In questa tardiva primavera 2009 …”c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anzi d’antico …”: la confusione.
Confusione di termini e di obiettivi, in merito al cosiddetto piano casa sul quale va reso onore al merito del governo per avere aperto la strada alla sostituzione edilizia con ciò rimettendo in moto il processo di trasformazione della città bloccato, finora, sulla sola espansione indiscriminata delle periferie. Tuttavia luci ed ombre si alternano nell’esame di questo piano e pertanto proveremo a mettere in evidenza le une denunciando le altre.
La campagna di informazione della stampa che lungo tutto il mese di marzo si è manifestata con continue discettazioni, più o meno approfondite, supportate da pareri tecnici, prontuari esplicativi, dati statistici e tanto altro, ha avuto l’effetto di suscitare ed alimentare le speranze di milioni di italiani, proprietari di case e immobili, di poter ampliare ragionevolmente la loro proprietà senza dover attendere i tempi biblici imposti – in contrasto con la legge – dalla tecnoburocrazia e soprattutto senza dover ungere ingranaggi burocratici o incaricare tecnoburocrati di redigere e approvare direttamente i progetti.
Da quel che emergeva dalle notizie di stampa si cominciava ad intravedere, oltre al rilancio dell’edilizia in termini di volano per la ripresa economica all’insegna del noto aforisma “quando l’edilizia va tutto va”, anche la possibilità di metter mano alla qualificazione della squalificata edilizia che dal dopoguerra deturpa l’Italia approfittando degli ampliamenti per ridisegnare architettonicamente gli edifici o attuando la tanto auspicata sostituzione edilizia demolendo e ricostruendo. Chi c
i segue su queste pagine ci perdonerà la deprecabile autocitazione se ricorderemo quanto avemmo a scrivere sul numero di gennaio scorso in “Ripensare la città” che aveva come occhiello proprio il sottotitolo “Demolire per ricostruire”. Ritorneremo sull’argomento più avanti.
A sconvolgere i sogni di edificazione alimentati negli italiani, però, il presidente Berlusconi, sotto l’attacco di un centrosinistra in via di disfacimento intellettuale ed organico che lo accusava di cementificare l’Italia e quello parimenti virulento scatenato dalle Regioni governate dalla sinistra che lo accusavano di incostituzionalità, nel corso di un’intervista rilasciata il 24 marzo ha gelato gli entusiasmi di una gran parte di cittadini dichiarando: “Non c’è nulla di incostituzionale nel piano-casa, ma sta girando un testo non mio. Il decreto o d.d.L. che sia si fermerà alle case monofamiliari e bifamiliari e alle costruzioni da rifare dopo che saranno demolite” . Il 26 marzo l’annuncio di uno slittamento per fare il punto con le Regioni.
Inevitabili gli interrogativi che l’intervista del 24 marzo e l’annuncio del 26 hanno generato.
Qual è il ” testo non mio ” denunciato da Berlusconi?
Perché solo le monofamiliari e bifamiliari con la conseguente divisione in figli e figliastri?
E’ questo il piano casa ex L. 133/2008 ?
Vediamo di azzardare una risposta a questi primi interrogativi per aprire, poi, spazio ad altre considerazioni.
Per rispondere al primo quesito diciamo subito che, per quel che se ne sa, l’unico testo apparso sulla stampa è quello pubblicato da Il Giornale del 21 marzo con il titolo: “Bozza del 19 marzo 2009. Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili” composta di sette articoli. Essendo stata pubblicata, con relativo commento, su un giornale filogovernativo di proprietà della famiglia Berlusconi, non dovrebbe essere quel “testo non mio” cui faceva riferimento il Presidente. Ebbene, questa bozza, all’art.2 porta il titolo: “Interventi su singole unità immobiliari”. Nel testo si parla esplicitamente di “ampliamento dell’unità immobiliare”. A rigore il termine di unità immobiliare è proprio della legislazione catastale riguardante gli edifici ( Nuovo catasto edilizio urbano in sigla N.C.E.U. ) che lo definisce come “ogni parte di immobile, intero immobile o complesso di immobili che, nello stato in cui si trova, è di per se stesso utile ed atto a produrre reddito proprio”. Ne consegue – e ci venga perdonata l’esposizione rigidamente tecnica – che se la bozza all’art.2 afferma che: ” … è consentito l’ampliamento dell’unità immobiliare …” ed al comma 2 stabilisce che “L’ampliamento … non può essere superiore complessivamente al venti per cento del volume dell’unità … ” significa che anche un appartamento, in quanto unità immobiliare, ed il condominio in quanto complesso di immobili, possono ampliarsi, se dispongono delle potenzialità necessarie, fino al venti per cento del volume. Pertanto l’affermazione di Berlusconi, secondo la quale il decreto si fermerà alle case monofamiliari e bifamiliari è priva di rispondenza al dettato della bozza e della logica.
Ma poi, cosa suscita tanto timore in Berlusconi al punto di portarlo a fare a pugni con la logica ed il buon senso costringendolo a dividere il mondo dei proprietari di case in figli che possono ampliare e figliastri ai quali viene precluso? Sembra quasi che l’opposizione punti, riuscendovi, a farlo passare per … beh! … per quello che non è.
Tanto per cominciare: che significano case monofamiliari e bifamiliari?
Le case a schiera, ad esempio, ( non parliamo di villette a schiera per favore! ) sono un tipo edilizio esclusivamente monofamiliare ed urbano la cui caratteristica è quella di aggregarsi con tipi analoghi a formare tessuti edilizi. Le città antiche, almeno fino al ‘600, erano costituite da case a schiera; facevano eccezione i tipi a domus anch’esse monofamiliari e anch’esse aggregabili in tessuti edilizi con tipi analoghi. Esistono, specie al sud e nelle isole, città formate da tessuti di domus, mentre al centro e al nord le città erano, prevalentemente, formate da tipi a schiera. Ebbene, essendo tipi aggregativi secondo Berlusconi perderebbero, per questo, la loro monofamiliarità? Le case bifamiliari sono, invece, pseudo-tipi isolati, non formano tessuti edilizi e quindi sono poco urbani. Sono, infatti, eminentemente suburbane come le monofamiliari isolate tanto care all’abusivismo e all’urbanizzazione di espansione ( le periferie ) soprattutto a nord ed a nord-est. Sono composte da due monofamiliari aggregate e rientrano nella selezione berlusconiana. Perché fino a due tipi o pseudo-tipi l’aggregazione va bene e per oltre non è accettata? E le quadrifamiliari, aggregazione di monofamiliari, possono ampliarsi o no? E se no, perché? Non si comprende quale sia la logica che sovrintende la dichiarazione del 24 marzo e che suscita tanti interrogativi.
In una bifamiliare, secondo il comma 5 dell’art.2 della bozza, una monofamiliare componente può cedere il suo diritto di edificazione del 20% in più all’altra monofamiliare contigua la quale può cumulare il diritto edificatorio di ampliamento purchè non superi i 300 mc ( metri cubi ) complessivi, in pratica un appartamento da 100 mq ( metri quadri ). Ma per raggiungere una tale superficie dovrebbe essere una bifamiliare da 1500 mc al minimo. Immaginiamo allora che fossi, putacaso, unico proprietario di una villa – una vera villa di 3000 mc, poniamo – e non di una semplice casa isolata, la stessa risulterebbe monofamiliare e quindi potrei espandermi, ma solo fino al limite di 300 mc ai sensi del comma 5 dell’art.2. Se però la proprietà fosse distinta in due ali appartenenti a me ( sognare non costa nulla ) e ad un parente nella proporzione di 1500 mc ciascuno, la villa risulterebbe bifamiliare e pertanto potremmo ampliarci entrambi per 300 mc a testa. Ne risulterebbe un piano di rilancio per il suburbio che interesserebbe solo i più facoltosi proprietari di ville da 1500 mc, quelli delle case isolate mono e bifamiliari, i proprietari di case per vacanze isolate e gli abusivi sanati. Infatti questi ultimi con la sanatoria avevano estinto la pena, ma non il reato. La loro casa era e rimaneva, di fatto, un “corpo di reato” e perciò stesso non avrebbe potuto subire modifiche o accrescimenti.
A non godere del rilancio sarebbe tutta l’edilizia composta di case in linea, evoluzione della più antica casa a schiera, che rappresenta oggi il tipo più diffuso di case d’affitto a proprietà unica, ma soprattutto di condominii a basso reddito e quindi plurifamiliari. Questi proprietari, abitanti perlopiù in “scatole di cerini” che avrebbero davvero bisogno di ampliarsi un po’ e di riqualificarsi, risulterebbero, quindi, dei figliastri di questo piano di rilancio.
Non ne godrebbero i piccoli alberghi, vera risorsa dell’economia turistica da rilanciare e qualificare che, da un incremento del venti per cento della loro superficie, trarrebbero incentivo a migliorare la qualità dell’offerta turistica.
Con la restrizione dell’incentivo alle case monofamiliari e bifamiliari sfumerebbe anche la possibilità di metter mano alla qualificazione dell’edilizia stimolando, con l’ampliamento del venti per cento, il ridisegno delle costruzioni erette dal dopoguerra ad oggi. Se si considera che un’elevatissima percentuale dell’edificato a base di mono e bifamiliari è stata realizzata da tecnici addestrati e abilitati a costruire edifici di tre piani in zona rurale senza un minimo di formazione culturale architettonica e con una formazione urbanistica limitata a tre lotti e alla applicazione banale dei parametri di volumetria, superficie coperta e distacco dai confini, non c’è da farsi illusioni sulla qualità degli interventi di ampliamento: saranno quegli stessi tecnici, con la stessa cultura, ad operare. Anche in questo campo, come nella squalificata tecnoburocrazia, esistono lodevoli eccezioni ma, tanto per far ricorso ad un luogo comune, classiche rondini che non fanno primavera.
Eppure se c’è una possibilità di ottenere una riqualificazione dell’edificato ridisegnando tante turpi architetture, la stessa risiede proprio nel dettato della bozza del 19 marzo 2009 che, nel parametro dell’unità immobiliare formulato dalla legge erariale, consente ad edifici in linea di affitto o condominiali o alle classiche palazzine di ampliarsi. E ciò nonostante la difficoltà di realizzare l’ampliamento delle unità immobiliari di un condominio data la connaturata litigiosità dei suoi componenti. Ad esempio: edifici composti di unità immobiliari in affitto di proprietà di un unico ente e quindi di un unico proprietario potrebbero, nelle mani di un capace architetto, acquisire con l’ampliamento una dignità architettonica che oggi non posseggono. Per rendere l’idea: un edificio in linea con tre corpi scala a due appartamenti a piano per ogni corpo e sviluppantesi per sette piani – strutture permettendo – potrebbe crescere di un altro piano e magari attrezzarsi con un impianto di pannelli fotovoltaici. Se ben ridisegnato, dato l’impatto visivo che avrebbe rispetto al contesto urbano, gioverebbe alla città assai più che l’accrescimento di monofamiliari o bifamiliari ed è su questi tipi edilizi che dovrebbe concentrarsi maggiormente l’azione di rilancio dell’edilizia supportandola con la concessione di mutui agevolati nel caso di restyling ovvero del ridisegno delle facciate. E ciò per una ragione evidente: se è vero che in casa propria ogni cittadino è sovrano è altrettanto vero che gli edifici insistono su uno spazio collettivo entrando, in tal modo, in rapporto con la comunità degli abitanti. Una considerazione, questa, dettata dal buon senso che ha informato la vita dell’uomo sin dai tempi più remoti. Infatti circa seicento anni prima della nascita di Cristo, già Lao-Tzu affermò che la casa appartiene a chi la guarda a significare che l’aspetto esterno della stessa è pubblico perché parte espressiva dell’identità corale della città nella quale il cittadino si riconosce e quindi la possiede. E’ questa l’essenza dello spazio urbano, pertinenza del tipo edilizio in ambito collettivo e quindi, più che interfaccia tra singolo e società, la facciata di una casa rappresenta la pelle in comune fra il proprietario/inquilino ed il resto dei cittadini che ne sono i possessori. E come la proprietà individuale va tutelata come diritto inalienabile del singolo, altrettanto va tutelato il possesso della sua “pelle” esterna come diritto di tutta la città. Se vivessimo in tempi diversi non dovrebbe essere necessario far rilevare, quindi, come ridisegnare un edificio architettonicamente squallido che offende la pelle comune facendo parte di una parete urbana o del fronte edificato di uno spazio collettivo – strada o piazza – sia prima di tutto un segno di rispetto nei confronti della comunità di cui il proprietario fa parte. Ed è vero il contrario: trascurare l’aspetto del proprio edificio in favore del beneficio economico individuale significa non portare né desiderare di ricevere rispetto.
Per rispondere, infine, al terzo dei quesiti formulati, il dettato della bozza del 19 marzo 2009 è esauriente; non si tratta del piano casa di cui alla L. 133/2008 che battezzammo “Il grande inganno” ne Il Borghese di novembre 2008. Quest’ultimo doveva incrementare “… il patrimonio ad uso abitativo attraverso l’offerta di alloggi [ nuovi] di edilizia residenziale destinati prioritariamente a prima casa per le categorie sociali svantaggiate” La bozza, impropriamente denominata piano casa riguarda, invece, non l’edilizia nuova, ma incrementi di quella esistente nella misura del 20% in più e non oltre 300 mc per unità immobiliare. Vi è, però, un aspetto che può collegarsi al piano casa vero e proprio ed è – insieme al superamento della tecnoburocrazia – il vero elemento qualificante del piano di rilancio dell’edilizia; la possibilità statuita dall’art.3 della bozza di rinnovamento del patrimonio edilizio esistente che recita: ” … sono consentiti interventi consistenti nell’integrale demolizione e ricostruzione di edifici con aumento fino al 35% del volume esistente per gli edifici residenziali o della superficie coperta per quelli adibiti ad un uso diverso, a condizione che siano utilizzate tecniche costruttive di bioedilizia o di fonti di energia rinnovabile o di risparmio delle risorse idriche e potabili.”
Crediamo balzi all’evidenza la portata dirompente di un simile dispositivo soprattutto in termini di ridisegno urbanistico.
Proviamo a descrivere un caso ipotetico prendendo a parametro il tipo edilizio chiamato in causa per l’esempio di ridisegno architettonico: un edificio in linea con tre corpi scala a due appartamenti a piano per ogni corpo e sviluppantesi per sette piani. Svilupperebbe una volumetria di mc.16.000 per 45 appartamenti ( uno a piano terra per ogni corpo scala. Ogni appartamento di 118,51 mq lordi compresi scale, ascensore, ingressi, svilupperebbe un volume di mc.355 e accoglierebbe una media di tre abitanti.
Prendiamo in considerazione un quartiere in degrado di modeste dimensioni, diciamo 6084 abitanti. Avremmo ben 2028 appartamenti per uno sviluppo di 720.000 metri cubi. Demolendo e ricostruendo l’operazione frutterebbe 972.000 metri cubi ovvero tra i 709 e 710 appartamenti in più con un incremento di 2127-2130 abitanti teorici. Perché teorici? Perché lo scopo è quello di migliorare il quartiere e non quello di aumentare la densità abitativa percui un certo incremento di abitanti ci sarebbe, ma non nella misura teorica.
Ma gli attuali abitanti dove li metteremmo se demolissimo le loro case? In case parcheggio a rotazione, ovviamente, che sarebbero le prime ad essere costruite.Un’operazione fattibile se consideriamo il valore delle case in degrado come costo del terreno in ragione della posizione ed il maggior valore degli edifici dopo la qualificazione edilizia ed urbanistica.
Trasferiamo il quadro in una ipotetica ex zona 167 di proprietà, oggi, dell’ATER. Il ministro Brunetta penserebbe subito a rifilare le case in degrado agli attuali abitanti per fare cassa lasciando loro l’onere di riscattarsi dal degrado sociale. Questo sarebbe in linea con il piano casa ex L.133/2008 e con l’art.13 della stessa legge. A chi gioverebbe? Certo gli attuali inquilini dell’ATER diverrebbero proprietari, ma di cosa? Quasi sempre di case fatiscenti o in degrado situate in ghetti urbani che, proprietari con entrate spesso al di sotto di mille euro mensili non potrebbero restaurare né tampoco demolire e ricostruire considerando l’indebitamento dovuto contrarre per consentire all’ATER di fare cassa. Bella politica sarebbe quella di far lucrare un ente pubblico come l’ATER vendendo il “pacco” truffaldino agli inquilini per consentire a qualche valvassore della politica di infoltire il sottobosco dell’amministrazione/ amminestrazione (proto lasciare il termine!) degli appalti: Quando mai gli acquirenti di case ex IACP con redditi più che modesti, sarebbero in grado di riscattarsi dal degrado edilizio ed urbanistico se non venissero aiutati? La strada da seguire è un’altra e passa appunto per la demolizione e ricostruzione, ma eseguita dall’ATER in veste di proprietario-committente che, rivolgendosi a professionalità esterne tramite concorsi e con un po’ di managerialità otterrebbe di lucrare su quella parte di cubatura in più ( 250.000 mc nell’esempio teorico). Il ricorso alle professionalità esterne tramite concorso è essenziale dal momento che ciò che si vuole qualificare sono proprio gli errori urbanistici ed edilizi frutto di schemi di progettazione promossi e stimolati dal vecchio IACP di cui l’ATER ha ereditato i quadri.L’attuale inquilino che volesse rimanere nel quartiere risanato e qualificato dovrebbe avere assicurato il diritto all’acquisto delle nuove abitazioni a costo di costruzione e non a costo di mercato.
Questo enunciato è solo un esempio teorico, dicevamo, e non la sola formula applicabile, ma indica il principio di base: il fondamentale riscatto delle periferie è un’operazione sociale che lo Stato può effettuare senza rimetterci. Occorrono intelligenza, capacità progettuale e organizzativa, volontà politica coinvolgendo direttamente gli abitanti stessi nelle scelte progettuali come decisori e finanziatori attraverso mutui agevolati.
La bozza di legge necessaria allo scopo c’è. Tuttavia, se si vuole davvero avviare il rilancio dell’edilizia bisogna avere il coraggio di confermare la bozza nella sua attuale stesura con l’abolizione del limite dei 300 mc per gli alberghi in sede propria.
Le critiche sulla cementificazione si sono già ritorte contro chi ha permesso il sacco dell’Italia negli anni passati e fa oggi la vergine rifatta. I loro strumenti, ossia i loro progettisti, stanno già studiando come abbandonare la nave e salire sul vascello del piano casa. L’entusiasmo che il piano ha suscitato sin dagli inizi, non va smorzato ponendo limitazioni prive di logica, ma va, piuttosto, potenziato per consentire quell’unione reale, nel fare, tra il popolo ed i suoi rappresentanti che Berlusconi ha sempre auspicato. L’opposizione, in proposito, sta già cambiando spartito e le idi di marzo sono felicemente trascorse senza incidenti. Oggi IV giorno ante kalendas aprilis in hoc anno 2762 ab urbe condita ci disponiamo all’attesa delle “Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili” facendo tanti auguri all’Italia.