Titoli tossici e cattive banche: cura politica e nazionalizzazione nel settore della finanza basterà ad emarginare i soliti profittatori e a risollevare l’economia?

 

 Ene Franza

11 Aprile 2009 

Gestire la crisi, la nazionalizzazione delle banche è un mezzo ?

 
Iniziata con i titoli sub prime, scivolata sulla c.d. finanza creativa, la crisi è poi esplosa coinvolgendo le banche d’investimento, ovvero, quegli Istituti di credito che operano nei mercati dei titoli emessi da società private ed enti pubblici, provvedendo al collocamento dei prestiti ed alla distribuzione dei titoli.  Ora nel 2009 nessuno parla più di mutui subprime e le banche d’affari, a giudicare dall’andamento delle loro quotazioni sui mercati di borsa, riprendono vigore (dall’inizio di gennaio a fine febbraio, ad esempio, Morgan Stanley e Goldman Sachs hanno guadagnato rispettivamente il 22% ed l’8%) mentre la paura prende ora le banche commerciali, le cui funzioni principali sono – com’è noto – accettare depositi e concedere ad imprese e famiglie prestiti a breve termine. Segnano il peso del disastro le quotazioni di primarie banche quali Bank of America,  che dal primo gennaio ha perso il 72%, Citigroup il 78 %, Wells Fargo il 59%, UBS il 37%, Deutsche bank il 25%. Se andiamo ad osservare l’indice dei titoli bancari sul mercato americano verifichiamo una flessione del 51%, mentre in Europa la flessione è del 25%.
La catastrofe che sta colpendo il mercato delle banche commerciali ha costretto il governo americano a rilevare (nei primi giorni di marzo 2009) una quota azionaria del 36% in Citigroup. Il salvataggio pone un tetto al crollo  della banca (le  perdite del quarto semestre ammontano a 27,7 miliardi e l’agenzia  Moody’s ha abbassato il giudizio sul senior debt a “A3” da “A2”) ed in cambio predispone una rivoluzione nel board dove, secondo le indicazioni del Tesoro, dovrà sussistere una maggioranza indipendente. A tale quadro poco confortante, si aggiunge la richiesta di aiuti per 20 miliardi di dollari della Bank of America ed il record di perdite (62milardi di dollari) della AIG il più grande buco nella storia finanziaria degli USA, anche nelle proprietà immobiliari commerciali.
Ma anche le banche Inglesi non se la passano molto bene. La Royal Bank of Scotland, nazionalizzata al 70% per evitarne il fallimento,  segna la perdita annuale di oltre 24 miliardi di sterline, la più alta nella storia del Regno Unito. Il governo interverrà con altri 13 miliari di sterline con una disponibilità della banca a rendere utilizzabile una quota azionaria pubblica fino al 95%[1]. Ma altre importati istituzioni inglesi non se la passano bene. La Hbos del gruppo dei Loyd, ad esempio,  chiude il 2008 con 7 miliardi di perdite.
 
In estrema sintesi, in difficoltà sono pressoché tutte le banche dall’America, all’Asia passando per l’Europa[2]. Le ragioni sembrerebbero essenzialmente di due ordini. Il primo connaturale alla fase di recessione che l’economia mondiale sta vivendo: il Pil americano evidenzia una caduta libera del -6,2% nell’ultimo trimestre 2008, mentre il Pil dell’area euro su trimestre si è contratto dell’1,5% (-1,2% su anno) segnando il peggior risultato di sempre ed anche Cina ed India non se la passano bene. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno il Pil della Repubblica Popolare Cinese è salito “solo” del 6,7%, in forte frenata rispetto al 13% dell’anno precedente, mentre per l’India nell’ultimo trimestre il Pil è salito del 5,3% sull’anno, anche qui in regressione rispetto ai risultati passati[3]. I dati della disoccupazione evidenziano, inoltre, che nel 2008 sono stati 2,6 milioni i posti di lavoro andati in fumo negli USA, il massimo dal 1945, anno della Seconda Guerra Mondiale. Di questi, quasi due milioni negli ultimi quattro mesi, a testimonianza del fatto che la crisi si è fatta più profonda nell’ultima parte del 2008. In Europa, l’Eurostat ha comunicato che la disoccupazione della zona Euro a gennaio ha registrato una crescita all’8,2%, dall’8,1% della precedente rilevazione (7,3% a gennaio 2008). Con l’economia in frenata e la disoccupazione in crescita, dunque, è naturale scontare un incremento dei crediti in sofferenza e, quindi, un peggioramento degli attivi delle banche.
Ma ciò che preoccupa è, altresì, la constatazione che molti Paesi dell’Est Europeo sono in una situazione di profonda crisi: le economie sono in recessione, le valute scendono verso il basso ed il debito privato delle famiglie si ingrossa. Questo, di conseguenza, incrementa il debito inesigibile di molte banche Occidentali impegnate nell’Est Europa. Insomma, sembra di assistere ad un avvitamento verso il basso senza soluzione. Un gatto che si morde la coda ! Le motivazioni ?  Andiamo per ordine.
E’ noto che i prestiti in valuta estera sono stati un potente propellente per le economie dell’Europa Orientale comprese Polonia, Romania ed Ucraina.  Tale fiume di denaro è per la maggior parte proveniente da banche dell’Europa occidentale sia come finanziamenti diretti ai paesi che come finanziamenti ad imprese occidentali che lì hanno investito (le statistiche sostengono che il 70% delle banche dell’Est è controllato da quelle Occidentali con un impatto sulle queste economie che, ad esempio, per l’ Austria coinvolge l’80% del Pil)[4].  Tale flusso di denaro ha finanziato i consumi interni e la vitalità imprenditoriale dopo che, in tutta quell’area, è avvenuto il crollo del comunismo. Ma quando l’afflusso di capitali esteri si è interrotto, anche a seguito della crisi interna, le valute di questi hanno Paesi hanno cominciato a perdere valore, i debiti verso l’estero sono divenuti di colpo più onerosi ed hanno devastato i bilanci e le finanze, avviando una rapida sinergica decrescita (deleveraging).  Peraltro, tale fenomeno non è elusivo dei Paesi dell’Est Europa, per effetto della crisi, infatti, si congelano i flussi finanziari internazionali, soprattutto dai Paesi Occidentali verso quelli emergenti (-82% fra 2007 e 2009) che in assenza di opportunità di investimento prendono la strada del ritorno in patria, verso Usa e Europa.
Per inciso, si rappresenta che lo schema dello sviluppo della crisi dei Paesi dell’Est Europa sopra proposto è, peraltro, molto simile a quello presentato dal grande economista Paul Krugman, Nobel per l’economia 2008,  per spiegare la crisi che, tempo addietro, ha sconvolto i mercati asiatici. bocciando il piano proposto dal governo ungherese ed escludendo un intervento comunitario a sostegno dei Paesi dell’Est. Viene anzi ribadito che, constatata l’impossibilità di quantificare l’ammontare del debito: “ogni governo avrà la libertà di trovare soluzioni per contrastare la crisi finanziaria, purché questa non scivoli nel protezionismo”.
Il problema delle banche commerciali non trova in definitiva una soluzione organica ed anzi evidenzia la mancanza di una linea d’azione pubblica coerente e coordinata, lasciando il passo ad una infinita serie di voci e discussioni.  La strada diretta per fronteggiare la crisi, passa per molti economisti di Usa ed  Europa, attraverso la strada della nazionalizzazione e la creazione di “bad bank”. Tale idea è contemplata, peraltro, in un documento della Commissione UE presentato al vertice di Berlino. Gli Stati condivideranno gli oneri di salvataggio con azioni e creditori, ma a patto che venga accertata la consistenza dei titoli tossici e questa venga certificata da auditors indipendenti. Nel documento, Bruxelles sottolinea innanzitutto che “la ragione principale dell’insufficiente flusso di credito è legata all’incertezza sulla valutazione e la posizione degli asset deteriorati”, cioè quelli tossici più quelli meno rischiosi. “Questa incertezza”, si aggiunge nel testo, “non solo continua a minare a fiducia nel settore bancario ma indebolisce gli effetti delle misure di sostegno dei governi”. In queste situazioni, prosegue “per preservare la stabilità finanziaria e la fiducia, potrebbe essere appropriato prevedere delle garanzie o delle protezioni per i detentori di bond”, ma, “dove ciò appare sconsigliabile per questioni di stabilità finanziaria, la banca potrebbe beneficiare di aiuti sotto forma di garanzia o di acquisto di asset limitato allo stretto necessario per continuare ad operare per il periodo necessario a trovare un piano o per la ristrutturazione o per la liquidazione”.
La storia delle bad bank è una storia vecchia, ed è essenzialmente una cura per la società madre. Vediamo di capirci di più. Già oltre 15 anni fa i Lloyd’s di Londra perseguirono una strada molto simile. Coinvolto dall’aver stipulato polizze assicurative contro i rischi legati all’amianto, il gruppo assicurativo si trovo all’inizio degli anni ’90 con una enorme quantità di polizze “tossiche”, ovvero, incorporanti un alto rischio potenziale. Fu allora che i Lloyd’s utilizzarono apposite società, opportunamente ben patrimonializzate, dove furono stornate le polizze a rischio. In tal modo furono realizzati due obiettivi. Da una parte furono puliti i bilanci della società madre (la società che girava il portafoglio delle polizze), dall’altro nella società che prendeva in carico le polizze tossiche, il rischio era ben definibile e diluibile e, poteva trovare i capitali in cerca di un’occasione per un investimento a lungo termine. Certo nel caso odierno nelle bad bank dovrebbero finire non passività, ma i attivi, i c.d. titoli tossici,  con un profilo di rischio di difficile individuazione.
Altro esempio, che la storia racconta di creazione di bad bank, è quello seguito da alcuni Paesi del Nord Europa. I governi della Finlandia, della Norvegia e della Svezia, di fronte alla crisi delle grandi banche di quei Paesi negli anni ’90, sono intervenuti con lo strumento della bad bank. Il risultato finale ha visto caricare sui bilanci dello Stato di Finlandia e di  Svezia forti perdite (circa il 2/3% del Pil per la sola Svezia), ma in Norvegia il risultato finale ha segnato addirittura un beneficio per le casse pubbliche.
Nel nostro caso, i “titoli tossici” che dovrebbero andare costituire l’attivo della bad bank, sono innanzitutto i mutui sub prime, che hanno un flusso di reddito derivante dai mutui concessi. Ma quando, a seguito della crisi, i mutuatari non pagano questi titoli perdono di valore e perdono anche valore i titoli a loro collegati come i Cdo (collateralized bond obligation), che pur contendo solo in parte i mutui sub prime, tuttavia più nessuno vuole e che, pertanto, perdono di valore. Peraltro, non sono scambiabili e rimangono nella pancia della banca che ha l’ulteriore problema di doverli valutare a fine anno, con individuazione di una minusvalenza che, se forte, può intaccare il capitale. Per ricostruire il capitale (ed in parte vi è obbligata dalla necessità di mantenere i ratios entro i limiti stabiliti dalle autorità monetarie[5]) la banca commerciale deve o aumentare il capitale chiedendo denaro ai soci o al pubblico, o indebitarsi. Può anche restringere il credito, ma in tal modo contrae le prospettive di sviluppo dell’economia, innestando una spirale di crisi.
Allora la strada è segnata e non resta che la bad bank o l’intervento dello Stato come prestatore di denaro o socio. Il dubbio che, in realtà, non vi siano grandi differenze tra l’uno o l’altro intervento fa si che molti economisti ritengano più efficace l’intervento diretto dello Stato.  Ma nazionalizzare vuol dire caricare sul bilancio degli Stati una montagna di debito, cosi, peraltro, come costituire una bad bank.
Cerchiamo di spiegarne un attimo il perché. Nella bad bank dovrebbero finire i titoli tossici. A che prezzo? Nell’impossibilità di stimare un prezzo al momento per tali prodotti (secondo la stima della ADB, la Banca asiatica per lo sviluppo, il totale delle svalutazioni di assets tossici ammonterebbe a 50.000 miliardi di dollari), una eccessiva sopravalutazione dei titoli che finirebbero nella bad bank ben capitalizzata (ed nella quale, oltre che il capitale di privati, finirebbero verosimilmente anche denari pubblici) finirebbe per essere un regalo alle banche, cosi come ogni nazionalizzazione parziale. Spieghiamoci con un esempio. Supponiamo che una banca abbia in bilancio titoli tossici iscritti al valore pre-crisi di 1000 e supponiamo che al momento il mercato non riesca a prezzarli. A quale prezzo li scarico alla bad bank. Se li porto a prezzo simbolico di 1 faccio fallire la banca cedente, viceversa, se gli attribuisco un valore maggiore sto procedendo ad un sussidio mascherato alla banca. Se la bad bank è privata il maggior valore di prezzo dei titoli tossici acquistati significa che si sono trovati investitori disposti anche a perdere fino 1000 (il valore pre-crisi dei titoli tossici). Diverso è nel caso di intervento dello Stato, dove l’impressione che se ne può ricavare è che si tratti di un sussidio o di una parziale nazionalizzazione. E dare ulteriori soldi alle banche non piace a nessuno ! anche perché i titoli tossici in circolo sono stati emessi a fronte di denaro raccolto dai risparmiatori, e secondo  i dati sono dell’Ocse, nei forzieri dei paradisi fiscali ci sarebbero 7.000 miliardi di dollari che vengono da evasione, riciclaggio e corruzione. E molto facile fare un parallelismo tra tale montagna di denaro presente nei forzieri dei paradisi fiscali e il denaro derivato dalla sottoscrizione dei titoli tossici.  Il dito contro il segreto bancario della Svizzera, Lussembrugo e Austria è stato puntato anche nel corso del vertice di Berlino. Con la crisi in corso Usa, Germania e Francia su tutti, non tollerano di non potere avere il controllo dei capitali ed hanno chiesto che l’argomento venga posto al centro della discussione al prossimo G20 ad aprile[6].
Esistono possibili alternative? Geithner segretario al Tesoro USA, ha un piano alternativo per uscire dalla crisi finanziaria, un «progetto articolato sui titoli tossici per recuperare capitali». Il progetto prevede la costituzione di numerosi fondi diversi, molte “bad banks” per: a) agevolare il reperimento dei capitali; b) poter raggruppare in modo più omogeneo classi di titoli più simili fra loro e poter così esprimere valutazioni più credibili del “rischio” implicito in ciascun nuovo investimento. Il governo darà finanziamenti adeguati per lanciare l’iniziativa; i manager dei fondi assumeranno il loro incarico solo se saranno pronti ad investire i loro capitali in una quota minima di partecipazione al capitale; gli investitori, fondi comuni o fondi pensione, daranno l’altro grande contributo di capitale per finanziarie il progetto oltre a quello versato dallo stato.
Che non si possa perdere tempo a decidere tuttavia, è sotto gli occhi di tutti.  Fino ad adesso sono stati iniettati dai governi di Usa ed Ue nel sistema finanziario oltre 370 miliardi di dollari solo per gli istituti di credito. E sembra che nulla sia cambiato. Secondo le prime analisi le passività delle banche irlandesi al netto di capitale e riserve ammonterebbero a oltre nove volte il Pil della stessa Irlanda. In Francia, Olanda e Belgio ammontano a 4 volte il Pil nazionale, in Austria a 3,5 volte ed in Italia 2,5. Sono calcoli molto approssimativi ma che rendono l’impegno che gli Stati vanno ad accollarsi, ed il mercato riflette tali malumori. E Basta dare un’occhiata ai costi delle assicurazioni contro i default misurata dai credit default swap che danno all’Inghilterra una probabilità di fallire entro 5 anni dell’11%, all’Italia del 13%[7], all’USA, Francia e Germania di circa il 6%, oppure (altro modo di guardare al mercato per vedere come è  valutata la salute di un paese), si può dare un’occhiata al rendimento dei titoli di Stato, con durata decennale. Il confronto è generalmente fatto con il prezzo dell’euro swap a 10 anni, che costituisce una sorta di benchmark.  Il 5 marzo 2009 (giorno del taglio dei tassi della Bce) da un valore di 3,386% dell’euro swap a 10 anni, da’ una perdita su di un bond tedesco di 34 centesimi, 72 in bond belgi, 106 per i bond del Portogallo,  116 per quelli Italiani, 221 per l’Irlanda e, 237 per la Grecia.
Intanto, i mercati finanziari, alle cattive notizie che vengono dalle banche commerciali, avevano già scontato forti perdite, che neanche a dirlo, vanno ad aggravare ancora di più una crisi non si fanno attendere ed a Wall Street, il 22 febbraio, il Dow  Jones  ha tocca i minimi del 1997:  -3,4%. La risposta del Presidente Osama, con  nuovo pacchetto d’emergenza da 250 miliardi per le banche Usa, ed  una “finanziaria” da 3.900 miliardi di dollari nel 2009 (3.550 miliardi nel 2010) ed un deficit che già nel 2013 la Casa Bianca vuole aver ridotto a 533 miliardi di dollari (un 3% del Pil, non sortisce gli effetti sperati). Vanno giù anche le borse d’Asia e d’Europa il 28 febbraio, in una discesa dei corsi dei titoli che ormai tutti impotenti. Ed, infatti, il successivo 3 marzo, all’indomani del lunedì nero che ha visto forti perdite in tutte le borse mondiali, a Wall Street le blue chip sono scese ai livelli di dodici anni fa, mentre la borsa di Tokyo si è avvicinata ai minimi dei 26 anni. Tutti i principali commenti degli analisti finanziari mettono in evidenza come, a bruciare soldi, siano stati i titoli delle banche e quanto stia pesando la bufera finanziaria che soffia sull’Est Europeo. Passano pochi giorni ed un’altra tempesta si scaglia sui mercati finanziari … L’allarme  viene dalla sulla potenziale bancarotta di General Motors  (il gruppo ha gia’ ricevuto 13,4 miliardi di dollari dal governo americano ed avrebbe bisogno di prestiti per almeno 30 miliardi per cercare di superare la crisi) e dalla delusione per il mancato annuncio di nuove misure per il rilancio della Cina  (il premier Wen ha garantito che la Cina manterrà una crescita al 8% per il 2009 ma non ha annunciato nessuna misura straordinaria per il rilancio dell’economia come, invece, avevano previsto alcuni analisti). Alla chiusura di ieri, l’indice Nikkei dei 225 titoli guida perde 260,39 punti, pari al 3,50 per cento, scendendo a 7.173,10 punti. Ad essere penalizzati sono i  titoli bancari: Mitsubishi UFJ Financial ha perso il 4,8%, Mizuho Financial Group il 4,9% e Sumitomo Mitsui Financial Group il 6,4%. Ma l’aumento dello Yen sia sul dollaro che sull’euro incide negativamente sugli esportatori: Toyota ha ceduto il 2,8%, Honda il 4,9%, Canon il 2%, Panasonic il 2,4% e Sony il 3,8%. A Wall Street, dove l’indice Dow Jones è precipitato al 4,09%, il livello più basso dal 1997[8].                                                                                                                                                     La questione della crisi della finanza è tutta in piedi! Le contromisure stentano a decollare anche nella vecchia Europa. Presentato il 25 febbraio il rapporto del gruppo di lavoro guidato da de Laroisière da la misura di quanto le Istituzioni siano indietro rispetto alla gravità degli eventi. In quel rapporto vengono delineate quello che dovrebbe essere il futuro della vigilanza Ue, costituito da un organismo presieduto dai vertici della Bce ed al quale partecipano anche esponenti delle associazioni europee di controllori di banche centrali assicurazioni e borse nonché da un esponente della commissione. Inoltre sarebbe prevista la costituzione di tre agenzie in stretto contatto con le autorità nazionali.  Il rapporto de Larosiére, in definitiva,  propone di rafforzare la supervisione finanziaria su scala europea, ma senza creare un’agenzia unica o affidarsi alla sola Bce per controllare l’attività dei grandi istituti multinazionali; bensì istituendo un Consiglio europeo per la sorveglianza dei rischi sistemici guidato dal presidente della Bce, ma che raggruppi anche i governatori delle Banche centrali nazionali, i responsabili di tre distinte Autorità europee di controllo di secondo livello per banche, assicurazioni e mercati e, infine, rappresentanti della Commissione europea. Si aggiungono poi altri due tasselli per una riforma che tuttavia tarda a decollare… l’accordo per regolamentare le agenzie di rating che operano nell’Unione ed (a aprile) le proposte su fondi di investimento speculativi, private equity e politiche di remunerazione che disincentivino nei quadri dirigenti l’assunzione di rischi eccessivi. Poi in autunno arriveranno quelle su rischi di liquidità, rafforzamento delle garanzie sui depositi bancari, sanzioni in caso di violazione delle norme. Come si vede, ancora una volta è tutto rimandato a fine anno!
 

[1]

Sir Fred Goodwin, il suo ex-amministratore delegato, estromesso quando lo Stato ha assunto le redini della Bank of Scotland e giudicato il principale responsabile del dissesto in cui era sprofondata, riceverà una pensione di 650 mila sterline l’anno a soli 50 anni.

 

[2]

Si parla di un dossier su evasione, riciclaggio e corruzione: così i centri off-shore gonfiano la crisi. Secondo l’Ocse, nei forzieri dei paradisi fiscali ci sarebbero 7.000 miliardi di dollari. Il premier britannico Brown, con recente vertice a Berlino ha rappresentato: «La Svizzera deve cambiare il suo vergognoso modo di fare, se vuole rimanere un membro a pieno titolo della comunità internazionale». 

 

[3]

In Italia il Pil è sceso dell’1% (il peggiore dal 1975), e va male anche il rapporto fra deficit e Pil che sale al 2,7%.

[4]

La Romania è fitta di imprese a capitale italiano. Tra le Banche la più esposta sembra essere UniCredito ed attraverso la sua filiazione tedesca ha importanti investimenti in tutta l’area dell’Est europeo (la stessa bancane 2008 ha acquisito anche una banca Ucraina).

[5]

Primo, fra tutti, il rapporto debito/capitale.

[6]

Molto eloquenti, tuttavia, le parole del Presidente della Confederazione Hans-Rudolf Merz: «Il segreto bancario fa parte della nostra mentalità sociale e della nostra concezione della protezione della sfera privata». «Non siamo pronti ad abbandonare il segreto bancario nemmeno se si tratta di lottare contro la criminalità fiscale» ha aggiunto il ministro delle Finanze lussemburghesi Lue Frieden;

[7]

Le debolezze strutturali che impediscono all’Italia di mettere a segno una soddisfacente crescita della produttività e pesano sulla posizione competitiva sono l’alto debito pubblico che salirà (secondo la Commissione Europea) dal 104,1% del 2007 ad oltre 111% del 2011 ed in particolare del peso dei relativi interessi.

[8]

Da segnalare la c.d. ”anomalia Piazza Affari”, cioè il progressivo calo della Borsa italiana ed il suo scostamento dall’andamento delle altre principali piazze europee. La capitalizzazione è, infatti, scesa al 17% del Pil contro il 48% di un anno fa e il 70% del 2000. Poche le certezze sulle cause di questo fenomeno, che risente, in parte, della forte incidenza del settore bancario sul listino. L’unico punto fermo è che “i flussi principali di vendita vengono soprattutto dall’estero. 

Per evitare d’inceppare il flusso del credito, tuttavia, già alla fine del mese di febbraio, la Bei, la Bers e la Banca Mondiale concedono un prestito per 245 miliardi di euro di aiuti al credito e all’industria. Ma che tale somma si solo una goccia nell’acqua, lo dimostra la richiesta, pubblicamente fatta dal premier ungherese, per il suo paese 180 miliardi di Euro, segno evidente che il denaro necessario è molto di più. Ma a tale istanza il vertice del Consiglio dei capi di Stato Paesi UE, convocato a Berlino per fronteggiare la crisi economica il 23 febbraio, da una risposta negativa,
 

 

 

 

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