. La finanza permette, inoltre, la proliferazione degli intermediari finanziari che traggono vantaggio dalle asimmetrie informative e dagli sbilanciamenti di potere in essere. La finanza, in tal guisa, diventa onnipresente, mercificando ogni aspetto della vita e i processi di finanziarizzazione si rivelano come distruttivi come la crescita delle disuguaglianze, di salari stagnanti e di riduzione nei sistemi di protezione sociale.
Per Blackburn si richiede, quindi, una radicale trasformazione. Sarebbe, infatti, necessario inserire la finanza in un sistema adeguatamente regolato, trasformare la stessa natura delle banche sia in termini di proprietà che di operatività e creare una rete globale di fondi sociali e un sistema globale di regolamentazione finanziaria. Intanto, dal momento che le autorità statunitensi e quelle britanniche stanno mobilitando grandi volumi di risorse per salvare le banche dalle loro stesse follie e che tali istituzioni avranno bisogno ancora del supporto pubblico per ridurre il livello del loro indebitamento, questo dovrebbe comportare per loro il pagamento di un prezzo adeguato. Le istituzioni finanziarie che ricevono questi benefici (ma, in raltà tutto il sistema bancario ha, in relazione alla crisi, beneficiato negli scorsi mesi dei bassi tassi di interesse) dovrebbero contribuire emettendo delle azioni privilegiate a favore di una holding pubblica; il fondo che ne risulta dovrebbe impiegare i dividendi futuri per scopi sociali.
L’autore si richiama a questo proposito a diversi esempi e prima di tutto al periodo del new deal roosveltiano, che, con una serie di provvedimenti molto corposi – l’approvazione del Glass Steagall Act, la messa in opera della Home-Owners Loan Corporation, l’introduzione della SEC, il passaggio del Social Security Act e il varo della Federal National Mortgage Association-, rimette la finanza in linea e lla Riconstruction Finance Corporation, che operò nel periodo dal 1932 al 1946 prima per combattere la recessione e, dopo il 1940, per organizzare la produzione bellica. Essa creò molte nuove iniziative produttive, acquisendo in compenso una quota di capitale delle nuove imprese; altro esempio è il successo dell’approccio norvegese alla crisi bancaria del periodo 1988-92; tre delle maggiori banche del paese furono nazionalizzate. La manovra riuscì e le tre banche vennero rivendute al settore privato con un importante profitto, che fu riversato almeno in parte ai due fondi pensione pubblici allora esistenti.
Su questo punto bisogna ricordare che lo stesso governatore della Banca d’Inghilterra ha, nel luglio del 2008, auspicato che le banche versino del denaro per la costituzione di un fondo che aiuti ad affrontare i costi di futuri fallimenti bancari e a garantire i depositi degli investitori, aderendo nella sostanza alle idee dell’autor, e che l’idea della partecipazione pubblica con azioni di risparmi è anche nel testo del decreto di Tremonti per garantire la stabilità del sistema.
Indispensabile è, inoltre, per Blackburn la riforma dei sistemi contabili, con la creazione di un’agenzia pubblica di audit e la messa in opera di un sistema di standard contabili differente da quello attuale. Pensiamo, sul punto, che si possa ancora convergere con le idee dell’autore in merito alla creazione di strutture di audit sottoposte ad un controllo più stretto di quelle esistenti e all’incoraggiamento alla formazione di nuove, che come abbiamo modo di rilevare già in un recente articolo pubblico su questo sito, condividono gran parte della responsabilità della crisi attuale.L’utilizzo dei prodotti derivati, che possono essere utili all’economia, deve però essere controllato, rendendo tali prodotti visibili e responsabili. Si potrebbero seguire per l’autore le idee di Soros in proposito e che tenderebbero a far passare tutte le operazioni relative attraverso una borsa, con la definizione di margini di copertura delle operazioni molto stretti.
Ma la più rivoluzionaria delle questioni poste sul tappeto è, tuttavia, quella della Banca Mondiale: ad essa dovrebbero essere affidati più ampi poteri, con un livello di regolazione modellato su quello nazionale negli anni trenta ed esteso oggi a livello internazionale, con poteri di vigilanza e controlli effettivi; solo di tal guisa sarebbe possibile rendere difficile alle banche prendersi gioco di tutte le regolamentazioni. L’economista propone poi che la riforma globale innovi le clausole di Basilea 2, che hanno dimostrato l’incapacità di reggere alla crisi.
Le altre proposte riguardano i fondi di investimento e Hedge fund; Egli ritiene che soltanto delle strutture pubbliche dovrebbero funzionare come hedge funds e bisognerebbe anche trasformare le società di private equity in imprese di public equità, cosa che a mio parere stravolgerebbe totalmente il senso di tali strutture e le renderebbe inservibili, così come molto difficile appare trasformare le società di private equity in società di public equity. Forse ci si potrebbe accontentare di estesi controlli sulle stesse strutture e dell’allentamento dei legami finanziari tra di esse da una parte e le banche comuni nonché i fondi pensione dall’altra; a queste ultime strutture dovrebbe essere impedito di investire in attività molto rischiose, se non per percentuali molto ridotte del totale dei loro impieghi.
Ecco, a parer mio, alcuni punti di riflessione da cui partire per avviare una profonda modifica del sistema finanziario internazionale. L’esistente infatti a dimostrato di non reggere ed, come ho avuto più volte modo di scrivere su queste pagine, le virtù regolatrici del mercato costano in termini umano un prezzo troppo alto per essere da tutti auspicate e celebrate.