30 Agosto 2009
Riceviamo da “Ignis” e pubblichiamo
BERLUSCONI E LA CHIESA
Post n°18 pubblicato il 29 Agosto 2009 da associazione.ignis
Una storia che si ripete? Sembrerebbe proprio di si. Corsi e ricorsi storici? Non si può escludere. Sono cambiati gli scenari politici e i personaggi, ma la sostanza è sempre la stessa: non cambia l’ingerenza della chiesa cattolica negli affari politici dello stato italiano, non cambia la pretesa dei vescovi di orientare le coscienze degli italiani e di influire sulle loro decisioni politiche.
Il presidente Silvio Berlusconi ha detto amareggiato: Nessuno ha fatto tanto per la chiesa e invece mi attaccano.
Mi permetto di non essere d’accordo con il presidente Berlusconi. C’è stato un presidente del consiglio che ha fatto molto ma molto di più per la chiesa: Benito Mussolini.
Il Duce del Fascismo nel 1929 firmò con il Papa un Concordato che restituiva alla chiesa un potere che il Risorgimento le aveva tolto. Un potere che per molti anni, durante il Fascismo, i preti esercitarono con prudenza e discrezione.
Morto l’ uomo della provvidenza, senza che la chiesa facesse nulla per salvarlo dalla ferocia della rappresaglia anglo-americano-bolscevica, la chiesa ha ripreso il comando a pieno regime per interposta persona, lo ha esercitato e continua ad esercitarlo con ferma determinazione.
Ad un certo punto è apparsa la Lega, alleata di Berlusconi, che sta rompendo le uova nel paniere. Il ruolo della Lega avrebbe dovuto essere della sinistra laica e libertaria, ma la sinistra in Italia dopo Togliatti non ha l’autorità morale di decidere qualcosa. Nei rapporti con la Chiesa non conta nulla ed è prona ai voleri dei Vescovi.
Se Berlusconi non vuole essere umiliato in un tira e molla senza fine, nel quale la chiesa è espertissima, ha solo una carta politica da giocare: la denuncia unilaterale dei Patti Lateranensi, in modo che l’Italia riacquisti la sua dignità di paese libero ed indipendente ed i preti tornino a fare i preti e la smettano di dettare legge sull’immigrazione ed altro.
* * *
Vittorio Feltri, direttore del Giornale, sta dando una mano a Berlusconi. Fa benissimo. Ma Feltri può fare molto di più. Feltri può sollevare il coperchio di quel grosso pentolone in cui la chiesa custodisce la supposta moralità di preti e prelati.
E’ un pentolone che bolle da molto tempo. Ogni tanto fuoriesce qualche rivolo di schiuma maleodorante: tutte le volte che viene denunciato un prete o un vescovo per pedofilia e immoralità si ha la sensazione che sotto sotto si agiti un vulcano di perversione e di corruzione.
E’ umano che un parroco si porti a letto la sua perpetua e nessuno lo condannerebbe per questo; non è umano che una religione sessuofobica e misogina imponga a una legione di preti e di suore il celibato e la castità eterna, un tenore di vita cioè che può essere accettato e vissuto solo da una minoranza di individui.
Il pentolone cattolico perciò ribolle di casi gravissimi di perversioni e di deviazioni sessuali. Altro che veline e signorine scollacciate che ballano e si divertono nelle ville dei nostri uomini politici!
Non sarebbe ora che Feltri sollevasse definitivamente questo coperchio e facesse venir fuori tutta la melma che contiene? Solo così la faremmo finita, una volta per tutte, con l’ipocrisia e il moralismo da strapazzo.
GARIBALDI E L’UNITA’ D’ITALIA
Post n°17 pubblicato il 28 Agosto 2009 da associazione.ignis
Un lettore di questo blog che si definisce curatore di una “lista di persone che hanno un atteggiamento positivo nei riguardi del Fascismo” ha reagito piuttosto male alla lettura del post intitolato “Italia e Vaticano”. Non mi è stato difficile scoprire – leggendo il modo in cui ha trattato Garibaldi – che queste persone sotto la “camicia nera” indossano la “nera tonaca” gesuitica, borbonica, sanfedista.
Apro subito una parentesi sui clericali di vario colore. Ce ne sono e ce ne sono sempre stati, sparpagliati tra diverse istituzioni, compresa quella massonica, clericali che antepongono all’amore di patria quella del mite salvatore dei popoli e delle anime.
Garibaldi li aveva sconfitti con le armi in pugno in Sicilia ed era corso a Roma per prenderli a pedate ed affogarli nel Tevere. Ci sarebbe riuscito se in soccorso di quest’oratorio mite e religioso responsabile del rogo di Giordano Bruno e di tanti altri eretici, non fosse accorso il fratello straniero d’oltralpe.
Ricordo che i “fascisti” che confondono il nero della camicia con il nero della tonaca sabotarono l’anima “rivoluzionaria” del fascismo e “consigliarono” Musssolini ad operare alcune scelte politiche che si dimostrarono nefaste per la libertà e la grandezza dell’Italia.
Mussolini e i fascisti si accorsero in ritardo dell’errore e dell’inganno e dopo aver fucilato i traditori travestiti da gerarchi, fondarono una repubblica con forte impronta laica e sociale, la quale si proponeva di ripulire l’Italia di tutti i cialtroni che garibaldini, repubblicani e socialisti avevano lasciato sopravvivere dopo l’Unità d’Italia.
Torno a Garibaldi. Tutte le volte che parlo o leggo storie di Garibaldi, riscopro la mia anima eretica. Spiego subito il perchè. Per capire e amare Garibaldi occorre andare in America Latina dove il mito e il ricordo di Garibaldi è più vivo che in Italia.
Non è un caso che Che Guevara, l’eroe latino-americano per antonomasia, sia nato in Argentina e fosse un ammiratore di Garibaldi.
Garibaldi schiavista? Garibaldi mercenario? Chi dà enfasi a questi fatti? Arianna.it? Franco Cardini? Guelfi e nostalgici del potere temporale della Chiesa e del Sacro Romano Impero (germanico).
Può una discutibile pagina nella vita di un Eroe, sulla quale non tutti gli storici di qua e di la dell’Atlantico concordano, offuscare decine e decine di episodi che hanno dato la gloria e l’immortalità all’eroe dei due mondi?
Cosa non è stato detto dai nemici di Cesare per offuscarne la memoria e la grandezza? E su Mussolini cosa non è stato inventato? E di altri, di cui non faccio i nomi?
Franco Cardini, di cui il lettore mi ha inviato un articolo sull’ Unificazione d’Italia, apparso di recente, non è nuovo a certe sparate. Nel dicembre 1992 la rivista IGNIS segnalava in una recensione le affermazioni anti-italiane rilasciate dal medievalista al quotidiano “L’indipendente” e che, nello stile melenso e curialesco di questo intellettuale, plaudivano all’immigrazione ed agli extracomunitari gestiti dalla Caritas e “trovava giusta l’ipotesi che l’Italia può sparire al più presto come identità politico-istituzionale”. E che tornasse a quell’espressione geografica voluta da Metternich.
Vengo infine con alcune considerazioni su Garibaldi massone.
E’ inutile dire che i guelfi fremono al ricordo dell’Eroe libero muratore. Garibaldi fu iniziato al Rito Scozzese e probabilmente al Rito Egiziano.
Quel che però i più non sanno o fanno finta di ignorare è che Garibaldi non fu un massone come gli altri. Negli archivi del Rito Filosofico Italiano si conservano le testimonianze storiche che dimostrano l’esistenza di una volontà di Garibaldi a favore di una unificazione massonica italiana sotto le colonne di un rito italico: il proposito ambizioso e contundente di sottrarre le logge italiane agli interessi e al dominio straniero.
Ciò dimostra che Garibaldi non fu solo un uomo d’armi, come l’oleografia patriottarda ce lo rappresenta, ma un italiano profondamente convinto di dare agli italiani un’unità spirituale, prima che geografica e politica, sotto il segno di Roma e della tradizione italica.
Quel “bisogna fare gli italiani” dopo aver fatta l’Italia nascondeva un progetto molto ambizioso. Progetto sabotato dai guelfi di tutte le obbedienze e di tutte le epoche, i quali non amano l’unità d’Italia e il primato italiano nel mondo, e difendono oggi l’immigrazione clandestina col sinistro proposito di trasformare l’Italia in un paese multirazziale sottomesso ed ubbidiente.
Chi conosce la storia occulta d’Italia sa che l’impresa di “fare gli italiani” è ancor più difficile della spedizione dei Mille. Garibaldi la tentò alla fine della vita e non potendovi riuscire passò il testimone ad altri che lo raccolsero e lo conservano con re-ligiosa devozione.
Italia e Vaticano
Post n°16 pubblicato il 24 Agosto 2009 da associazione.ignis
Non sono un ammiratore di Bossi. Sono anzi convinto che Bossi sogni di distruggere l’unità nazionale e di recidere in questo modo i legami storici che tengono avvinta la borghesia produttiva del nord Italia ai ceti parassitari e improduttivi romani tra i quali svetta il clero della città del Vaticano.
Ma questa consapevolezza l’ebbero tutti i grandi del Risorgimento, da Garibaldi a Mazzini, ai numerosi patrioti che si batterono per l’unità nazionale e i cui ideali ispirarono i grandi eventi della Grande Guerra e lo stesso fascismo laico e libertario delle origini. Erano uomini che credevano nella supremazia della politica e non potevano immaginare il rovesciamento che si è verificato ai tempi d’oggi con il prevalere del denaro su tutto.
La dipendenza delle classi politiche italiane dal Vaticano scomparve dopo la proclamazione di Roma capitale d’Italia e furono gli anni felici in cui lo Stato laico e liberale non dialogava con i preti che avevano avversata l’Unità e combattuto il Risorgimento in tutti i modi.
I nemici esterni cui la Chiesa si appoggiava per riscattare il potere temporale pericolante o perduto furono di volta in volta la Francia, l’Austria, la Germania e non avrebbero disdegnato di allearsi anche con il diavolo pur di difendere uno straccio di territorio.
Sotto sotto però i preti tramavano per riconquistare il terreno perduto e vista svanita la possibilità di farlo con le armi dei governi alleati, si affidarono alla “diplomazia” e diedero il via a quella fitta tessitura di incontri e di trattative che produssero i Patti Lateranensi.
Sciagura peggiore all’Italia non poteva accadere!
I preti hanno vista lunga e sanno pazientare. Il loro obiettivo era chiaro: riprendere le chiavi del potere perduto dopo Porta Pia e riprenderlo a Roma, tenendo piantati i piedi sul suolo sacro di Roma.
Evitarono in tutti i modi di scontrarsi con Mussolini che aveva restituito loro quel potere che avevano perso col Risorgimento e quando Mussolini fu fucilato e il fascismo liquidato, ritornarono in massa a governare per interposta persona.
* * *
Ai tempi d’oggi le cose sono cambiate. La Chiesa va perdendo fedeli e vocazioni in quasi tutto il mondo; ha perso la battaglia per il divorzio e per i diritti civili e il parlamento europeo ha negato l’esclusività delle radici cristiane dell’Europa, riconoscendo per la prima volta ai popoli il diritto di affermare i propri culti e tradizioni religiose.
Ma fin dal 1980 e forse anche prima con l’entrata dei primi immigrati filippini, la Chiesa e le istituzioni “laiche” ad essa collegate, misero le mani sul fenomeno migratorio con uno scopo semplice e in pari tempo diabolico: il controllo del grande flusso di denaro che questo movimento comporta giustificandolo con il solito bla-bla dell’umanitarismo e della solidarietà cristiana. La Chiesa cioè andava creandosi una nuova piattaforma di potere accanto a quella che già gestiva attraverso i partiti e i sindacati.
Bossi e la Lega non hanno tardato a capire il grande intreccio politico-affaristico che è alla base dell’immigrazione (prevalentemente clandestina) e nel decidere di porvi un freno hanno ricevuto in cambio, da una parte il plauso di una popolazione stanca di vedere le città invase da una massa di vagabondi e di delinquenti e dall’altra la reazione rabbiosa dei vescovi che rischiano di vedersi ridurre il gregge e le lanose pecore da tosare che lo compongono.
Il problema a questo punto diventa politico-giudiziario e va al di la della semplice questione dell’immigrazione legale o clandestina che sia.
Perché? Per una ragione molto semplice: tutte le volte che i preti sbraitano contro le leggi dello Stato compiono un atto di ribellione ed ogni Stato ha il preciso dovere di difendersi dai ribelli. Se la Chiesa si mantiene sotto l’usbergo delle varie immunità che i Patti Lateranensi le garantisce, lo Stato italiano ha un solo dovere: denunciare i patti del Laterano e dichiarare i preti, tutti i preti, cittadini come gli altri con gli stessi diritti e doveri degli altri.
Di conseguenza, se i preti decidessero di contestare una legge dello Stato o di opporsi alla politica del governo della Repubblica sull’immigrazione, non avranno da fare altro che iscriversi a un partito politico come il PD dove troveranno uno spazio adeguato alle loro elucubrazioni umanitarie e piagnone.
La finiscano perciò di fare gli eversori, come hanno sempre fatto, durante la prima e la seconda guerra mondiale, in pace ed in guerra; la finiscano di stare con un piede in due staffe, con il solito gesuitico doppiogiochismo.
Per concludere: non sono un ammiratore di Bossi, ma sono convinto che Bossi e la Lega siano gli unici oggi in grado di zittire i vescovi e di promuovere un vasto movimento d’opinione che porti alla denuncia e all’annullamento dei Patti Lateranensi e quindi alla restituzione all’Italia dei territori e delle proprietà del Vaticano.
Allegoria di Dolcepaese
Post n°14 pubblicato il 18 Agosto 2009 da associazione.ignis
Una nota di Antonio Pepe sull’articolo “Dalla Scuola Italica…alla pizza”.
Dolcepaese?!… che domanda colma di celata risposta!
Dolcepaese è il luogo del ritorno. Quale luogo? Il luogo senza spazio e senza tempo dove vive il Bambino che è in noi; è il luogo dell’Innocenza dove ogni evento vi avviene come in un gioco, una visione, un sogno.
Ciò presuppone che siffatto luogo, per essere in-cantato, sia popolato dai dolcepaesani difensori del Canto.
Una volta chiesi a mio nonno[1]: – nonno cos’è il ricordo? – la risposta fu tanto semplice quanto inattesa: – il ricordo – mi rispose – è poesia.
Dunque il ricordo, essendo poesia, è un’Arte. L’Arte quasi lirica della rievocazione, dell’Antico Canto e del ritorno a Dolcepaese dove vive il Bambino.
Mio nonno era affascinato da un siffatto luogo, tanto da rassomigliarselo alla “Città del Sole” di Tommaso Campanella – su cui ha scritto un saggio. Chi ha letto “La Città del Sole” ne riceve, come prima impressione, stupore ed incredulità, quel luogo è pregno di utopia, è impossibile, un non-luogo, un'”Isola che non c’è”!
Altrettanto vero, però, è il fatto che mio nonno non parla di un ritorno allegorico a Dolcepaese bensì di un ritorno concreto e reale.
Non tutti possono vedere Dolcepaese, pur se per caso (o turismo) vi capitano. Per poter vedere Dolcepaese bisogna riconquistare l’animo del fanciullo – la sua visione in-cantata del mondo, insomma guadagnarsi la residenza di Dolcepaesano.
Questa visione è lo stesso Canto a donarcela. Nel Canto un oggetto, un fatto, un evento particolare hanno il valore della metafora, sono archetipi – antichi e moderni.
Cosicchè “Il treno, quasi stretto fra le case, corre così vicino al mare da lambirne le onde, che s’affrettano, l’una dopo l’altra, verso la spiaggia” è la rappresentazione di un momento particolare della nostra vita – stretto tra le case – ovvero in un momento di oppressione, di crisi che può essere risolta in un solo modo: lasciare che la nostra vita faccia ritorno al luogo dell’in-canto. Decisa la risoluzione, sarà il mare stesso – la nostra origine – la nostra prima età a muovere onde che s’affretteranno a raggiungere la nostra spiaggia nel Canto e nella Visione del Dolcepaese.
Il libro acquista un altro senso, parallelo a quello letterale e più esplicito. In questo nuovo con-testo un altro mondo viene esplorato e percepito non meno reale di quello comune.
Mio nonno insisteva sul fatto che ad ogni cosa bisognava dare un nome preciso: – la proprietà di linguaggio è fondamentale! – diceva spesso.
Quando scriveva, sul suo scrittoio vi erano sempre gli stessi oggetti: la penna con il pennino marca Leone, il calamaio colmo di inchiostro blu Reale, un pezzetto di tessuto di cotone e un vassoietto pieno di borotalco che fungevano da carta assorbente, i fogli di carta su cui scrivere, i libri per la citazioni e gli immancabili dizionari di italiano, latino e greco antico. Mia zia Aida studiava nell’altra stanza o correggeva i compiti dei suoi alunni, pronta, però, accorreva quando mio nonno la chiamava per essere aiutato nella traduzione di qualche periodo o di qualche parola da un testo antico.
Notavo che le parole non erano scritte secondo i modi dello scrittore, il quale si fida del suo talento e verga il foglio con sveltezza e sicurezza, bensì ricercate e scelte ad una ad una, meditate, lentamente assimilate nella stesura del testo, codificate. Ora mi è chiaro! Quelle parole dovevano adattarsi, ognuna, a due significati della proposizione, uno esplicito e letterale, l’altro nascosto in immagini archetipiche secondo le regole di un’Arte antica ed esoterica. Dunque un libro nel libro.
Ciò che in “Visioni e ricordi d’altri tempi” sembra lirico, carico di aggettivi, in realtà nel testo nascosto è ermetico, sintetico, matematico… secondo le regole dell’Estetica esoterica dove ciò che conta è l’immagine, la visione percepita per mezzo dell’in-Canto e nel Canto stesso trovata.
Mio nonno è conosciuto come uno storico, uno studioso di discipline filosofiche… ma so per certo che in realtà fu scienziato all’avanguardia di quella scienza del Sè che come incitamento allo sforzo ha il famoso motto:
– Conosci te stesso se vuoi conoscere il mondo! – E non solo… tutti i suoi “amici” filosofi e perfino Benedetto Croce, di cui fu collaboratore, erano intenti alla medesima Opera che in Calabria – in Scalea in modo particolare – ha avuto uno dei massimi Centri.
antonio pepe