L’eterno problema del debito pubblico è oggi accentuato. Perché?

17 Luglio 2009

ENEA FRANZA 

 

 

AUMENTO DEL DEBITO PUBBLICO E MAGGIORE AGGRAVIO PER LE FUTURE GENERAZIONI

I meandri del liberismo e le regole che separarono Banca d’Italia e Ministero del Tesoro  – Globalizzazione, indebitamento degli Stati del “Primo Mondo”  e fondi sovrani : fine dei circoli virtuosi –  L’Occidente  indebitato andrà in vendita con le sue industrie?

 

L’eterno problema del debito pubblico! Nuovo record del debito pubblico a maggio. Il dato, come informa il Supplemento al Bollettino statistico della Banca d’Italia, si e’ stabilizzato a 1.752,188 miliardi di euro, con un incremento dello 0,22% rispetto ai 1.748,224 miliardi di aprile, precedente massimo storico. Il debito pubblico a fine dicembre 2008 era pari a 1.662,558 miliardi. Rispetto ai 1.648,74 miliardi di maggio dell’anno scorso, il debito e’  cresciuto del6,27%. La Bankitalia ebbe a segnalare come l’andamento negativo era conseguenziale anche alla calata del 3,2% delle entrate fiscali nei primi cinque mesi dell’anno che, tra gennaio e maggio, sono diminuiti di 4,5 miliardi di euro. Secondo le tabelle nei primi cinque mesi dell’anno, considerate al netto dei Fondi speciali per la riscossione (cioè del gettito già contabilizzato ma non ripartito tra tasse e contributi) le entrate fiscali di cassa sono state pari a 134,8 miliardi, contro i 139,3 miliardi dello stesso periodo dello scorso anno.
Questi dati confermano purtroppo le previsioni negative dei primi medi dell’anno, e evidenziano a tutti quanto complessa e difficile sia la situazione. Ma dietro la crisi ci sono altre linee di tendenza che emergono e che disegnano scenari inquietanti sul prossimo futuro e mettono in discussione gli equilibri geopolitica attuali. Riprendiamo le fila del discorso. Il debito pubblico è il debito dello stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o soggetti stranieri, che hanno sottoscritto titoli di debito, ovvero, obbligazioni (come bot o cct) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale. Tale debito aumenta o diminuisce a seconda delle esigenze di cassa dello Stato, ma anche con riferimento al variare dei tassi d’interesse. Da un po’ di anni infatti lo Stato italiano deve finanziarsi al pari di ogni altro soggetto sul mercato. Non tutti sanno, infatti, del c.d. “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia, fatto di importanza storica, che, tuttavia, ha reso (a parer mio) molto più costoso il finanziamento del debito pubblico.
Ma cosa accadde esattamente con quella decisione, che, guarda il caso, coincide con gli anni del decollo del debito pubblico? Fino all’inizio degli anni ottanta le banche “finanziavano” le esigenze di cassa dello stato avendo dei vincoli di portafoglio che le obbligavano a comprare i titoli del debito pubblico a tassi molto bassi. Tali vincoli sono stati aboliti dalle autorità monetarie, obbligando così lo stato ad approvvigionarsi a tassi di mercato. In tale modo lo stato si è trovato a dover finanziare tutta la differenza tra entrate e uscite (il disavanzo) a tassi di mercato, offrendo, di tal guisa l’opportunità di guadagni spropositati a tutto il sistema bancario nel suo insieme che acquistava così titoli ad altissima remunerazione e con altissima affidabilità.
Il divorzio tra Tesoro e Bankitalia, si è consumato nel 1982; da allora la banca centrale decideva e decide in piena autonomia quanto sarebbe costato e quanto costa il denaro e quanto avrebbe guadagnato tutto il sistema bancario (prima il TUS veniva deciso di concerto tra Tesoro e Bankitalia). Se a questo aggiungiamo l’eliminazione dei vincoli di portafoglio sopra citati che obbligavano le banche a detenere titoli di stato di favore, il quadro diventa particolarmente chiaro.
Per quelli che come me hanno una certa età, non è facile da dimenticare i periodi in cui il tasso per le linee di credito praticato dalle banche ai migliori clienti era inferiore a quello che si ricavava dai titoli di stato. E’ stata per lungo tempo complice una politica fiscale anch’essa di favore; le grandi imprese, comprese quelle a partecipazione statale, ma anche molte medie e piccole imprese e addirittura anche taluni benestanti cittadini hanno preso soldi a prestito e li hanno investito in titoli di stato lucrando la differenza tra tasso pagato alle banche e quello percepito dai titoli del debito pubblico.
Nell’esperienza italiana sembra quindi che l’accumularsi di debito pubblico abbia favorito anziché impoverire la formazione di ricchezza privata. Ed a dimostrarlo sembra il dato statistico che ad ogni riduzione del debito pubblico fa corrispondere, quasi meccanicamente, una diminuzione dei titoli di Stato nelle mani dei privati.
Ma il debito dello Stato continua a far paura. I motivi ? … la sua tendenza a trasformarsi in debito estero, perché sottrae reddito a lavoratori e imprese produttive per consegnarlo ai rentier; per l’uso improprio che potrebbero farne i governi, perché il pagamento degli interessi sui titoli pubblici sottrae risorse alla spesa sociale, ai servizi e alle infrastrutture.
Ecco solo alcune delle ragioni che consigliano il rientro del debito! Ma sarebbe, invero, riduttivo pensare che il debito pubblico sia stato accumulato nel tempo solo per pagare i rentier. In realtà con esso si sono finanziati servizi, sussidi ed infrastrutture! dove queste spese sono sostenute in gran parte dai privati, l’onere per le amministrazioni pubbliche è stato minore, mentre famiglie e imprese hanno attinto alle proprie riserve.
La scienza economica e il buon senso ci ricordano che lo “scambio” è vantaggioso per l’economia nel suo complesso solo se ricorrono simultaneamente alcune condizioni: il minore indebitamento pubblico deve corrisponde a minori imposte presenti e future; il settore privato deve fornire gli stessi servizi a costi minori; deve aumentare contemporaneamente la ricchezza reale del Paese (infrastrutture, macchinari, ecc.); i vantaggi precedenti devono superare l’eventuale maggiore costo dell’indebitamento privato rispetto a quello pubblico.
Tuttavia, questo meccanismo di redistribuzione interna della ricchezza all’interno del Paese, con la globalizzazione sembra non funzionare più. Le statistiche paiono confermare che ci troviamo di fronte ad un aumento della quota del debito pubblico dei paesi Ocse, soprattutto gli Stati Uniti, collocato all’estero, piuttosto che presso famiglie e imprese nazionali. In più, lo scoppio delle bolle finanziarie e immobiliari, inoltre, ha colpito duramente i patrimoni privati, mentre ha sostanzialmente risparmiato il tesoro degli Stati sovrani, in particolare  extraeuropei e in generale al di fuori del “Primo Mondo”, che in effetti adesso sembrano fare shopping di imprese e tecnologia occidente.
Se questo è lo scenario per i prossimi anni, non ci si deve aspettare troppo dai salvataggi di banche ed imprese a carico delle casse dello Stato, perché, a differenza del passato, si trasformeranno sicuramente in un’alta quota di debito estero. In particolare, il Fmi prevede che se il debito pubblico italiano salirà al 121 per cento del Pil nel 2010, con un balzo di 15 punti rispetto al livello attuale, la ricchezza di famiglie, imprese e banche crescerà al massimo di 12 punti di Pil, del tutto insufficienti a coprire le perdite dell’ultimo anno. Di conseguenza le future generazioni dovranno caricarsi di altro debito pubblico e, soprattutto, cresceranno di 3 punti di Pil i debiti verso l’estero dell’ “azienda Italia”.
Insomma un Occidente indebitato verso l’estero e con le proprie industrie in vendita.

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