25 aprile, la cuccagna è finita. Una festa senza diritto di esistenza. Che divide anziché unire. E che prova ad accreditare un ruolo che i “partigiani” non ebbero affatto in una “liberazione” solo americana
Sì, la cuccagna è proprio finita. Non solo perché sono finite le autobiografie e gli
autoincensamenti ma perché, per fortuna, così come per ogni fatto che concerne gli accadimenti
storici di qualsiasi segno e di qualsiasi regime politico, gli avvenimenti ulteriori portano –
per quanto in maniera lenta e quasi inavvertita, latente, rispetto al ribollire e
all’improvviso erompere di conati passionali sanguinosi e sempre strumentali – a intrecci
inestricabili e a ricadute di polveri sempre più pesanti dovute al fatale correre
del tempo e al rinnovantesi processo generazionale, che creano fortunate coltri
stratigrafiche.
La cuccagna è proprio finita anche perché gli avvenimenti che con ritmo sempre
più serrato ci incalzano per farci addentrare entro le nuove realtà istituzionali europee
e in esse farci ben radicare, come nostra nuova linfa vitale, creano condizioni di
maggiore distacco e di maggiore campo visivo, di maggiori condizioni di spassionatezza,
non coinvolgimento, soppesamento, oggettività.
Il distacco richiesto verso avvenimenti così crudamente vivi e dolorosi per anni non è cosa
da poco da conseguire. Esso è sempre ostacolato dalla presenza stessa dei protagonisti e
dal peso di piombo, spesso alla lettera “tombale”, imposto.
Eppure, nel ripristino delle garanzie normative di tipo liberale, garanzie che si basano
innanzitutto nello statuire e nell’applicare la libertà di espressione e
di organizzazione delle minoranze, comprese quelle dei vinti, abbiamo avuto tutta una
serie di vulnus sostanziali nel corso di un lungo, grigio cinquantennio. Per fortuna
almeno non si è trattato di vulnus anche formali, poiché non vi è articolo nella
Costituzione repubblicana che sancisce come condizione fondante una proposizione illiberale
altrimenti autodistruttiva contro la monarchia sabauda e/o contro il regime fascista. Sì
una norma figura, ma alla fine, fra le disposizioni finali che hanno anche carattere di
transitorietà. In relazione all’ingresso dei maschi di casa Savoia per linea diretta di
successione, finalmente è caduta la norma. Come auspicava già dieci anni addietro il
monarchico-cattolico Domenico Fisichella, era ed è tempo che cada anche per la ricostituzione
del “partito fascista”, così come cercò di fare il defunto senatore missino Giorgio Pisanò,
che fondò il piccolo partito (privo di seguito elettorale) “Fascismo e libertà”, indicando
nella coniugazione necessaria dei due termini che erano diventati nella realtà del
regime effettivamente inconciliabili, l’esigenza di potere ritornare ad attingere a
quegli aspetti ideologici che l’esponente politico riteneva ancora validi.
Ma perché è finita proprio la cuccagna? Semplicemente perché ancora una volta, come è
accaduto per altri fenomeni storici consimili, in rivolgimenti traumatici dovuti a
disfatte militari in cui si insinuano e si collocano più o meno pretestuosamente o più o
meno fondatamente lotte intestine e rivalse ideologiche, il dopo-regime porta a fare
godere ai nuovi governanti di condizioni di forza di prestigio di apologia e di
auto-apologia davvero eccezionali. Ad una deriva, quella precedente e sconfitta da
contesti molto complessi e politicamente e militarmente formidabili, subentra una nuova
deriva in cui la partigianeria e la faziosità possono diventare cifra dilagante e
illimitata rispetto all’esigenza del ripristino delle condizioni atte a riportare alla
normalità della vita civile, e quindi all’effettivo esercizio della legalità.
Si è sempre saputo ma è stato impossibile dirlo e diffonderlo nelle scuole e nelle
piazze come condizione di maggiore presa di coscienza dell’effettivo fenomeno della
guerra civile e degli aspetti feroci che non rare volte la cadenzarono, si è sempre
saputo come il blocco dei vincitori, degli autoproclamatisi vincitori rendesse marginale
se non superflua la guerra delle armate anglo-americane contro il nostro esercito
prima e contro quello tedesco poi, dopo il nostro armistizio, ovvero dopo la nostra resa
senza condizioni che non portò libertà ma una lunga notte di guerra, guerra ancora più
aspra perché diventata guerra civile. Si è sempre saputo come la gran massa degli
antifascisti fosse sempre stata fascista sino a giorni o settimane prima, e di come
nel dopoguerra vi fu la corsa alla tessera e alle decorazioni per i partigiani,
che si moltiplicarono inverosimilmente di numero. Si è sempre saputo come il nocciolo
degli antifascisti attivi, coraggiosi e coerenti fosse sempre stato contenutissimo, e
come una parte di esso però agiva da sempre non nell’interesse del popolo italiano,
ma per tentare di raggiungere, di realizzare condizioni atte a potere rendere l’Italia
un paese satellite dell’Unione Sovietica. In questo, con grande dolore, si è sempre
saputo che i comunisti italiani arrivarono a condizioni di tradimento aperto del nostro popolo
e dei suoi confini, essendo pronti a consegnare a Tito tutte le terre del confine
Nord-orientale fino a Monfalcone. Si è sempre saputo della terribile, sciagurata
partecipazione o complicità aperta dei comunisti italiani nelle stragi dei civili italiani
nelle terre del confine orientale passate definitivamente (con la loro consonanza) agli
iugoslavi. Si è sempre saputo che i partigiani italiani commisero crimini efferrati contro
chiunque, contro civili e contro partigiani non comunisti. La truculenta storia di Moranino
e del pieno, totale coinvolgimento dei massimi dirigenti comunisti nel coprirlo nella fuga e
nell’utilizzarlo come capo-base nelle operazioni e nell’addestramento di comunisti italiani a
Praga fino agli anni sessanta è cosa che coinvolge la storia del nostro Paese anche in
relazione alle trame oscure che ci hanno colpito successivamente. Ma oggi che il comunismo è
morto sia in Unione Sovietica che in Italia (almeno in parte, visto che abbiamo due partiti
comunisti, per quanto elettoralmente minoritari, presenti e attivi), tutte queste cose e
tante altre possono finalmente essere dette da tutti alla luce del sole.
Va da sé che tutta la storia della post-liberazione è in inquacchio inverosimile, e
tralasciando le orribili pagine delle stragi ancora poco note, vediamo la contraddittorietà
di un arco politico che giudicava il ventennio fascista nei modi più diversi e contraddittori.
I giudizi dei liberali e di gran parte dei clericali erano in gran parte opposti da quelli
dei comunisti. Non di meno, il fiero e purtroppo anche ciecamente fanatico antifascismo degli
azionisti non da meno era diverso da quello dei comunisti, dei liberali, dei clericali, dei
monarchici. La cosa più grave di questo antifascismo post-resistenziale fu quella di
rivelarsi nella sua pressappochezza più fascista del fascismo, visto che di esso utilizzò
e conservò tutti gli istituti giuridici e tutte le istituzioni, gli enti, le aziende, i codici.
In una cosa addirittura lo superò: nel non avere appreso la storia del ruolo nefasto
della fazione e nell’avere ripristinato immediatamente lo status quo ante da cui era nato
appunto il fascismo: la degenerazione partitocratrica, la spoliazione dei diritti
sostanziali dei cittadini-elettori, lo svuotamento del ruolo dei parlamentari ad unico
ed esclusivo vantaggio delle segreterie politiche dei partiti e delle bande elettorali.
Ricominciò ad essere tutto una bottega, di fronte a cui gli scandali dei “telefoni bianchi”
delle classi agiate del regime fascista diventarono candida cosa. E il trasformisno,
l’illimitato abominevole trasformismo, e il suo lezzo. Fascisti della prim’ora e
combattenti repubblichini, dal cantore di “Mussolini monta a cavallo”, il Curzio Malaparte
de “La pelle” e “Kaputt” condrattittorio scandaloso e ora comunista-filocinese e il Dario Fo
dei triviali sberleffi anticlericali. Ma per “tirare a campare” quanti cambiarono casacca
da Ugo Tognazzi a chissà quanti altri. E del drappello dei fascisti razzisti e filonazisiti?
Dove mettiamo il ministro cattolico democristiano, già partigiano, storico, e fanatico
persecutore della “violenza fascista” in età repubblicana, Taviani? E dove il caposcuola dei
filosofi comunisti, Delio Cantimori?
Non dimentichiamo i pittori, e gli scrittori. Uno per tutti per l’uno e per l’altro campo:
Alberto Moravia.
Non si tratta di rifare le solite litanie, si tratta di dare uno sguardo preciso, per quanto
veloce, ai mimetismi che generano i misfatti esistenziali e politici. E di ridare memoria
agli smemorati e coscienza agli ebeti e ai falsi ebeti.
Atro che Italia rinata! Quello che vi fu di nuovo, nel bene e nel male, di buono e di peggio,
venne soltanto dagli occupanti. Ad essi dobbiamo la sicurezza del ripristino delle
istituzioni liberali e democratiche e la garanzia che il pericolo comunista non si
trasformasse in realtà.
Dopo tutti questi decenni di esaltazioni di glorie e di ingloriose glorie, oggi vi sono
dunque le condizioni reali per abbandonare questa ricorrenza che vuole continuare negli
artifici storici e nel trascinamento dei dissidi e dei rancori che già all’indomani
della divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi non aveva più grande significato
(salvo che nel ricordare tanto i massacri degli ebrei e di russi ucraini zingari e minoranze
religiose; quanto anche che la guerra era ineluttabilmente scoppiata per quanto era stato
imposto dopo il 1918 alla Germania, giochi d’azzardo di Hitler o meno, come poi realmente
avvenne).
La Francia, che aveva ed ha pieno titolo a rivendicare la data della sua liberazione,
ha cancellato feste simili da tre decenni, per primario interesse del ripristino
dell’unità della coscienza nazionale. Questo esempio non viene ancora compreso da
quanti ottusamente o strumentalmente cercarono di fare nascere l’Italia postfascista a
piazzale Loreto. L’esempio francese per le dure cervici nostrane è incomprensibile, ma
non disperiamo nel vedere il giorno in cui la festività dell’Italia rinata sarà non quella
delle mattanze ma solo e soltanto quella del due giugno, festa della proclamazione
della Repubblica, l’unica che ha titolo e dignità civile, morale e storica di
essere festeggiata e affiancata al quattro novembre, anniversario della vittoria
della prima guerra mondiale, quando gli ideali risorgimentali in gran parte venivano
finalmente realizzati. Non rimane che aggiungere come data solenne e di sacralità civile,
e come definitivo superamento dei limiti nazionali- comunque basilari, perchè espressione
di identità prossima e remota della nostra più diretta e plurimillenaria storia –
quella dell’Unione Europea, con la sua costituzione che speriamo che venga realizzata
quanto prima. È l’ unione dei destini che oggi ci preme soprattutto, e in questo non
possiamo che condividere in pieno il pensiero del capo dello Stato. Ma dall’orizzonte
del futuro vanno rimossi i cumuli di nere nuvole, i ricordi dell’irrorare sacrilego,
l’irrorare la terra con il sangue di regolamenti di conti, vendette, uccisioni abiette e
clandestine o scannamenti di piazza e non di battaglie.