Una nuova tecnica di datazione indica che i fossili asiatici dell’H. erectus sono molto più antichi di quanto finora stimato. Lo studio su Nature
Datazione da rivedere per l’Homo erectus e molti conti da rifare per gli antropologi. I fossili del cosiddetto Uomo di Pechino, ritrovati nelle grotte di Zhoukoudian (nei pressi della metropoli cinese) nel 1918 ed attribuiti, appunto, ad H. erectus, sono almeno 200.000 anni più antichi di quanto si credeva. Lo affermano i geologi della Nanjing Normal University (Cina) in un articolo che si aggiudica la copertina di Nature di questa settimana.
Gli scavi degli anni Venti avevano riportato alla luce i resti – compresi sei teschi – di oltre 50 individui e circa 17.000 artefatti (pietre): la più grande testimonianza fossile dell’H. Erectus nel mondo. Le datazioni di questi reperti, su cui ci si è basati finora, collocavano la specie tra i 230.000 e i 500.000 anni fa. Ora, invece, lo studio del gruppo guidato da Guanjun Shen dimostrerebbe che i fossili si collocano tra i 680.000 e i 780.000 anni fa. La nuova datazione implica che H. erectus, la prima specie di ominidi a migrare fuori dall’Africa – viveva in un clima più freddo di quanto finora pensato: lo studio, infatti, proverebbe la sua presenza nell’Asia dell’Est durante i periodi sia glaciali sia interglaciali.
Esistono diverse tecniche per datare i record fossili, ma la mancanza di metodi specifici i ritrovamenti in grotte ha limitato l’accuratezza delle misurazioni di questi particolari resti. Finora la tecnica più utilizzata è stata quella magnetostratigrafica, che sfrutta la proprietà di alcuni sedimenti di “registrare” la direzione del campo magnetico terrestre nel momento in cui si formano. Shen e colleghi hanno invece applicato un metodo di datazione relativamente nuovo messo a punto insieme a Darryl Granger della Pardue University (Usa), basato sul decadimento radioattivo degli isotopi di alluminio e berillio inclusi nei frammenti di quarzo. Per le analisi è stato utilizzato uno spettrometro di massa e il metodo è stato applicato con successo sui sedimenti e su tre attrezzi.
La radiodatazione utilizzata si basa, in particolare, sull’alluminio-26 e sul berillio 10: questi isotopi sono il risultato di normali reazioni chimiche indotte dai i raggi cosmici che penetrano nelle rocce della superficie terrestre. Quando i vecchi sedimenti sono ricoperti dai nuovi, gli isotopi non vengono più prodotti e quelli esistenti cominciano a decadere. Il tasso di decadimento è noto e dalla “conta” degli isotopi presenti è possibile quindi risalire al momento in cui i sedimenti sono stati nascosti alla luce del Sole.
Secondo Susan C. Antón, del Center for the Study of Human Origins della New York University, lo studio suggerisce che l’Uomo di Pechino non solo era fisicamente adatto a sopravvivere in un periodo glaciale, ma che possa aver sviluppato comportamenti di adattamento alle condizioni climatiche avverse: “Non possiamo avere prove dell’uso di fuochi o indumenti, ma questo non esclude che l’Uomo di Pechino non li utilizzasse”. (f.v.)
Riferimento: Nature 458, 198-200 (12 March 2009) | doi:10.1038/nature07741