BORDERLINE 2: PERIFERIE DELL’ANIMA

 

 MINO MINI

(Fonte: Il Borghese gennaio 2009)

 

 

 Perché tante periferie cingono                                                                                               le nostre città in una morsa ostile?

Giulio Tremonti

 

 

Rubo parte del titolo alla Valentina Agostinis per rispondere all’interrogativo di Tremonti: perché la periferia è una zona marginale – stando al Devoto-Oli – caratterizzata dall’essere la fascia di confine di un insediamento – la borderline – abitata da una specie antropologicamente mutante – il borderer – l’abitante del confine, la vittima inconsapevole della pianificazione urbanistica. Quella disciplina che ha spezzato la vita in frammenti distribuendo i molteplici aspetti dell’esistenza in luoghi diversi e separati tra loro ove esercitare funzioni distinte e soddisfare esigenze unitarie in modi parimenti distinti. L’habitat del borderer è il quartiere-dormitorio dove soddisfa solo il bisogno primario di rifugiarsi nel proprio spazio individuale. La marginalità lo obbliga ad impiegare il proprio tempo e le proprie risorse per doversi muovere in continuazione nello sforzo quotidiano di coniugare i frammenti sparsi della propria vita condizionandola a soddisfare il funzionamento dei cosiddetti “servizi” – termine urbanistico – realizzando il paradosso di vivere per gli stessi e non di fruirne per vivere.
Il rapporto tra il borderer  e la città  -sede, appunto, dei servizi- diventa, pertanto conflittuale e caratterizzato dalla “aggressività” psicologica che assume i più diversi aspetti. Tra i più plateali: il vandalismo gratuito, l’imbrattare l’ambiente per “segnare” indelebilmente il territorio fuori del proprio habitat alla stessa stregua dei cani che marcano l’ambito in cui si muovono, il lordare le strade e tutte quelle forme che denunciano l’invasione di un territorio sentito come un altro da sé: Tra i più drammatici abbiamo l’aggressività che sfocia nel tumulto o nella rivolta come avvenne nel novembre 2005 nelle banlieue  parigine.
La marginalità non è, quindi,un attributo meramente topografico,ma acquista un valore di predicato universale riconducibile ad una categoria dello spirito.
Diremo, allora, che periferia, fenomeno tutto moderno dovuto alla frammentazione dell’unità dell’esistenza, non è solo la borderline di un insediamento, ma identifica tutto ciò che risulta marginale alla città intesa come espressione concreta, tangibile della civiltà. Ma vediamo di capirci: se la periferia è la borderline contrapposta alla città e rappresenta, come a Roma, oltre il 95% dell’edificato esistente, cosa è mai questa mitica città?
La città è l’unità simbiotica di uomo e ambiente edificato, un organismo di grado superiore rispetto ai simbionti che lo costituiscono, dove i modi di vita e la pluralità delle istituzioni umane si danno forma in termini di case, strade,spazi sacri e profani, edifici speciali etc. E poiché non esiste città senza l’uomo che la abiti, è in tal senso che l’uomo esprime la propria identità: nel modo in cui realizza la città in cui vive; è in tal modo che da luogo ad una civiltà.
Ma qui si impone una correzione di tiro. Avremmo dovuto usare il tempo imperfetto: la città era un organismo, dava luogo alla civiltà, esprimeva l’identità dell’uomo. Tutto ciò avveniva in un altro tempo e in un mondo parallelo diverso dal nostro, dove vivevano uomini con una dimensione dello spirito, dello spazio e del tempo che non esiste più; uomini che creavano il mondo inverando lo spirito nella realtà. Ne scriviamo percependo, acuta e struggente, la sensazione di essere degli alieni da quel mondo perché – chi più e chi meno – siamo ormai dei mutanti. Ci stiamo avviando, dalla condizione di “uomini a taglia unica”, come afferma Tremonti, o “uomini ad una dimensione” come pontificava Marcuse, a quella di  cyborg. Stiamo trasformandoci,  ed in parte abbiamo completato la trasformazione, in esseri che vivono dipendenti dalle prese di energia e dalle pompe di carburante, che annullano le loro angoscie con droghe o psicofarmaci, che comunicano fra loro tramite apparecchi telefonici con protesi cellulari attaccate all’orecchio, che entrano in rapporto con il mondo attraverso il parabrezza del loro carapace   di metallo o di plastica montato su ruote, o mediante lo schermo dei loro televisori o dei loro computers tramite i quali pensano piegandosi alla loro logica o ai quali delegano sinanco l’attività del pensiero critico. Ed il processo di trasformazione si sta sviluppando prodigiosamente. Lo stadio successivo della mutazione definitiva in cyborg è già iniziato: nel Regno Unito, patria della pecora Dolly e di altri cloni, il docente di cibernetica Kevin Warwick ha già sperimentato l’innesto sottopelle di un microprocessore ed insieme ad altri robotecnici e cibernetici stanno studiando il modo di “scannerizzare” l’intera struttura di un cervello umano per trasferirlo all’interno di un computer neurale. Con la metamorfosi dell’uomo in cyborg il sogno dell’ingegnere – il prometeo della cultura meccanicistica – di “perfezionare” la natura diventa realtà; la perfezione della tecnica, prefigurata da Friedrich Georg Jünger, giunge, così, a compimento. Ma in questo passaggio da uomini a cyborg, pur avendo dilatato le nostre capacità tecniche ed ampliato il bagaglio delle nostre conoscenze, abbiamo perso qualcosa di fondamentale. Non creiamo più, non costruiamo più città perché non abbiamo più valori supremi che guidino la nostra esistenza e , quindi, trascinati come siamo nel vortice del nichilismo, non sentiamo più la necessità di inverare lo spirito dando forma all’informe. In compenso inventiamo macchine meravigliose, elaboriamo tecniche straordinarie, sfidiamo e spesso sveliamo alcuni misteri dell’universo e, ingegneristicamente, edifichiamo termitai, contenitori di vita umana, suburbi, conurbazioni, megalopoli sterminate. Tutti aspetti di un’unica entità: la periferia.  Abbiamo messo a punto, per questo, una tecnica quantitativa di cui abbiamo accennato in apertura – l’urbanistica – che, nonostante i risultati negativi conseguiti, aspira a divenire scienza e si illude di diventare arte imitando quello che, nel mondo degli uomini, era l’arte di costruire le città.
Non costruiamo più città, le consumiamo periferizzandole.
Siamo il risultato di quel generoso e magnifico sogno di costruire l’uomo nuovo capace di elaborare nuovi e più elevati valori di sintesi e creazione del mondo in virtù delle più vaste conoscenze scientifiche acquisite e delle nostre più potenti risorse tecniche ed economiche, ma che le ideologie – disumanando – hanno reso vano. Tramontate le ideologie, inaridito il mondo delle idee, aperto il baratro del nichilismo noi siamo ciò che resta: il cyborg in potenza, abitante emarginato della periferia che talvolta, come l’antico Diogene, vaga nelle antiche città, sopravvissute al dichiarato programma di dissolvimento urbano della cultura architettonica moderna, alla ricerca dello spirito del progenitore: l’uomo. Sono, infatti, le antiche città che conservano nel loro DNA il carattere genetico che ci può rivelare, ad una attenta indagine, quale sia stato il processo che, in passato, ha fatto  di un insediamento un organismo. Proprio quello che ci serve per elaborare un metodo operativo per qualificare le periferie e renderle città reimmettendole nell’orbita di evoluzione a cui ogni organismo è soggetto per mantenere stabile la propria essenza. Dobbiamo compiere un salto in avanti, per sottrarci alla stagnazione della periferia, perché è chiaro che indietro, all’antica città degli uomini, non si può tornare; soprattutto non si deve perché non siamo più quegli uomini. Possiamo, invece, continuare il processo di formazione della stessa riprendendolo da dove fu, ideologicamente, interrotto fondandolo su basi e valori nuovi. Ma trattandosi di un organismo,  simbiosi di uomo e ambiente, non è solo il secondo simbionte nel suo aspetto degradato di periferia quello che deve essere qualificato, ma anche chi la abita. Poiché è necessario, affinché un insediamento possa evolversi in città, che il simbionte uomo evolva anch’esso abbandonando la suggestione di trasformarsi in macchina o di farsi ridurre “ a taglia unica”. Possiamo e dobbiamo riprendere, su basi più mature e consapevoli, il processo di formazione dell’uomo nuovo. Possiamo recuperare il sogno rifiutando di soggiacere all’assuefazione al degrado che stronca ogni possibilità di riscatto. Ciò significa effettuare un “salto” culturale che porti al superamento non solo delle vetuste e/o nefaste ideologie degli ultimi due secoli, ma altresì della concezione meccanicistica del mondo che di queste ideologie è stata l’incubatrice. Occorre conquistare, a livello di coscienza e di conoscenza, una diversa e più organica concezione del mondo quale la cultura e la scienza più avanzate stanno riscoprendo; fisica e biologia soprattutto. Superamento che non va confuso con l’abbandono di ciò che scienza e tecnica hanno sin qui prodotto di positivo, ma che va inteso come “andare oltre” quei limiti che la scienza e la cultura meccanicistiche, meramente analitiche, non potevano valicare. Quei limiti che hanno portato all’erronea convinzione cartesiana che, smontata la complessità del mondo reale in parti più semplici per potervi operare, bastasse poi rimontare le parti per ricomporre l’unità originaria. Ma il mondo reale è molto di più che la somma delle parti che lo costituiscono talchè l’uomo di pensiero meccanicista si è ritrovato sempre come un bambino curioso che, smontato il giocattolo, incapace poi, per ignoranza del processo di funzionamento, di rimontarlo, ne contempla sconsolato le parti smembrate.
E’ quanto è accaduto con le periferie: la cultura architettonica del movimento moderno divenuta ufficiale, negatrice della città degli uomini per scelta culturale, ha elaborato un “modello” di città meccanica esemplificato dallo zoning e dagli standards statuiti dalla legge n.1150/42 altrimenti nota come legge urbanistica. In base alla stessa, la concezione meccanicistica dell’esistenza, in una illusoria oggettivazione fatta di parametri numerici, ancora oggi tenta di definire quanti metri quadri di suolo di pertinenza possono attribuirsi ad ogni metro cubo da edificare a seconda della sua destinazione, quanto spazio pubblico o privato debba essere destinato per transitare a piedi o con un mezzo di locomozione e per parcheggiare le autovetture, quanti metri quadri debbono spettare ad ogni abitante per istruirsi, divertirsi,incontrarsi,raccogliersi in adorazione di Dio, fare un po’ di sport, godere di un po’ di vegetazione più consistente di quella del proprio balcone, ricoverarsi –Dio non voglia- in ospedale, ricevere assistenza in tarda età ed infine giacere – se possibile con dignità – per l’eterno riposo. Fondate su tali parametri le diverse funzioni – residenziale, direzionale, commerciale, ludica, industriale etc. – costituenti per sommatoria la città meccanicistica, vengono impositivamente separate, distinte l’una dall’altra, ciascuna confinata in una propria area, con propri indici edificatorii e modalità di edificazione. Ne è conseguita una realizzazione di tale città per parti e per piani particolareggiati distinti: uno per le residenze, un altro per la direzionalità, ancora un altro per l’area industriale e via pianificando. Risultato: una anomica agglomerazione di parti eterogenee che non riescono a formare una città. Di questi piani generatori di periferie se ne è distinto uno particolare: il piano L.167/62 per l’edilizia economica e popolare.                                      E’ qui che gli architetti seppero dare il peggio di sé.                  Dacchè qualcuno ebbe a definirli “ingegneri dell’anima”  – pare si trattasse della buonanima di Josif Vissarionovic Džugašvili, Stalin per il secolo – si sentirono investiti del compito di riformare la società creando l’uomo nuovo in salsa progressista, abitante di una città innovata nella concezione, contrapposta alla tanto deprecata ed osteggiata città antica. Uomo nuovo con le stigmate dell’operaio per il quale veniva inventata la casa economica e popolare. La formula realizzatrice prese le mosse – e non poteva essere diversamente- dalla “macchina per abitare” di lecorbuseriana concezione e dalla utopia ottocentesca del falansterio di Charles Fourier. Il piano di zona L.167/62 fu, per l’appunto, il campo di azione nel quale poterono esercitarsi le velleità riformatrici degli esponenti della cultura ufficiale – quella delle università, degli uffici tecnici pubblici, degli IACP – che, allora in auge, alligna tuttora nella pubblica amministrazione.
A quella cultura di “ingegneri dell’anima” dobbiamo il formarsi dell’”arcipelago gulag” di periferie-dormitorio senza identità che non sia quella dell’alienazione, dell’insicurezza, del degrado. Emergono, sconvolgenti, le Vele di Scampìa, lo Zen di Palermo, il chilometrico Corviale, lo Spinaceto, il Laurentino 38, le Vigne Nuove tutte a Roma, in una proliferazione sterminata di altre realizzazioni diffuse per l’Italia. Nate per risolvere un bisogno abitativo, furono progettate per creare un nuovo modo di abitare, l’habitat dell’uomo nuovo ideologicamente predeterminato come consumatore e produttore.
Cadute le ideologie la nuova umanità fu ereditata dal capitalismo trionfante che, trovandosi il lavoro già fatto, poté risparmiarsi la fatica di creare a sua volta l’uomo  “a taglia unica” di tremontiana definizione.
Viene da rabbrividire, pertanto, quando si sente ventilare nei programmi politici il “recupero” delle periferie. Significherebbe riaffermarne la validità perpetuando, mediante il recupero, la loro condizione di marginalità. Vanno invece trasformate, qualificate demolendo e ricostruendo come sta avvenendo in altri paesi europei. Prendiamo ad esempio – per una volta a ragion veduta – da quanto avvenuto trentasei anni fa a Saint Louis negli Stati Uniti dove un intero quartiere di edilizia pubblica progettato da un’archistar  di quel periodo,progettista, tra l’altro, delle famoseTwin Towers di New York distrutte da Al Qaida, fu demolito con una spettacolare esplosione controllata: era il quartiere di Pruitt-Igoe di Minoru Yamasaki.
Un’esplosione che può assumere valore di simbolo del riscatto dal degrado e dalla indigenza essenzialmente morale che condanna gli abitanti delle periferie ad essere dei borderers, dei marginali che assediano la città.
Ma se la cultura ufficiale è ancora quella dell’epoca in cui prese forma l’arcipelago delle periferie ex L.167/62, se la stessa alligna ancora all’interno delle strutture tecniche della pubblica amministrazione, che speranze vi sono per avviare l’opera di trasformazione e qualificazione?
Infine: come trasformare e qualificare le periferie?
Lo esporremo prossimamente qui.
 
 
              

 

 

 

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