L’EMARGINAZIONE SOCIALE TRA ARCHITETTURA, URBANESIMO E SCELTE POLITICHE. TANTA VOGLIA DI RIFONDAZIONE, MA ATTENTI ALLE ILLUSIONI!

Mino Mini                                                          Anteprima da “Il Borghese” di Marzo 2009

 

 

 NEW TOWNS: VOGLIA DI RIFONDAZIONE E/O RACCATTO DEGLI SCARTI URBANISTICI?

 

 
“ Il nostro intento è quello di realizzare delle NewTowns vicino ai capoluoghi di provincia per aiutare chi non ha casa o le giovani coppie che attualmente non possono permettersi l’acquisto di un appartamento. “
 
       Non è la citazione di un leader politico inglese dell’immediato dopoguerra quando, nel 1946 dando corpo ad una discussione che si era sviluppata nel decennio precedente, venne dato avvio al programma che in tre fasi, nell’arco di un trentennio, portò alla fondazione di numerose città nuove. E’ la dichiarazione di Silvio Berlusconi in margine all’accordo sulle infrastrutture stilato tra Palazzo Chigi e le Regioni Piemonte e Molise.
        Vengono alla memoria le immagini violente del film “Arancia Meccanica” ambientate – se ricordo bene – nel quartiere modello di Thamesmead, fiore all’occhiello di tutto il programma delle New Towns, che fu vandalizzato, appena dopo l’assegnazione, dai nuovi abitanti in reazione all’assurdità ed astrattezza della concezione urbanistico-architettonica del mondo in cui andavano a vivere. E sempre alla memoria di chi scrive ritorna la sensazione di gelo e sgomento che ebbe a provocare nel corso di una lezione di caratteri distributivi nella facoltà di architettura di Roma allorché, dopo una proiezione di un reportage sulle New Towns, l’autrice Paola Coppola D’Anna, assistente del corso, aprì la discussione. Si era verso la metà degli anni ’60 e si era conclusa da poco la seconda delle tre fasi di realizzazione delle NewTowns. Il reportage di cui sopra si proponeva, appunto, di documentare – a scopo di studio – questo famosissimo evento urbanistico. Nel ricordo sfugge l’esattezza dei termini dell’intervento, ma il senso della critica negativa che fu espressa era che non si poteva creare l’ambiente dell’uomo senza il concorso dello stesso. L’uomo non si adatta passivamente all’ambiente, ma lo modifica secondo la sua concezione del vivere. Un conto è che un gruppo sociale fondi una città in un ambiente vergine ed estraneo, l’identità dello stesso si formerebbe e si consoliderebbe proprio nell’atto fondativo; altro è pensare di assemblare meccanicisticamente diversi esseri umani e immetterli in un astratto ambiente costruito per loro affinché formino compagine sociale.
        In un ambiente culturale che rivendicava il ruolo rivoluzionario dell’architettura nella formazione di una città nuova concepita come matrice formativa dell’uomo nuovo, un intervento
critico verso la più sofisticata cultura architettonica del tempo dovette suonare, alle orecchie della docente e dei colleghi studenti, come un crepitar di mitraglia contro la Croce Rossa. Ma già allora il modello delle New Towns, bandiera della cultura architettonica e sociale della sinistra, era entrato in crisi e la terza fase del programma abbandonò il concetto di città satellite impersonato dalle realizzazioni di prima e seconda fase optando per interventi riequilibratori nelle zone meno sviluppate, ma con una chiara identità, attraverso il potenziamento dei centri urbani esistenti e la creazione di nuovi poli di aggregazione. Ci volle qualche decennio ancora perché la cultura architettonica riconoscesse il definitivo fallimento delle New Towns ed entrasse in crisi il concetto ideologico di riformare ( rieducare ) le classi popolari – identificate con quelle operaie – con l’insegnare loro a vivere concentrati in “contenitori” di forza lavoro secondo nuovi modelli di civiltà urbana.
        Nell’anno del Signore 2009 , dopo sessantatrè anni dalla prima formulazione del modello delle New Towns ed un trentennio di fallimenti sociali, architettonici ed urbanistici, sentire la volontà politica del centrodestra raccattare gli scarti delle elaborazioni intellettuali della sinistra fa riflettere amaramente.
        La prima riflessione richiama alla mente la pratica consolidata della speculazione edilizia orientata a realizzare quartieri “integrati” in aree marginali alle grandi città e lo stravolgimento del DL 112/2008 governativo di cui discettammo a novembre su queste pagine sotto il titolo “Il grande inganno” : – vuoi vedere che lo snaturamento parlamentare del decreto del governo è stato “pilotato” da quest’ultimo avendo, come riferimento, la realizzazione di interventi tipo Milano Due, magari low cost, chiamandoli con il più nobile nome di New Towns ovvero, italicamente, città nuove? A pensar male si fa peccato, lo sappiamo, ce l’ha insegnato Andreotti rivelandoci, al tempo stesso, che quasi sempre ci si azzecca; chiediamo quindi venia per il malizioso pensiero e passiamo ad una seconda riflessione assai più seria.
        Viene da chiedersi: visto che tali New Towns saranno, per scelta, delle borderline di capoluoghi di provincia, quale sarà l’identità dei loro abitanti posto che l’unico loro carattere comune sarà l’essere indigenti economicamente e abitativamente? Non potranno, infatti, identificarsi con le periferie dorate, marginali anch’esse, ma superaccessoriate e supervigilate da propri organismi di sicurezza, dove l’assenza di vita sociale, collettiva, è il sacrificio quotidiano tributato alla privacy in cambio del prestigio derivante dal vivere in un  luogo esclusivo ovvero dotato di piena e unica pertinenza per i beneficiari e rispetto al quale il mondo comune è tenuto fuori. Per queste italiche New Towns, purtroppo, la marginalità non comporterà prestigio, ma esclusione ovvero estromissione dal godimento della qualità urbana.
        E come pensa, allora, il centrodestra si possa risolvere sul piano progettuale questa ulteriore proliferazione delle periferie? Ricorrendo alle archistars per indorare l’amara pillola o raccattando qualche docente universitario nelle ribollite facoltà di architettura?
        E’ chiaramente un problema culturale su cui occorre fare chiarezza. Facciamo a capirci, soprattutto cominciando dal termine cultura che oggi copre tante cose che di culturale hanno ben poco. A consultare il Devoto-Oli se ne ricava la seguente definizione: complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico. Tale definizione calza come un guanto per esprimere l’architettura e le sue manifestazioni: case, vie e piazze, edifici speciali, quartieri, città, paesaggi urbani etc. che su queste stesse pagine definimmo l’unità simbiotica di uomo e ambiente edificato (v. Periferie dell’anima). Nella fase epocale che stiamo attraversando, però, il mondo dell’architettura ufficiale, quella che ha occupato le università e le istituzioni, che manipola i concorsi e controlla i mass media di tutto il mondo, dopo aver deliberatamente rotto il legame simbiotico con l’ambiente edificato e perciò stesso con la realtà, è giunta oggi allo stadio ultimo della dissoluzione della cultura meccanicista di matrice illuminista: il Decostruttivismo. Infatti, mentre l’illuminismo, pur concependo meccanicisticamente l’universo come un insieme di parti – come si ricorderà (v. Periferia dell’anima) – una volta scompostolo nelle sue componenti per risolvere i problemi si proponeva di ricostituirlo nella sua unità, purtroppo senza riuscirvi, il decostruttivismo in architettura disassembla le varie parti, le dissocia per ricostituirle non più nell’unità primigenia, ma in una combinazione diversa. Distrugge, in altre parole, le fondamenta logiche della conoscenza e del ragionamento in modo che non possano più ricostituirsi. Un atteggiamento neo-romantico ancora più spinto di quello sessantottino.
     Vediamo come ci siamo arrivati. Ci può aiutare un precedente scritto immesso in rete che riproponiamo.
 
       << Nel XIX secolo si andava profilando il dominio della tecnica, che oggi imperversa, ed emergeva la necessità di dominare il nuovo Leviatano che andava realizzando un “paesaggio da officina”- per dirla con E. Jünger – accanto al paesaggio da museo dove la realizzazione di opere ed edifici aveva assunto le forme grottesche di un ballo mascherato. La potenza dei mezzi tecnici che lasciava intravedere un mondo nuovo ma settorialmente dominato dall’economia che deformava senza criterio l’uomo e il suo ambiente, innescò per reazione una carica innovatrice alimentata dalla diffusa e nobile convinzione che l’umanità stesse marciando verso la costruzione di un mondo nuovo una volta dominati i mezzi della tecnica. Dominio che poteva essere attuato da una diversa e demiurgica umanità. Si formò il mito dell’uomo nuovo, il tipo umano quale superamento dell’individuo borghese, che ogni ideologia modellò secondo le proprie capacità di configurazione. Tradotto in architettura tutto ciò significò, da parte del M.M. [ Movimento Moderno in sigla], rifondare ex novo il fare architettura recuperando, nell’uso dei nuovi materiali e nel tentativo di dominare le nuove tecniche, l’unità organica tra forma leggibile, struttura e funzione che si era perduta per opera del settorialismo positivista in cui si era esaurito lo sforzo raziocinante dell’illuminismo ( S. Muratori ). Nacque così il problema fondamentale del M.M.: proclamata l’esigenza del dominio dei mezzi per la costruzione del mondo nuovo, rifiutate concordemente le forme stilistiche tradizionali, si impose l’esigenza primaria di sostituire il canone classico dell’estetica, che aveva funzionato perfettamente per tutto il barocco, con un nuovo sistema altrettanto coerente. In sostanza si trattò di stabilire un ordine nuovo con nuovi valori espressivi della realtà.
        La potente carica innovatrice iniziale, però, venne presto tradita nei suoi obiettivi dalla volontà di “ rottura “ nei confronti del passato; si manifestò, in origine, come necessaria affermazione di identità ed autonomia rispetto allo “ storicismo “ allora imperante, ma si perse in seguito nell’astrazione totale dalla realtà edificata traducendosi in una “acontestualità” della nuova architettura e nella sua impossibilità di inserirsi organicamente nel contesto edificato preesistente.
        Un ulteriore tradimento venne consumato dal protrarsi dell’azione di “rottura” codificata dai “manieristi” del M.M. che portò, con il fallimento conseguente, alla degenerazione del fare architettura in astraente ideologia del nuovo. [Nuovo perché diverso.] Cominciò l’opera di codificazione Le Corbusier con il suo fideistico formulario dei “cinque punti” mancando il bersaglio per settorialismo astraente basato sul solo “gioco estetico, corretto e grandioso dei volumi riuniti sotto la luce” ; la terminò Bruno Zevi che spense definitivamente il nobile sforzo innovativo del M.M. officiandone il de profundis con il ridurre il fare architettura al catechismo cabalistico delle “sette invarianti” ed alla banalizzazione dell’”elenco”. La cultura che ne è derivata, incapace di capire l’essenza del tipo umano dominatore della tecnica rispolverò dal vecchio armamentario borghese, rilucidandolo, il culto del genio possessore di personalità artistica individuale talchè ogni “creatore” di novità, di diversità, di assurdità poté, a buon diritto, esigere il riconoscimento del titolo di genio ed esigere di entrare nella storia dell’architettura con un capitolo dedicato alla sua personalità esibendo la sua opera come documento biografico. Si ebbero, così, gli estremi in pittura (sic?) della merda d’artista inscatolata in barattoli di latta con i loro corrispettivi in architettura inscatolati, spesso, in vetro e/o metallo.
        Si ebbero anche stupende opere d’arte, ma tutte affette dal
male originale: la “acontestualità” ovvero l’incapacità di entrare in rapporto con la realtà preesistente.
        Per frenare il caotico ed epidemico dilagare dell’architettura contemporanea all’interno delle città storiche ( la realtà edificata ) l’incapacità dell’architettura ufficiale di produrre opere d’arte che non fossero avulse dal contesto esistente, produsse –per reazione- il feticismo storico da museo; la venerazione per l’architettura storica arrivò al punto di stabilire acriticamente ed ope legis la salvaguardia di ogni manufatto che avesse più di cinquant’anni ottenendo di arrestarne la vita. Parafrasando ancora E. Jünger si può dire che in forza di una qualche segreta corrispondenza fra il novismo sfrenato ed il feticismo storico, il consolidarsi di una architettura potenzialmente distruttiva andò di pari passo con l’accumulo e la conservazione dei cosiddetti beni culturali.
         Vi fu, nel ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, un periodo in cui una frangia del M.M., specie in Italia, prese coscienza che, per eterogenesi dei fini, l’architettura e tutto il mondo moderno, andavano collezionando insuccessi nelle realizzazioni rispetto alle intenzioni proclamate. Lottando contro l’ostilità di chi nell’errore si era scavato la propria nicchia di potere, ricercò nella realtà le leggi di formazione della perduta unità organica tra forma leggibile, struttura e funzione e comprese che l’ambiente, in particolare quello urbano, non era un “paesaggio” sede di suggestioni formali nel quale inserirsi al di fuori di qualsiasi aspetto di continuità civile, ma un organismo simbiotico di uomo e natura (ancorché artificiale perché edificata). Mise a punto il concetto di sistema fra le relazioni che intercorrevano fra uomo e natura nonché tra le parti di un organismo architettonico rilevando come lo stesso fosse qualcosa di più che la somma delle parti che lo componevano ed aprendo così la strada per sviluppare le basi di un nuovo ordine.>>
        Ma ….. venne il ’68 con i suoi miti romantici, ancorché pseudo-rivoluzionari e la “fantasia al potere” di cui avemmo a parlare. La cultura che aveva portato alla antesignana merda d’artista tracimò, sublimò ed emersero le archistars decostruttiviste per effetto della promozione di Philip Johnson – già teorizzatore dell’International style – e di Mark Wigley che nel 1988 organizzarono una esposizione di architettura definita, dallo stesso Johnson, Deconstructive. Il termine, contratto in Decon, passò a definire la “filosofia” che stava dietro a questa nuova etichetta ed esposta nel catalogo dell’esposizione commentato da Roger Kimball con queste sottolineature:
 
         Le terribili connotazioni di violenza e di corruzione sono intenzionali; sono in effetti centrali nello spirito dell’architettura decostruttivista … Disturbare, torturare, interrogare, contaminare, infettare: queste sono le parole [scelte] per spiegare e per lodare l’architettura decostruttivista (citato da N.A. Salingaros)
 
         Un pericoloso gioco intellettuale di impronta chiaramente nichilista che sempre Johnson, in un’intervista del 1994, rivendicò: …. Non esiste né il buono, né il vero, né il bello. Sono un relativista. Sono un nichilista …. Una cifra, quella Decon, che già dall’esperienza della progettazione del parco della Villette a Parigi condotta da Peter Eisenman, era stata espressa dal filosofo Derrida che del decostruttivismo fu il massimo teorico post-Heidegger:
 
         [ Il progetto è una critica a] tutto ciò che ha subordinato l’architettura a qualcos’altro –il valore di utilità, bellezza, vivibilità … non per costruire un’altra cosa che sia inutile, o brutta, o non abitabile, ma per liberare l’architettura da tutte queste finalità esterne, obbiettivi estranei, per contaminare l’architettura … penso che la decostruzione si avveri … quando si sia decostruita qualche filosofia architettonica, qualche assunto architettonico –ad esempio, l’egemonia dell’estetica, della bellezza, l’egemonia dell’utilità, della funzionalità, del vivere, dell’abitare. Ma, poi, si devono riscrivere questi motivi in seno all’opera (citato da N.A. Salingaros)
 
        A parte la distorsione intellettuale di considerare l’architettura subordinata a determinati valori laddove la stessa è espressione, come abbiamo visto, della simbiosi uomo-ambiente, il rifiuto dell’estetica, dell’utilità, della funzionalità, della vivibilità e dell’abitare la dice lunga sulla “filosofia” antiarchitettonica delle archistars e sulla definizione del loro operare quale lo stesso Derrida la formulò in un discorso pubblicato nel 1991 dalla moglie di Eisenman:
 
        Se dovessi fermarmi e dire quale dovrebbe essere l’architettura del nuovo millennio: nel suo stile, non dovrebbe essere né un’architettura del soggetto, né un’architettura del Dasein [l’essere, l’esistenza, la vita]. Ma poi, forse, dovrebbe abbandonare la denominazione di architettura che è legata a queste differenti, ma continue, forme di pensiero. Effettivamente, forse sta già perdendo il suo nome, forse l’architettura sta già cominciando a diventare estranea al suo nome. (citato da N.A. Salingaros)
 
         Togliendo il “forse” questa cosa divenuta estranea al nome di architettura, praticata non da architetti geni, ma da creatori di involucri, un nome ce l’ha. Quello che, in anni lontani pre-sessantotto circolava nella facoltà di architettura di Roma nell’ambito di determinati corsi e connotava l’intenzione di coloro che facevano progetti con ‘a mossa. Nella fattispecie con ‘a mossa si indicava “la trovata”, il colpo d’estro strano e sorprendente che caratterizzava certi improbabili progetti alla stessa stregua del colpo d’anca allusivo – ‘a mossa appunto – che le sciantose popolari dei primi anni del ‘900 mettevano in atto per strappare l’applauso degli spettatori allupati. Il nome icastico era: macchinetta acchiappaburini.
         Per tornare all’annunciato New Towns revival da cui eravamo partiti, considerando la posta in gioco ovvero la sorte di quegli indigenti in attesa della casa a basso costo che, date le premesse, si troverebbero proiettati, in futuro, in un contesto di emarginazione, seguitare a percorrere le stesse strade che hanno portato al fallimento  la sinistra urbanistica “sorretti” da una pseudo-cultura , ancorché ufficiale, che rifiuta l’estetica, l’utilità, la funzionalità, la vivibilità e l’abitare che un tempo connotavano la città, significa voler impersonare la parabola dei ciechi rappresentata da Pieter Bruegel il Vecchio nel magnifico dipinto della Galleria Nazionale di Capodimonte.

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