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Panorama Difesa Gennaio 2009
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L’onda di Mumbai, dall’India all’Afghanistan
Riccardo Ferretti |
L'”invasione terroristica” di Mumbai del 26 novembre non ha mancato di sortire l’ovvio effetto di riaccendere la tensione tra India e Pakistan. Con l’intero paese sotto shock per un’operazione terroristica così audace da mettere a nudo tutte le debolezze del sistema di sicurezza indiano, il governo guidato dal Partito del Congresso non poteva limitarsi a gettare in pasto all’opinione pubblica la testa del Ministro dell’Interno, Shivraj Patil, del Consigliere per la Sicurezza nazionale Mayankote Kelath Narayanan e di qualche altro funzionario di alto livello. Né un’azione così complessa poteva essere semplicemente attribuita agli “arabi” di Al-Qaida, scartando, nel nome del processo di pace, ogni ipotesi di coinvolgimento dello storico nemico pakistano. È così che, nonostante gli accorati appelli alla moderazione da parte degli Stati Uniti, il più importante “amico comune” di India e Pakistan, i primi passi dell’escalation sono stati compiuti.
Il governo indiano ha dichiarato che i terroristi dell’attacco di Mumbai erano pakistani addestrati in Pakistan e ha chiesto a Islamabad di agire duramente contro i responsabili dell’azione che ha provocato 204 morti. Il governo pakistano ha replicato che se effettivamente emergeranno delle prove nei confronti di gruppi attivi in pakistan prenderà i necessari provvedimenti e che, nel caso, saranno i tribunali pakistani a giudicare i responsabili. Islamabad ha dunque lasciato aperto uno spiraglio al dialogo, ma al tempo stesso ha minacciato, nel caso la tensione con l’India dovesse salire ulteriormente, di spostare sul confine indiano i circa 100.000 militari attulamente impegnati nel contrasto alle attività di guerriglia nelle aree limitrofe all’Afghanistan.
Nuova Delhi ha replicato che l’India “userà tutti i mezzi di cui dispone per proteggere i propri cittadini e il propiro territorio” e lo ha fatto per bocca del Ministro degli Esteri Pranab Mukherjee proprio durante una conferenza congiunta con il sottosegretario di stato americano Condoleezza Rice, giunta in India per cercare di calmare gli animi ed evitare che la situazione sfugga di mano e si traduca in un conflitto i cui effetti sarebbero devastanti per la stabilità dell’intera regione, anche se non si dovesse giungere all’impiego delle armi nuceleari di cui entrambi i paesi dispongono.
Washington ha chiesto a Islamabad di adottare la “linea dura” contro il terrorismo e di “agire con urgenza, determinazione e trasparenza”, ottenendo un formale assenso alla collaborazione da parte del Primo Ministro pakistano Gilani.
Il problema è che ciò che si chiede a Islamabad è esattamente quello che ha fino ad oggi voluto evitare, nonostante l’adesione alla Guerra al Terrorismo, ovvero lo smantellamento totale delle cellule terroristiche impiegate per tanti anni per colpire più o meno impunemente gli interessi indiani.
Le prove sinora raccolte puntano tutte sul Lashkar-e-Taiba (LET), un gruppo che conta su migliaia di affiliati in Kashmir ed è ritenuto responsabile, tra l’altro, anche dell’attacco al Parlamento indiano nel 2001 e degli attentati ai treni e alle stazioni ferroviarie di Mumbai del luglio 2006, dove persero la vita circa 200 persone. Dopo l’11 Settembre il governo Musharraf ha disposto l’interruzione delle attività dei gruppi terroristici che facevano capo ai servizi segreti pakistani (ISI) e ne ha tagliato i fondi. A questo punto questi gruppi hanno dovuto adattarsi per sopravvivere, spesso dividendosi in fazioni o sottogruppi con maggiore autonomia e accettando finanziamenti da personaggi legati ad attori diversi, inclusa Al-Qaida, entrandone dunque nella sfera d’influenza. Emblematico di questa situazione l’arresto nel 2005 di Arif Qasmani, un uomo d’affari di Karachi che a suo tempo finanziava le operazioni in India del LET per conto dell’ISI, ma che si era richiclato nel traffico di armi verso il Waziristan del Sud a favore dei militanti qaidisti.
Nonostante l’apparenza necessaria per mantenere vivo il processo di pace con l’India, l’ISI non sembra, però, aver mai chiuso del tutto i rapporti con i gruppi kashmiri e, anzi, avrebbe continuato a garantire un minimo supporto, sufficiente a mantenerli in vita per poter tornare a impiegarli nell’eventualità che il quadro politico mutasse.
Proprio nell’ambito di questo programma di supporto dell’ISI, nel corso del 2008 sarebbero stati addestrati dal LET alcune dozzine di militanti nei pressi di Mangla (nel distretto di Mirpur, in Azad Kashmir, non lontano da Islamabad). A questo proposito lo scorso settebre erano state riportate sul quotidiano The Australian, alcune voci secondo le quali Washington avrebbe fatto pressioni sul governo pakistano per la rimozione dal vertice dell’ISI del generale Nadeem Taj (sucessore dell’attuale Capo dell’Esercito, il generale Ashfaq Kiani) sospettato di fare il doppio gioco con i terroristi.
Il programma di limitato supporto al LET sarebbe stato congelato un paio di mesi prima dell’attacco di Mumbai, ma non prima dell’invio dei militanti addestrati in Kashmir (via Gujarat) dove avrebbero dovuto rimanere pronti per eventuali operazioni. I terroristi che hanno partecipato all’attacco del 26 novembre avrebbero fatto parte proprio del gruppo addestrato a Mangala e si sarebbero appoggiati per il supporto logistico a due criminali di spicco pakistani, Dawood Ibrahim e Amir Raza Khan, entrambi in passato impiegati dall’ISI con compiti simili. L’operazione sarebbe stata decisa e pianificata da leader del LET, Zakiur Rahman, ma non è chiaro se e a che livello l’ISI ne fosse stato informato.
In ogni caso le responsabilità del Pakistan ci sono e il nuovo governo di Asif Ali Zardari dovrà prendere provvedimenti, anche se non è detto che sia in grado di gestire efficacemente la situazione visto che la sua influenza sull’ISI è certamente inferiore a quella che aveva Musharraf, soprattutto se si tratta di frange deviate e, dunque, per definizione fuori dal controllo governativo.
Il governo pakistano appare politicamente troppo debole per montare un’operazione di eliminazione dei gruppi militanti islamici nel suo territorio, cosa che sarebbe vista come una resa preventiva nei confronti dell’India e rafforzerebbe la causa dei gruppi estremisti in tutto il paese, già impegnati nella lotta contro uno Stato visto come traditore della causa islamica e asservito agli interessi americani.
Per il momento Islamabad non è riuscita a fare altro che garantire un forte intervento degli Stati Uniti affinché convincano l’India a non adottare posizioni aggressive, ma ci sono riusciti solo minacciando di lasciare sguarnito il fronte afghano, consentedo di fatto ai talibani di riorganizzare al meglio le forze per colpire oltreconfine e, probabilmente, di bloccare gli indispensabili rifornimenti che raggiungono le forze della Coalizione attraverso il Kyber Pass.
La situazione è dunque molto complessa e sicuramente ne emerge una lezione importante per il nuovo presidente degli Stati Uniti: la questione afghana e quella dei rapporti tra India e Pakistan non possono essere affrontate a compartimenti stagni, come aveva provato a fare l’amministrazione Bush. La stabilità della regione può essere ottenuta solo tramite una politica di ampio respiro, in grado di affrontare contestualmente le varie questioni tra loro interconnesse. Gli Stati Uniti sono l’unico attore in grado di elaborare e condurre una politica di questo tipo, bisognerà vedere se vorranno dedicarvi le enormi risorse politiche ed economiche che questa richiede.
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