Debiti publici e privati in un sistema liberista senza regole valide per la finanza
Le riflessioni che mi capita di leggere negli articoli della stampa o di ascoltare nei vari dibattiti estivi circa l’attuale crisi economia, non affrontano a mio modo di vedere un problema di fondo, tanto vecchio nelle discussione degli economisti quanto attuale oggi, sotto la spinta dell’impoverimento della “borghesia” dell’Occidente.
La questione della distribuzione della ricchezza, ovvero, in altri termini delle disuguaglianze economiche non è solo un problema morale, e necessita di una profonda riflessione che coinvolga intellettuali, economisti e politici in un tavolo di lavoro che affronti la faccenda.. L’effettiva estensione a tutti del diritto-dovere all’istruzione, alla salute alla partecipazione al prodotto è prodomica alla selezione di una classe dirigente che sia capace di permette ad un Paese di elevarsi culturalmente e socialmente e costituisce la base per il progresso.
Il capitalismo fondato sull’economia del lasser fair (che ha, invero, in premessa proprio la selezione per merito e la mobilità sociale), ha prodotto, purtroppo, una finanziarizzazione del sistema economico globale a scapito dell’industria. Nel suo famoso “Indagine sulle cause della Ricchezza delle Nazioni” ed ancora prima nella sua opera la “Teoria dei sentimenti morali” Adam Smith aveva già messo in evidenza l’importanza di fattori di lealtà, onestà e fiducia affinché il mercato potesse svolgere la sua funzione di meccanismo efficiente di impiego delle risorse. In altri termini, diversamente da ciò che si è andato ripetendo in questi anni, il liberismo lasciato a se stesso non può funzionare, e già nella mente dei “padri” del libero scambio era ben chiara la necessità che tale interesse individuale non avesse uno spazio di espansione illimitato, ma trovasse, ben prima dell’intervento calmieratore della concorrenza, un vincolo interno di natura morale.
Sgombrato preventivamente il campo da equivoci ideologici, possiamo affrontare l’argomento con maggiore serenità. Come ho avuto più volte modo di evidenziare su queste pagine, finanza ed industria hanno tempi di ritorno dell’investimento molto diversi: tempi lunghi per l’industria, brevi o brevissimi per la finanza. Abbiamo assistito in tali ultimi dieci anni ad uno spostamento repentino delle risorse dall’industria alla finanza, ad una finanziarizzazione dell’industria nel senso dell’adeguamento del “sistema dell’industria” ai tempi della finanza. La borsa è stata lo specchio della nuova realtà.
Ne è conseguito un impoverimento dei redditi derivanti dal lavoro dipendente (anche altamente professionalizzato) nonché dalle c.d. professioni liberali, almeno in quei paesi dove le corporazioni (sindacati ed ordini professionali in primis) non hanno resistito all’onda lunga del liberismo di maniera. I dati statistici del più importante paese dell’Occidente, gli USA, dimostrano che fra il 1973 ed il 1995 – molto prima quindi della crisi della finanza – mentre il PIL era cresciuto del 36% il salario medio orario dell’operaio qualificato calava del 14%. Nella direzione di un appiattimento verso i redditi degli operai vanno i redditi degli impiegati e dei professionisti. Negli ultimi anni, peraltro, i dati palesano un’ulteriore peggioramento della situazione, a cui va aggiunta la precarizzazione del lavoro (che colpisce soprattutto i nuovi ingressi) e la crisi del modello europeo dei sistemi pensionistici e di welfare .
Quindi un fallimento generazionale di cui, in parte, si sta già pagando il conto ? …. o si tratta piuttosto del riproporsi (come dicevano i romani ceteris paribus) del problema già affrontato dal grande economista Riccardo, della ripartizione della ricchezza tra salario, profitto e rendita. I protagonisti sembrerebbero essere gli stessi: i lavoratori dipendenti, imprenditori ed i proprietari immobiliari, intendendo con essi i proprietari di attività finanziarie (azioni, obbligazioni, ecc) ed immobiliari (anche in forma cartolarizzata).
Riccardo aveva presente i soli proprietari terrieri, ma l’analisi rimane la stessa se introduco un’ulteriore piccola variante: mentre Ricardo immaginava gruppi d’interesse contrapposti, qui i “borghesi” sembrano aver gioiosamente ceduto la propria quota di potere; i valori del risparmio e della tradizione patrimonio della cultura borghese, sono stati stracciati nel nuovo contratto sottoscritto con il mercato, complice l’illusione del guadagno facile ed il miraggio di una vita senza più bisogno del lavoro.
Ma si è trattato, appunto, di un’illusione.
Le statistiche, infatti, dimostrano come al terribile gioco della spartizione il guadagno netto della borghesia si sia dimostrato nullo e, viceversa sono aumentati a dismisura i redditi dei renitier!
Paradosso di tutti i paradossi, la spesa pubblica in questi anni è aumentata e a tale incremento di spesa va forse attribuito aumento della speranza di vita media. Ma quanto ai tanti obiettivi mancati nella corsa verso lo sviluppo, la letteratura economica è davvero completa ed a quella faccio volentieri riferimento. Per tutti, le belle pagine preparate dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, dove nel tentativo di ristabilire il legame tra economia ed etica sono stati elaborati indicatori di sviluppo compositi (tipo l’Isu, indicatore di sviluppo umano) che tengono conto oltre che del Pil anche della riduzione della povertà e della protezione dell’ambiente.
Ma perché il debito pubblico è aumentato e dove è andato il flusso di denaro ? … io ho un sospetto!
E’ noto che il debito pubblico si sostanzia nel debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o soggetti stranieri che hanno sottoscritto titoli di debito, ovvero, obbligazioni (come bot o cct) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale. Tale debito aumenta o diminuisce a seconda delle esigenze di cassa dello Stato, ma anche con riferimento al variare dei tassi d’interesse. Da un po’ di anni, molti governi dell’Occidente hanno scelto di finanziarsi al pari di ogni altro soggetto sul mercato con il risultato (a mio modo di vedere) di rendere molto più costoso il finanziamento del debito pubblico.
Ma cosa accadde esattamente con tale decisione, che guarda il caso coincide per molti paesi che hanno seguito tale linea con gli anni del decollo del loro debito pubblico? Il sistema bancario per lungo tempo è stato legato allo Stato in modo tale da “finanziare” le esigenze di cassa dello stesso avendo normalmente con esso dei vincoli di portafoglio che obbligavano le banche a comprare i titoli del debito pubblico a tassi molto bassi.
Con l’abolizione di tali vincoli da parte delle autorità monetarie, si è obbligato lo Stato ad approvvigionarsi a tassi di mercato. In tale modo, lo Stato si è trovato a dover finanziare tutta la differenza tra entrate e uscite (il disavanzo) a tassi di mercato, offrendo, di tal guisa, l’opportunità di guadagni consistenti a tutto il sistema bancario nel suo insieme che acquistava titoli ad alta remunerazione e con altissima affidabilità. Se a questo aggiungiamo l’eliminazione dei vincoli di portafoglio sopra citati che obbligavano le banche a detenere titoli di stato di favore, il quadro diventa particolarmente chiaro. Per quelli che come me hanno una certa età, non è facile da dimenticare i periodi in cui il tasso per le linee di credito praticato dalle banche ai migliori clienti era inferiore a quello che si ricavava dai titoli di Stato. In particolare in Italia, ma non solo – complice una politica fiscale anch’essa di favore – molte imprese ma addirittura anche taluni benestanti cittadini hanno preso soldi a prestito e li hanno investiti in titoli di stato lucrando la differenza tra tasso pagato alle banche e quello percepito dai titoli del debito pubblico.
Il meccanismo delle alte remunerazioni sul debito pubblico ha abituato i renitier verso gli alti rendimenti contribuendo in un’economia che esigeva bassi tassi sul denaro all’esplosione di quella economia di carta di cui abbiamo trattato.
Una chiave di lettura, mi rendo conto, parziale. Essa è tuttavia un modo per far comprendere a tutti l’importanza della moneta nella società moderna; nondimeno, far capire anche l’importanza del fenomeno della sovranità e della c.d. tirannia delle banche centrali, da sempre sottovalutato nella letteratura economica contemporanea.