di Carlo Gambescia
E’ sempre bene parlar subito in modo chiaro. Che la grave crisi, ora sotto gli occhi di tutti, prima o poi sarebbe esplosa, era cosa nota tra gli addetti ai lavori, da almeno dieci anni Un bel testo predittivo in argomento, che spiega tutto, o comunque molto, è il libro-intervista di Giorgio Vitangeli (Dove va la finanza?, Edizioni Settimo Sigillo 2007), al quale rinviamo il lettore curioso.
Ma che la crisi sia seria è altrettanto vero. Tuttavia “brindare”,come fanno alcuni irriducibili, al crollo finale del capitalismo sembra prematuro. Per riprendere il titolo di un libro di Giorgio Ruffolo (Einaudi 2008), diciamo che il “capitalismo ha i secoli contati”. Per quale ragione?
Soprattutto perché si tratta di una crisi che viene “dopo” quella del 1929, e che dunque presuppone oltre mezzo secolo di politiche sociali e di sostegno anticiclico alla spesa pubblica e alla moneta. Nonché, sul piano mondiale, lo sviluppo di un apparato militare e di polizia, sicuramente “compiacente” nei riguardi del potere economico. E che – attenzione – non ha eguali nella storia del Novecento. Di qui la possibilità da parte di una oligarchia globalista, ma di origine e formazione euro-americana, di poter usare sia la carota del sostegno a occupazione, banche e assicurazioni, sia il bastone della repressione poliziesca contro qualsiasi sommovimento sociale.
Che poi, come abbiamo sostenuto altrove (Il migliore dei mondi possibili. Il mito della società dei consumi, Edizioni Settimo Sigillo 2005, e pardon per l’autocitazione…), il capitalismo sia entrato negli anni Settanta del Novecento, nella fase depressiva di una quarta onda K[ondratieff], iniziata con una fase espansiva nel 1940, indica solo che alla fase depressiva, ora probabilmente giunta al suo culmine, potrebbe seguire un quinta onda, segnata da una nuova fase espansiva. Guai a interpretare in chiave deterministica le teorie del grande economista russo Kondratieff, fatto fucilare senza tanti complimenti da Stalin. Il quale – e non è una battuta – probabilmente non gradiva statistiche che mettessero in dubbio le cattive condizioni di salute, e dunque la morte sicura, del capitalismo.
Ciò però non significa che la crisi in corso debba essere sottovalutata dal punto di vista dei “costi sociali”, che invece potrebbero essere consistenti. Diciamo che quanto più la reazione alla crisi economica – che però per il momento è finanziaria – sarà di tipo welfarista, quanto più sarà possibile gestirla, evitando “complicazioni” sociali. E in questo senso vanno inquadrate le misure dirigiste, e dunque tutto sommato welfariste, decise da Bush. Ma anche certe dichiarazioni di Sarkozy e Tremonti… Semplificando al massimo: il pendolo liberismo-statalismo sembra oscillare di nuovo dalla parte dei poteri pubblici.
Pertanto siamo d’accordo con l’amico Alain de Benoist, che in un’intervista al Foglio del 25 settembre 2008, ha dichiarato di ritenerla “una crisi importante”, ma non “un punto di non ritorno nella storia della civiltà occidentale”. Semmai “un avvertimento rispetto all’orientamento in cui la civiltà occidentale s’è inabissata, da quando risponde esclusivamente all’assiomatica dell’interesse”.
Impossibile dargli torto.
Vanno però considerate tre variabili non economiche.
a) La compattezza morale nel fronteggiare la crisi delle élite politiche ed economiche della sfera euro-americana.
b) Il ruolo del complesso militare-industriale in tutto l’Occidente, che invece potrebbe puntare sulla guerra all’esterno come diversivo.
c) Il ruolo della Russia e delle altre potenze non occidentali nei riguardi di un Occidente in crisi ma sempre più minaccioso.
Qualora prevalesse un visione globalista, del tipo “one world”, inclusiva delle potenze non occidentali (anche se per un arco limitato di tempo: giusto per affrontare con il piede non sbagliato un possibile ciclo “stagflattivo”, interno alla fase depressiva di cui sopra), la crisi potrebbe essere fronteggiata, e probabilmente superata. Nel caso contrario potrebbero scatenarsi guerre e sommovimenti sociali interni. Ovviamente nell’arco temporale di almeno un decennio, o forse più.
Va poi sottolineato che mentre le élite politiche ed economiche dell’Occidente, tutto sommato, sono unite tra di loro, lo stesso non si può dire dei suoi nemici esterni ed interni.
Pertanto la “festa” per il crollo finale del capitalismo, almeno a nostro avviso, andrebbe rinviata a data difficile da stabilire. Almeno per il momento. |