A Roma, sul Palatino, sono venuti alla luce i resti di una struttura senza precedenti. Che, ben presto, si è candidata a offrire l’ennesima prova delle meraviglie di cui Nerone volle circondarsi. “Precipua coenationum rotunda, perpetuo diebus ac noctibus vice mundi circumageretur” (Svetonio, Nero, XXXI, 2). Anche l’archeologia ha le sue regole non scritte, prima fra tutte quella per cui le scoperte più sorprendenti, quelle di cui si parla anche al di fuori della cerchia degli specialisti, sono casuali. L’ultimo esempio? Il ritrovamento, sul Palatino, di strutture che sembrano con tutta probabilità riferibili a una delle più stravaganti creazioni realizzate a uso e consumo del terribile Nerone. Il quale, da questa storia, esce un po’più simpatico del solito. Ma andiamo con ordine. Nello scorso mese di giugno prendono il via i lavori di consolidamento del fronte nord del Palatino, cioè del versante del colle che guarda verso il tempio di Venere e Roma e la chiesa di S. Francesca Romana. L’area è quella di una terrazza panoramica compresa nella zona nota come Vigna Barberini, nella quale, già in passato, archeologi del CNRS francese avevano condotto ripetute indagini. L’intervento prevede anche l’effettuazione di uno scavo, mirato ad accertare la natura e la consistenza delle strutture antiche esistenti nella zona di cui si vuole migliorare la compattezza e la solidità.
Gli archeologi si mettono dunque al lavoro, pressoché sicuri del fatto che le loro esplorazioni potranno comunque arricchire la conoscenza del contesto, precisarne ancor meglio le caratteristiche, ma che difficilmente potranno portare novità di particolare rilievo. E, soprattutto, impugnano le loro cazzuole nella quasi certezza di trovare, subito sotto il piano di campagna, altri segmenti delle poderose sostruzioni che si sviluppano anche in questa parte del Palatino. Sono, è vero, opere imponenti, realizzate con il fine di sostenere le grandiose architetture dei palazzi imperiali, ma pur sempre di sostruzioni si tratta.
Anche se Maria Antonietta Tornei, che per conto della Soprintendenza è responsabile scientifica delle operazioni, continua a pensare che lo scavo potrebbe non essere una semplice indagine di routine. Ragionando sulla topografia del sito, si ripete che quello spicchio del colle è in linea con le strutture superstiti della Domus Aurea (la famosa dimora imperiale costruita da Nerone dopo l’incendio che, nel 64 d.C., aveva devastato Roma) e,poiché quest’ultima, come narrano le fonti, si estendeva dall’Oppio fino al Palatino – occupando una vasta porzione della valle del Colosseo, monumento che all’epoca naturalmente non esisteva -, si dice che qualche propaggine della grandiosa residenza potrebbe ancora essersi conservata. Le prime sorprese non si fanno attendere: una volta rimosso l’interro superficiale, gli archeologi si trovano alle prese con un riempimento molto compatto, difficile dì muovere, che poco somiglia all’opera muraria adottata per la realizzazione delle sostruzioni. E anche le prime strutture presentano elementi insoliti. In particolare, vengono alla luce due setti, sulla superficie si nota la presenza d cune fossette emisferiche, del diametro di una ventina di centimetri. Al loro interno c’è una sorta di pasta, un materiale che ha la consistenza della pece: come sempre in questi casi, ne vengono conservati alcuni campioni, nel caso in cui si decidesse di accertarne la natura attraverso analisi di laboratorio.
In queste prime fasi, l’approfondimento dello scavo aumenta le perplessità: si cominciano infatti a distinguere una serie di murature, che non sembrano del tutto compatibili con l’andamento e l’articolazione delle sostruzioni. Queste ultime, infatti, si sviluppano secondo un modulo regolare – accertato sulla base di quanto visibile lungo il fianco della collina e sulla scorta delle precedenti indagini -, che descrive una sorta di «pettine» con il quale la pendice del Palatino era stata imbrigliata, in modo da poter reggere senza cedimenti le costruzioni che si era deciso di edificarvi. In particolare, si comincia a poter distinguere una struttura di forma circolare, di dimensioni cospicue, rispetto alla quale i setti murari nei quali erano scavate le già citate fossette emisferiche si dispongono a raggio. Ogni ipotesi appare prematura, ma comincia a farsi strada la certezza che, almeno in quel punto, le sostruzioni non siano la sola costruzione esistente. Si scende ancora e la situazione comincia a definirsi, almeno nelle sue componenti principali. Ai margini dell’area indagata vengono portati alla luce due denti del pettine formato dalle sostruzioni, all’interno dei quali però si conserva un’opera che con esse non ha alcuna relazione. Anzi, sulle prime, osservando l’eccellente stato di conservazione dei laterizi impiegati per il muro circolare, si immagina che possa trattarsi di una fabbrica moderna, forse cinquecentesca.
Guadagnato qualche metro, lo scenario si arricchisce di nuovi elementi. Il muro circolare è riferibile a un poderoso pilone (il cui diametro è stimato in 4 metri circa), dal quale si dipartono, a raggiera, 8 grandi archi, 4 sull’asse principale e 4 sull’asse mediano. Uno schema che si ripete anche più in basso e, fra i due livelli, dalla parte opposta alla superficie del pilone, viene alla luce anche una porta. L’insieme ha caratteristiche insolite, ma, soprattutto, se ne può ora escludere l’appartenenza all’età moderna. L’approfondimento dello scavo ha infatti chiarito il rapporto stratigrafico fra questo «intruso» e le sostruzioni: per fare spazio alle seconde, il primo è stato in parte demolito, e doveva dunque già esistere al momento dell’intervento. In più, potendola osservare da vicino, l’opera laterizia adottata per il pilone, per gli archi e per la porta si rivela di qualità eccellente e molto simile a quella attestata nella Domus Aurea. Ammesso che due indizi non facciano una prova, qualche ragionevole sospetto insorge. Avanzare ipotesi plausibili, tuttavia, non è facile, anche perché, almeno seguendo la logica del confronto, non si vedono possibili sbocchi: il complesso che sta tornando alla luce ha infatti una fisionomia insolita, che non sembra paragonabile ad alcuna opera architettonica romana nota. Forse, però, la soluzione dell’enigma sta proprio in questo, o meglio, nel desiderio di Nerone di stupire i suoi contemporanei con imprese perennemente fuori dall’ordinario. Il fantasma dell’imperatore tante volte vituperato aleggia infatti con sempre maggiore insistenza, in quanto, pensando e ripensando al pilone e soprattutto alla sua forma, è venuto quasi spontaneo riandare al passaggio della biografia di Nerone scritta da Svetonio. In essa, a proposito delle mirabilie architettoniche volute dall’imperatore per la sua residenza, si parla di una sala per banchetti rotonda, che girava continuamente, giorno e notte. Alle testimonianze degli autori antichi si guarda spesso con molta precauzione, consapevoli della possibilità che determinati dettagli o circostanze siano stati riportati senza troppo badare alla loro veridicità. Questa volta, però, le parole di Svetonio sembrano offrire la chiave di lettura dell’enigma. Una chiave di lettura fatta propria da Maria Antonietta Tomei e dai suoi collaboratori, fino ad annunciare ufficialmente, poco più di un mesi fa, la scoperta della sala da pranzo la Domus Aurea di Nerone che, imitando il movimento della terra, ruotava ininterrottamente. Rotti gli indugi, il quadro ha assunto contorni sempre più nitidi e, sebbene la stessa Tomei, in occasione del nostro sopralluogo, abbia ribadito che si tratta di ipotesi suggestiva, ancora da verificare, questa lettura della scoperta sembrerebbe far assumere una logica a molti di quegli elementi che, nel corso dello scavo, apparivano inspiegabili.
Allo stato si può dunque immaginare che il pilone fosse l’elemento portante centrale della sala da pranzo e che, insieme agli archi, ne garantisse il sostegno; la porta messa in luce il primo e il secondo livello degli archi potrebbe essere spiegata come un passaggio riservato al personale di servizio che garantiva il funzionamento del complesso; e le fossette emisferiche potrebbero avere avuto la funzione di facilitare lo scorrimento del pavimento, grazie all’impiego della sostanza simile alla pece.
Ma quanto era grande la sala, e come era fatta? Lo sviluppo del pilone e degli archi autorizza a immaginare un ambiente del diametro di circa 16 m, verosimilmente realizzato con materiali leggeri, onde facilitarne la rotazione: si pensa, per esempio, che la copertura, anche in ossequio alla ricerca del lusso e dell’originalità di Nerone, potesse essere fatta d’avorio. Più difficile, al momento, rispondere alla domanda su quale meccanismo permettesse alla sala di ruotare; né si ha idea di dove potesse essere alloggiato, tanto che uno degli obiettivi delle indagini future è quello di accertare se esso fosse stato impiantato all’interno o all’esterno del pilone. In ogni caso, doveva essere un impianto piuttosto sofisticato, ma senza dubbio alla portata dei due principali artefici delle meraviglie della Domus Aurea, gli architetti Severo e Celere. Secondo Maria Antonietta Tomei, potrebbero essere stati loro ad aver inventato una macchina appositamente concepita per la sala girevole, o potrebbero aver adattato allo scopo modelli sperimentati in ambiente alessandrino o greco. E, infine, ogni dubbio residuo sull’interpretazione della scoperta svanisce nel visitare il sito (la Terrazza Barberini è stata riaperta al pubblico lo scorso 25 ottobre, e la Soprintendenza ha inserito nella zona visitabile anche l’area dello scavo): da quell’angolo del Palatino si gode di una vista magnifica, che spazia sull’intera città, tale da giustificare pienamente l’idea di un osservatorio nel quale unire la gioia degli occhi a quella del palato.
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