16 Ottobre 2009
Enea Franza
I nuovi Taboo dell’economia: le condizioni del Trattato di Maastricht
La stampa d’inizio ottobre ha dato grande enfasi alla notizia che sui 27 paesi che compongono l’Unione Europea, addirittura 20 hanno sforato il Patto di stabilità, cioè hanno presentato conti non conformi con i c.d. parametri di Maastricht, in particolare circa il rapporto deficit-Pil che non dovrebbe superare il 3%. Dopo lo sforamento di Grecia, Irlanda, Francia, Spagna, Romania, Lettonia, Malta, Lituania, Polonia, Regno Unito ed Ungheria, adesso l’Unione Europea sta per aprire una procedura per deficit eccessivo nei confronti di altre nove nazioni: Austria, Belgio, Italia, Repubblica Ceca, Germania, Olanda, Portogallo, Slovenia e Slovacchia, paesi che soffrono di una evidente debolezza strutturale e per i quali si prevede una ripresa lenta. Nella sostanza si tratta di un’Europa che fatica a rispettare le stesse regole che ha posto a base della sua fondazione.
Ma di cosa si tratta in verità, e soprattutto, che senso economico hanno oggi (ma che senso ci domandiamo hanno avuto anche nel passato) tali regole fondative dell’Unione Europea? Di fronte a situazioni come queste mi viene sempre da pensare a quanto scrisse il filosofo italiano Carlo Sini nei “Nuovi scenari filosofici. Dai francofortesi all’ermeneutica”. Egli, riferendosi in verità a tutt’altra questione, evidenzia, tuttavia, un carattere essenziale dell’ideologia attualmente imperante e che penso sia utile sottolineare: “Il mondo moderno è caduto preda della alienazione del sapere […] alienazione consistente nel separare la scienza dalla sua genesi e dal suo uso sociale. Di qui la polemica durissima di Horkheimer (e di Adorno) contro il neopositivismo, la logica formale e la stessa scienza della natura: questi saperi sono in larga misura l’espressione ideologica della società capitalistica e le scienze umane, che ne imitano i metodi empiristicamente e positivisticamente, generano solo la obiettivazione dell’uomo e perciò la sua sottomissione all’autoritarismo palese e nascosto del modello industriale … “. Ma a cosa ci riferiamo, o meglio … “che c’azzecca ?” Vediamo di spiegarci tornando alle nostre questioni.
Premettiamo che con Trattato di Maastricht, dal nome della città olandese in cui il 7 febbraio 1992 , si indica comunemente il Trattato sull’Unione Europea, che modifica il vecchio Trattato Istitutivo della Comunità Europea del 1957 (il c.d. Trattato di Roma). Entrato in vigore con l’adozione dell’euro, il 1º gennaio 1999, il Trattato di Maastricht è stato integrato con il Patto di stabilità e di crescita che – approvato dal Consiglio europeo di Amsterdam nel giugno 1997 – prevede una serie di obblighi collegati alla disciplina di bilancio. I Paesi che hanno inteso (ed intendono) adottare l’Euro come propria divisa, devono offrire delle garanzie , ovvero, rispettare i c.d. parametri di Maastricht cioè dei valori limite dei criteri di convergenza relativi alla stabilità dei prezzi, alla finanza pubblica, ai tassi d’interesse ed ai cambi, esposti all’articolo 121, paragrafo 1, del Trattato di Roma che istituisce la Comunità europea (TCE) . Tali parametri devono poi essere rispettati dai paese membri e, in caso di inosservanza e sforamento, la Comunità prevede un articolato procedimento di rientro nei limiti e nel caso di prolungata inerzia la relativa sanzione.
Ma vediamo nello specifico cosa prevedono il Trattato ed il successivo patto di stabilità e crescita: – La stabilità dei prezzi: “Il raggiungimento di un alto grado di stabilità dei prezzi […] risulterà da un tasso d’inflazione prossimo a quello dei tre Stati membri, al massimo, che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi”, ovvero, il tasso d’inflazione di un dato Stato membro non deve superare di oltre l’1,5% quello dei tre Stati membri che avranno conseguito i migliori risultati in materia di stabilità dei prezzi nell’anno che precede l’esame della situazione dello Stato membro; – “La sostenibilità della situazione della finanza pubblica [prevede l’articolo richiamato…] risulterà dal conseguimento di una situazione di bilancio pubblico non caratterizzata da un disavanzo eccessivo […]”. In particolare, il rispetto di tali valori è esaminato dalla Commissione che verifica il rispetto della disciplina di bilancio in base ai due seguenti parametri: a) il disavanzo pubblico annuale, misurato come rapporto tra il disavanzo pubblico annuale e il prodotto interno lordo (PIL) che non deve superare il 3 % alla fine dell’ultimo esercizio finanziario concluso. In caso contrario, tale rapporto deve essere diminuito in modo sostanziale e costante ed aver raggiunto un livello prossimo al 3% (interpretazione tendenziale a norma dell’articolo 104, paragrafo 2) o, in alternativa, il superamento del valore di riferimento deve essere solo eccezionale e temporaneo ed il rapporto deve restare vicino al valore di riferimento; b) il debito pubblico, anche in tal caso espresso come rapporto tra il debito pubblico lordo ed il PIL che non deve superare il 60 % alla fine dell’ultimo esercizio di bilancio concluso. In caso contrario, tale rapporto deve essersi ridotto in misura sufficiente e deve avvicinarsi al valore di riferimento con ritmo adeguato (interpretazione tendenziale). Per disavanzo pubblico si intende l’indebitamento netto stabilito dall’European System of Integrated Economic Accounts, mentre per debito pubblico il valore nominale lordo del debito alla fine dell’anno .
Per l’adesione all’Euro il Trattato prevede anche il rispetto di ulteriori due parametri: tasso di cambio e tassi di interesse a lungo termine. In particolare, circa il tasso di cambio si presume che “il rispetto dei margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo per almeno due anni, senza svalutazione nei confronti della moneta di qualsiasi altro Stato membro”. Lo Stato membro deve aver partecipato al meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo senza soluzione di continuità nel corso dei due anni precedenti l’esame della sua situazione, senza peraltro essere stato soggetto a gravi tensioni. Inoltre, lo Stato membro non deve aver svalutato la moneta nazionale (ovvero il tasso centrale bilaterale della propria valuta in rapporto a quella di un altro Stato membro) di propria iniziativa nel corso del suddetto periodo . Quanto ai tassi d’interesse, il Trattato prevede che: “i livelli dei tassi di interesse a lungo termine […] riflettano la stabilità della convergenza raggiunta dallo Stato membro”. In pratica, i tassi di interesse nominali a lungo termine non devono superare di più del 2 % quelli dei tre Stati membri, al massimo, che avranno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi. Il periodo da considerare è l’anno precedente l’esame della situazione nello Stato membro in questione.
Come abbiamo anticipato, il Trattato di Maastricht è stato integrato con il Patto di stabilità e di crescita, approvato cinque anni dopo ad Amsterdam, che oltre a dare contenuto specifico alle indicazioni circa debito e deficit, individua tre obiettivi primari (evitare che il debito pubblico assuma un andamento insostenibile; consentire l’uso anticiclico delle politiche fiscali per favorire la stabilità economica, favorire politiche di bilancio che aiutino il raggiungimento di stabilità nel livello dei prezzi), e prevede una serie di obblighi a carico dei governi; primo tra tutti il fatto che le banche centrali nazionali non possono concedere credito di nessun tipo ai governi, agli enti locali, alle istituzioni comunitarie e ad altre autorità pubbliche e secondariamente che il settore pubblico non può ottenere credito dalle istituzioni finanziarie, a condizioni diverse da quelle di mercato. Questo Patto, che si applica nella sua interezza solo ai Paesi che adottano l’euro, prevede, come visto, che ogni Stato membro presenti un piano di finanza pubblica allo scopo di raggiungere, nel medio termine, un pareggio o un attivo del bilancio e stabilisce delle precise modalità per l’applicazione di sanzioni ai Paesi aderenti all’euro che presentano disavanzi eccessivi.
Tuttavia, benché la politica fiscale permanga competenza esclusiva dei Paesi membri, nella consapevolezza che le politiche fiscali hanno un impatto significativo sulla crescita economica e sull’inflazione, sono stati disposti una serie di accordi istituzionali volti al mantenimento di finanze pubbliche equilibrate. Le misure si pongono in definitiva lo scopo di raggiungere l’obiettivo di medio-lungo termine di posizioni di bilancio “vicino al pareggio o in surplus”. L’idea è, infatti, che così facendo questi siano in grado di reagire meglio all’impatto delle fluttuazioni cicliche evitando di superare il tetto di riferimento. Nell’ottica della sorveglianza multilaterale, i membri sono, quindi, obbligati a sottoscrivere programmi di stabilità al Consiglio e alla Commissione Europea, mentre i non membri devono fare altrettanto con programmi di convergenza.
La procedura di verifica stabilisce quindi che il Consiglio europeo: – invii, una volta deciso che un disavanzo eccessivo esiste, delle raccomandazioni al governo interessato, affinché: 1) adotti le misure necessarie per porre rimedio a tale situazione entro quattro mesi; 2) tali misure assicurino la correzione del disavanzo eccessivo entro un anno dalla notifica del fatto, salvo “circostanze particolari” (riduzione annua del PIL reale di almeno lo 0,75%); – imponga sanzioni se il governo del paese inadempiente non adotta le misure necessarie per ridurre il deficit come raccomandato dal consiglio stesso; – stabilisca l’entità della sanzione, che consiste in un deposito infruttifero, trasformato dopo due anni in una ammenda qualora il paese Membro non corregga il deficit.Ma quali sono gli effetti, in termini di sovranità nazionale, a cui gli Stati Membri hanno rinunciato? … in estrema sintesi, lo spostamento al livello di governo sovranazionale di alcune competenze fondamentali di politica economica, che vengono, quindi, “perse” dai governi nazionali, quali il controllo dei tassi di cambio e della politica monetaria, ovvero, del controllo dell’offerta di moneta e “governo” dei tassi di interesse. Ma anche la perdita della politica di bilancio, intesa come possibilità di utilizzare l’indebitamento per espandere la spesa pubblica. Detta così, sembra una cosa grave, ma si potrebbe sempre pensare che di fronte ad un grande beneficio un pur considerevole sacrificio sia da accettare benevolmente, anzi, riferendoci alla realtà italiana, con la delega a Paesi ritenuti certamente più seri e virtuosi di noi (vedi Germania e Francia) non ci si possa che guadagnare … ! In effetti la spesa pubblica italiana è stata per molto tempo vissuta dai cittadini come mero spreco di risorse poste a carico di civili vessati e produttivi che pagavano per una pubblica amministrazione inefficiente, corrotta e sprecona.
Ma stanno e stavano davvero cosi le cose ? Addentriamoci ancora per capire cosa esattamente vuol dire mantenere un 3% di deficit pubblico sul Pil e 60% del debito pubblico sul Pil. Ovvero, perché sono stati scelti tali paletti e non altri valori ? Senza entrare in un’analisi approfondita sulla filosofia economica del trattato, si ha subito il sospetto che i parametri di natura puramente finanziaria siano viziati, arbitrari, fissi e generalizzati e che non tengano in conto le realtà economiche dei diversi paesi. La critica ai criteri di convergenza monetaria adottati nel trattato di Maastrich si è incentrata prevalentemente sugli effetti negativi in termini di domanda effettiva e di occupazione che implicherebbe una politica economica ad essi improntata.
Tuttavia, rinviando di un po’ le osservazioni su tale tema, è illuminante a mio modo di vedere soffermarsi sulle critiche apparse già nella prima elaborazione dei parametri sul Cambridge Journal of Economics, dell’economista Luigi Pasinetti. Egli osserva che non vi è alcuna giustificazione per prendere i valori applicabili alla Germania come riferimento, e che in altre parole non esiste alcuna ragione teorica per la quale un rapporto iniziale debito/Pil sia preferibile a quello di altri. Ciò che conta, infatti, è la sostenibilità del debito. Al fine di giustificare un valore deficit/Pil pari al 3%, è necessario dimostrare che tale valore sia quello appropriato al mantenimento della stabilità finanziaria. Il Trattato non lo prova e, soprattutto, non può provarlo. Il Trattato di Maastricht non si domanda a che punto possa il deficit diventare eccessivo, pertanto la sostenibilità nel tempo del debito è la questione chiave per giudicare la validità della scelta del parametro.
Al momento di mettere in moto una politica fiscale volta a far convergere la percentuale di deficit pubblico sul Pil verso il parametro del 3%, l’economia si troverà con un dato livello di debito pubblico iniziale. Quindi, il criterio di sostenibilità del debito pubblico può essere definito come il mantenimento negli anni successivi di un rapporto debito/Pil non superiore a quello iniziale. Ne consegue che il tasso di crescita del debito deve risultare non superiore al tasso di crescita del prodotto interno lordo. L’ avanzo o il disavanzo di bilancio dipende a sua volta dalla differenza tra gli introiti fiscali e la spesa pubblica, sommata al pagamento degli interessi sul debito. Se invece si considera solo il deficit primario, l’avanzo (o il disavanzo) dipenderà unicamente dalla differenza tra introiti fiscali e spesa pubblica. In ambo i casi il rapporto tra l’avanzo (disavanzo) pubblico e Pil è determinato dal segno negativo del saggio di crescita del rapporto del debito sul Pil moltiplicato per il suo valore iniziale. Nel caso ci si riferisca unicamente al surplus (o disavanzo) primario, la sua proporzione rispetto al Pil sarà determinata dalla differenza tra il saggio di interesse e il saggio di crescita del rapporto tra il debito pubblico e il Pil moltiplicato per il valore iniziale di tale rapporto.
In definitiva, per chi abbia già rinunciato a seguire il ragionamento seguito, si può più semplicemente dire che la sostenibilità del debito totale dipende da un valore del surplus (deficit) di bilancio superiore o uguale al valore iniziale del rapporto tra il debito e il Pil moltiplicato per il tasso di crescita del Pil, ma con segno negativo. Nel caso del deficit primario, la sostenibilità del debito è determinata dalla differenza tra il tasso di interesse e il saggio di crescita del Pil. Sulla base di questi semplici rapporti contabili, Pasinetti costruisce un esempio in cui a un rapporto iniziale del debito rispetto al Pil del 60% e con un tasso di crescita del Pil del 5%, la sostenibilità del debito richiede un deficit del 3%. Ora, proprio questi sono i valori in cui le autorità tedesche speravano potesse situarsi la Germania e che sono diventati gli effettivi parametri di riferimento. Tuttavia, vista l’importanza della sostenibilità del debito sul Pil piuttosto che del suo valore iniziale, vi sono valori di sostenibilità perfettamente compatibili con livelli iniziali di debito molto più elevati. Ad esempio, con un rapporto iniziale pari al 120% e un tasso di crescita del Pil del 5%, la sostenibilità del debito nel tempo si ottiene con un deficit pari al 6% del Pil. Lo stato delle finanze pubbliche dipenda in modo cruciale dalla differenza tra il saggio di interesse nominale e il saggio di crescita nominale del Pil. Se tale differenza è positiva, tanto più elevato è il debito iniziale rispetto al Pil tanto più alto deve essere il surplus primario necessario a mantenere il sistema nella zona di sostenibilità. In realtà, una serie diversa di valori è compatibile con l’obiettivo della sostenibilità del debito e ciò dipende dal fatto che i vari paesi differiscono in termini di valori iniziali e di tasso di crescita del Pil. Tanto per fare un esempio che a noi è molto caro, che con un rapporto di indebitamento iniziale del 124% ma con un tasso di crescita nominale del Pil molto più elevato della Germania e della Francia, l’Italia raggiunge la sostenibilità con un deficit del 7,21% del Pil, contro un deficit effettivo del 6,7%. Germania e Francia, invece, hanno un deficit effettivo superiore a quello necessario a mantenere la sostenibilità del pur basso rapporto iniziale tra debito e prodotto interno lordo. L’Italia, benché esprima un deficit assoluto superiore a quelli della Germania e della Francia, si trova ampiamente dentro i valori di sostenibità mentre i due fanatici della convergenza di Maastricht ne sono al di fuori, malgrado il basso valore assoluto del loro deficit.
Tali problematiche erano già note al tempo. In “moneta e credito” (2003) Sylos Labini suggeriva un approccio “innovativo” circa il debito, e ricordava: la sostenibilità dei debiti non va giudicata isolatamente, ma considerando insieme i debiti privati delle famiglie e delle imprese private con quelli pubblici. Inoltre, il problema dei debiti e della loro sostenibilità va giudicato non solo dal punto di vista degli stock ma anche da quello dei flussi. Osservava il grande economista: “la situazione di crisi economica generale e lo straordinario sforzo delle pubbliche amministrazioni per farvi fronte non può avere come esito finale quello della programmazione dei tagli necessari per “ri-ordinare” o “ri-agganciare” i vincoli di Maastricht. Forse sarebbe molto più opportuno riformulare il patto di stabilità includendo anche il debito privato. In fondo anch’esso è parte integrante dell’equilibrio macroeconomico”.
Ecco come un semplice ragionamento ci faccia capire molto più di tante chiacchiere come effettivamente stavano le cose! Se quindi si parte da un alto debito, come è successo per il nostro Paese, il raggiungimento degli obbiettivi di contenimento del debito pubblico ai parametri indicati nel Trattato, si trasforma in una vera camicia di forza per il Paese che vuole diventare membro o lo è già … Ma allora perche sono stati scelti tali valori? Quali sono stati gli scopi inconfessabili ?
L’ arbitrarietà dei parametri è soltanto apparente. In realtà essi nascondono a malapena il vero scopo politico-finanziario del Trattato, che nostro malgrado ci siamo trovati a dover subire. Infatti questi parametri possono essere soddisfatti, e comunque a fatica, da un ristretto numero di nazioni, escludendo una parte significativa di esse. Da qui la nuova divisione dell’Europa. Solo la Germania e una Francia a cui è stato permesso un certo lavoro di cosmetica finanziaria , hanno potuto costituire il nucleo originario a cui, nel tempo e con enormi sacrifici tali da sfiancare qualsiasi economia, si sono agganciati gli altri Paesi, a questo punto ormai in posizione definitivamente subalterna rispetto al blocco.
Emerge quindi il vero scopo del trattato di Maastricht: la creazione di una stabile e definitiva alleanza fra Francia e Germania, le quali hanno rinunciato reciprocamente ad una parte della propria sovranità, ottenendo in cambio la supremazia politico-economica sul resto dell’Europa. Ricordiamo al riguardo quanto un convinto sostenitore dell’Euro, l’economista Franco Modigliani assieme a Giorgio La Malfa ha riconosciuto in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera già il 14 aprile del 1998: “… dal momento che la Banca centrale europea non potrà finanziare monetariamente i fabbisogni degli Stati membri, i parametri relativi alla finanza pubblica – e soprattutto il rapporto fra debito e Pil – mancano quasi interamente di giustificazione economica. Per motivare comunque l’insistenza su questo aspetto del problema, il rapporto della Bundesbank esprime la preoccupazione che si possa creare un conflitto in seno all’esecutivo della Banca centrale fra la linea di rigore monetario delineata nell’articolo 105 e le posizioni dei membri dell’esecutivo della Banca provenienti da Paesi fortemente indebitati. L’osservazione è assai debole, a meno di non pensare che l’impegno alla assoluta indipendenza dei dirigenti della Banca dai Paesi di provenienza, di cui all’articolo 107, sia scritto sull’acqua. In realtà il 60% è un numero che non ha alcuna base oggettiva per essere preso come riferimento o come obiettivo di una politica. Il sospetto è che esso sia stato scelto perché in quel momento esso era rispettato da Francia e Germania e non dall’Italia, la quale con quasi assoluta certezza non avrebbe potuto raggiungerlo in tempo e sarebbe quindi restata fuori, almeno in una prima fase, dall’Unione monetaria. Del resto l’Italia lo accettò quando venne accolta una proposta più equilibrata di fare riferimento altresì alla tendenza stabile alla riduzione …”.
Dopo le considerazioni che precedono, rispondiamo prima alla domanda più importate: perche non si poteva rinunciare ad aderire ?
La risposta è nella conferma del ruolo internazionale che l’Euro raggiunge anche dal raffronto con due monete di riferimento come il dollaro e la sterlina rispetto alle quali l’apprezzamento monetario registratosi in questi dieci anni è stato a doppia cifra: del 18 per cento nel primo caso ed addirittura del 30 per cento nel secondo caso. Tutto ciò ha consentito di tenere sotto controllo il livello dell’inflazione che in tutto il decennio è stata stabile all’interno di una banda di oscillazione del 2 per cento. La stabilità monetaria tuttavia è stata virtuale? Diciamo che i benefici nei singoli Stati membri e per la popolazione stessa, sono stai apprezzabili nel caso della riduzione dei tassi di interesse di lungo periodo, scesi sotto la soglia del 4 per cento, che hanno permesso alle famiglie di accendere mutui a condizioni più favorevoli ed alle imprese di sostenere i propri piani di investimento. L’occupazione rappresenta un altro aspetto positivo di questo decennio di Euro. Sono quasi sedici milioni i nuovi posti di lavoro realizzati dal 1999 ad oggi rispetto ai circa 12 milioni degli anni ’90 ed ai 2 milioni degli anni ’80.
Che siano i bassi tassi di interesse a permettere il contenimento del debito pubblico e a stimolare l’industria a produrre alla lunga nuovi posti di lavoro? Sembra pensarla cosi il grande economista Franco Modigliani che tanto ha contribuito costruzione europea – il quale vede nel debito, soprattutto quello Italiano, uno spreco di risorse a valere sugli investimenti : “Le forze motrici dello sviluppo economico sono: investimento in capitale fisico, produttività del capitale, investimento in capitale umano, crescita della popolazione. L’investimento è determinato dal risparmio nazionale, cioè dal risparmio privato dedotto del deficit. Il risparmio privato è proporzionale al reddito attraverso un coefficiente che dipende dal tasso di sviluppo. Secondo la teoria del “ciclo vitale” sul risparmio, la crescita dipende dall’investimento, ma l’investimento a sua volta dipende dalla crescita attraverso il risparmio individuale. La crescita, dunque, è una funzione complessa dipendente da diverse variabili fra cui, in particolare, il deficit pubblico. Questo assorbe parte del risparmio privato riducendo direttamente l’investimento e quindi la dotazione di capitale e il futuro reddito, e mette in moto un ciclo perverso: riducendo l’investimento si riduce la crescita, che a sua volta riduce il risparmio – e quindi, indirettamente, l’investimento stesso. Tale effetto è legato soprattutto all’andamento del rapporto deficit/PIL: quando questo cresce, aumentano i consumi a spese del reddito e dei consumi delle generazioni future. Un simile processo è evidente in Italia, dove un disavanzo crescente in rapporto a debito e PIL è stato accompagnato da una caduta della crescita, del risparmio e degli investimenti. Giustamente, quindi, il trattato di Maastricht impone ai paesi che vogliono entrare nella moneta unica di contenere fortemente il deficit entro limiti prestabiliti” ed ancora circa la disoccupazione …:” Il precedente modello presuppone la piena occupazione, che richiede però un’appropriata quantità di moneta reale. Nel lungo periodo ciò è assicurato dalla politica monetaria e dalla flessibilità di prezzi e salari. Ma, in presenza di rigidità, l’occupazione dipende anche dalla politica monetaria. Un’insufficiente offerta di denaro produce tassi di interesse eccessivi che riducono investimento, reddito e risparmio. Si ritiene che la grande disoccupazione europea degli anni Ottanta e Novanta sia dovuta in larga misura alla politica restrittiva condotta dalla Bundesbank ed imposta agli altri paesi dello SME attraverso una politica di cambi fissi e libertà di movimento di capitali. Quando la disoccupazione è dovuta a un’insufficienza di moneta, il deficit pubblico contribuisce a sostenere sia la domanda, sia l’occupazione”.
Un punto molto spesso oggetto di aspre critiche è legato alla considerazione che l’introduzione dell’Euro abbia innescato un processo di crescita dei prezzi di beni e servizi. Da qui l’accusa di aver generato una spirale negativa con una perdita reale di potere d’acquisto dei salari ed un impoverimento generale, in particolare delle famiglie. Come si vede, una posizione difficilmente conciliabile …. In secondo luogo, molti rilevano come nel 1991 sulla situazione economica mondiale non gravavano previsioni negative sui tassi di crescita delle singole economie nazionali. Purtroppo negli anni seguenti comparsero in tutte le economie occidentali gravi segni di recessione, ai quali ha fatto fino ad oggi seguito una sostanziale stagnazione dalla quale, specie in Europa, non si riesce ad uscire. Infatti crescite del PIL attorno all’ 1% od al 2% non possono essere considerate segni di ripresa. Ciò in quanto sembra naturale che un sistema industriale aumenti ogni anno la sua produttività di almeno il 2%. Quindi tassi di crescita attorno all’ 1-2% non rappresentano una crescita dell’economia, ma indicano che la situazione generale è quella di una “zero sum society”.
Conseguenza immediata della bassa crescita è che non si può più contare sul finanziamento della crescente spesa e dei nuovi investimenti pubblici attraverso i futuri aumenti di ricchezza nazionale; in altre parole, i Governi sono obbligati a penalizzare, specie ai fini della Welfare Policy, alcuni settori a vantaggio di altri. Se, ad esempio, vengono stanziati nuove somme a favore dei disabili, nella stessa misura dovrà essere ridotta la spesa sanitaria. Più in generale se si aumentano gli stanziamenti per i Lavori Pubblici, nella stessa misura dovranno essere ridotte le spese per la Sicurezza o la Giustizia. E così via. E, poiché, specie in mancanza di una crescita economica che si è ridotta notevolmente negli ultimi anni, emergono problemi che hanno l’urgenza di essere affrontati, si aumentano le tasse (da qui l’aumento notevole della pressione fiscale ) non potendo “sforare” i parametri di Maastricht per quanto riguarda il disavanzo di bilancio. Poi, se l’elevata pressione fiscale diviene insopportabile per il cittadino, allora – come avvenuto, avviene ed avverrà -anche si sfora il parametro del disavanzo di bilancio.
Vediamo di sintetizzare cosa è avvenuto in Italia, premesso che la stampa e la maggior parte degli economisti nostrani hanno con i parametri un bene prezioso per l’Italia, in quanto essi hanno portato ad una politica monetaria fatta di certezze e ad una riduzione del debito pubblico rispetto al PIL.
Ma vediamo di riassumere nei punti che seguono l’accidentato percorso seguito dall’Italia: Atteso che c’è generale condivisione sugli obiettivi fondamentali della politica economica in Italia, in quelli monetari (il contenimento (e l’abbattimento) dell’inflazione e l’abbassamento dei tassi di interesse ) e circa il problema del debito pubblico che nel 1995 tocca il valore massimo (125,3% del PIL) e poi inizia a scendere (114,9% nel 1999) notiamo:
• La deflazione economica e l’aumento della pressione fiscale (supera il 43% del PIL nel 1999)
• Obiettivo fondamentale (nella 2^ parte degli anni ’90): avanzo primario (saldo di parte corrente al netto degli interessi sul debito)
• Sino al 1996 l’Italia aumenta le esportazioni grazie alla competitività determinata dalla svalutazione
• Alta disoccupazione (prossima al 12%), soprattutto nel Mezzogiorno, giovanile e femminile (il tasso di disoccupazione maschile nelle classi centrali d’età è pari all’1,9% nel Centro-Nord)
• Dal 1992 cade la quota dei redditi da lavoro dipendente e cade anche il livello reale delle retribuzioni unitarie del lavoro dipendente
• La forte riduzione dell’occupazione nelle grandi imprese (- 50% tra inizio degli anni ’80 e fine degli anni ’90)
• L’occupazione industriale italiana diminuisce tra 1991 e 2001 (nonostante la tenuta occupazionale dei distretti industriali)
• Aumenta la quota dei lavoratori autonomi
• La precarizzazione del lavoro dipendente
• L’Italia rispetta sostanzialmente i parametri di Maastricht (solo tendenzialmente il vincolo del peso del debito pubblico) e viene ammessa nell’UEM
• La caduta dei tassi di interesse, a seguito della politica monetaria della BCE, “alleggerisce” il peso degli interessi passivi del debito
• L’aumento del tasso di cambio dell’Euro negli ultimi anni indebolisce la capacità competitiva dell’industria italiana ed europea
Lascio ai più convinti euro-sostenitori sul riflettere e sul fare un bilancio, segnalando ai più interessati il dibattito alternativo che si è sviluppato sul Piano Delors (Presidente della Commissione Europea nel periodo 1985-1995) circa il ruolo degli investimenti nelle grandi infrastrutture europee e sulla posizione di Jean-Paul Fitoussi (“Il dibattito proibito”, 1995) circa l’asserzione che il problema europeo non è dato dai salari ma dall’abbassamento degli investimenti.
[1] in AA. VV. Storia del pensiero filosofico e scientifico. Il Novecento (4), a cura di Enrico Bellone e Corrado Mangione, prima edizione giugno 1996, Garzanti editore s.p.a. (s.l.), voll. 9, vol. 9^, pag. 6)
[1] Per l’Italia firmano il ministro degli Esteri Gianni De Michelis e quello delle Finanze Guido Carli. Un’orchestrina sta suonando Mozart. Sono le 18.05.
[1] Undici Stati sui quindici che allora componevano l’Unione Europa. (si veda in particolare Regno Unito,Svezia e Danimarca) pur potendo entrare in possesso di tali requisiti,hanno deciso di non aderire alla moneta unica. dal 2007 ad oggi, sono quattro i Paesi entrati ufficialmente a far parte di quella che oggi viene chiamata Eurozona: nel 2007 la Slovenia, nel 2008 Cipro e Malta e nel 2009 è stato il turno della Slovacchia. Così a tutt’oggi il numero degli Stati che hanno adottato l’Euro è salito a sedici
[1] Come modificato dal Trattato di Maastricht
[1] In pratica, al momento dell’elaborazione della sua raccomandazione annuale al Consiglio dei ministri delle finanze (Ecofin)
[1] 2.1 Articolo104c 1. Gli stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi. 2. La Commissione sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico negli stati membri, al fine di individuare errori rilevanti. In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio sulla base dei due seguenti criteri: a) se il rapporto tra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che; -il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina a quello di riferimento; -oppure, in alternativa, il superamento del valore di riferimento sia solo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti vicino a quello di riferimento; b) se il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato. (dal Trattato di Maastricht). E così successivamente nell’art. 1 del protocollo venivano indicati i valori di riferimento: -3% per il rapporto tra disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato; – 60% per il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo ai prezzi di mercato.
[1] Come specificato successivamente nell’art. 2, dell’Allegato al Trattato
[1] Da notare che dopo il passaggio alla terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM), il sistema monetario europeo è stato sostituito da un nuovo meccanismo di cambio (ERM II), che, peraltro, vale solo per gli Stati membri non ancora ammessi ad adottare l’euro
[1] Sotto questo punto di vista, Pasinetti mostra come per il 1996 i dati siano sfavorevoli a Francia e Germania e favorevoli all’Italia. I primi due paesi hanno un rapporto debito/Pil intorno al 60%, ma un tasso di crescita nominale del Pil molto inferiore a quello dell’Italia
[1] Ma anche l’Italia ha fatto un buon lavoro di cosmesi del proprio debito; valga per tutto il meccanismo utilizzato per l’ammodernamento della rete ferroviaria italiana (l’Alta velocità)