9 Dicembre 2009
Mino Mini
Per un dibattito. Oltre la modernità
USCIRE DAL DESERTO
(anticipazione della pubblicazione dell’articolo che uscirà su Il Borghese di gennaio)
Kalendis Januarii MMDCCLXIII ad Urbe condita- gennaio 2010 era volgare. Se il direttore non rifiuta l’articolo per il taglio invero assai poco giornalistico e non adatto ad un mensile come questo, chi scrive si propone, con la chiusura del primo decennale del nuovo secolo, di aprire un confronto sui temi ed interrogativi posti da una certa cultura in atteggiamento critico nei confronti della degenerazione della modernità, rifuggendo da sterili nostalgismi.
Il discorso si svilupperà in più puntate e l’augurio è di indurre coloro che avranno la pazienza di leggere ad intervenire sui diversi aspetti della realtà espressi categorialmente dalla logica, dall’economia, dall’etica e dall’estetica.
Nove anni fa uscimmo da un secolo, il XX° dell’era volgare, che aveva lasciato irrisolti i grandi interrogativi circa il destino dell’uomo e che aveva visto radicarsi il dubbio angoscioso circa la capacità intellettuale e politica dello stesso di controllare il proliferare disordinato degli effetti dell’attività settoriale della scienza, della tecnica e dell’economia. Dubbio acuito dall’emergere di un mondo unificato, su scala planetaria, dall’economia; dallo sradicamento unito alla condizione di abbandono delle masse nonché dal trionfo del tipo umano a taglia unica che trova la sua soddisfazione nel lavoro salariato e nel consumo. Questo ultimo è il lascito più nefasto della modernità, ovvero della cultura meccanicistica ereditata dal secolo dei lumi ed entrata in crisi per eccesso di settorialismo: la proletarizzazione moralmente – e quindi politicamente – indigente degli individui ridotti a prodotti della tecnica, privi di identità e condizionati al consumo ai quali è stata cancellata la base intuitiva di valutazione della realtà fino a renderli indifferenti alla perdita del mondo come la definiva H. Arendt. Mondo si deve intendere lo spazio in cui l’uomo dimora e si deve correlare convenientemente con i suoi simili dando luogo alla politica. Le periferie sono perdita del mondo, l’architettura delirante delle varie archistars è perdita del mondo, la distruzione indiscriminata della natura è perdita del mondo. L’indifferenza verso tutto ciò è perdita dei valori di riferimento, è relativismo, è nichilismo. Senza valori di riferimento non c’è politica, non c’è libertà, ma solo lotta di tutti contro tutti o asservimento. Conseguenza della perdita dei valori è l’eclisse dell’arte che del mondo dovrebbe assicurare la continua creazione. E poiché mondo e politeia sono strettamente intrecciati, l’indifferenza del proletarizzato per la distruzione concettuale dell’uno ( su cui ritorneremo ) significa anche perdita dell’altra.
In questi nove anni del terzo millennio il dramma della politica si è consumato: le sinistre, che avevano visto implodere nel 1989 l’edificio politico da loro ideologicamente eretto, gestiscono oggi, per conto di speculatori finanziari e di un’imprenditoria moralmente spregiudicata, l’onda emotiva del ressentiment di quella massa di proletari politicamente indigenti che avevano contribuito a creare; le destre, se così vogliamo definire l’eterogenea compagine del P.d.L. nata dalla fusione a freddo del fenomeno Forza Italia con A.N. ed altri, improntate dalla visione liberale dell’individuo figlia della stessa cultura meccanicistica che ha generato, per contrapposizione, la sinistra, sembrano non curarsi dell’indigenza politica della indistinta massa degli uomini a taglia unica, paghe di proporsi come garanti dell’attuale ciclo lavoro-consumo.
Una certa destra, che potremmo definire con M. Veneziani vero moderno conservatorismo, che stava sviluppando un percorso iniziatico necessario per portare oltre il modernismo una concezione dell’uomo più organica, ma formulata ancora al grado intuitivo e quindi aurorale e non matura, è stata tradita da chi la rappresentava proprio nel momento in cui sembrava aver concluso il rito di passaggio, l’antichissimo rito italico del ver sacrum, la primavera sacra del nostro popolo.
Venne impersonato, nella prima fase – quella del sacrificio purificatore e consacratorio – dalla giovane generazione che fece a tempo a perdere la guerra e ne fu l’essenza sublimata. Se mai ci fu consacrazione del ver sacrum, la doppia generazione, quella che non fece a tempo a perdere la guerra e la successiva, ne sono state l’esempio. Nel processo di passaggio qualcosa di fondamentale, però, è andato perduto e tra l’agire ed il pensare politico si è andata allargando una frattura e si è persa la consapevolezza del momento che si stava vivendo.
Nel passaggio iniziatico si lasciano i simboli, le vesti e i costumi dell’infanzia per accedere ad una esistenza superiore, ma l’iniziazione nel ver sacrum comporta, con la consacrazione, la formazione dell’iniziando verso l’esistenza superiore identificata nella fondazione di una nuova comunità. Ciò non è avvenuto. Il passaggio dal M.S.I. ad A.N. implicava l’abbandono dei simboli, delle vesti e dei costumi non quello del proprio mondo interiore; implicava il superamento di questo per acquisire un nuovo sistema di misura organico, categoriale, della realtà comprendente al proprio interno anche ciò che si doveva superare in una compresenza di passato, presente e futuro. Implicava sì l’integrazione nell’ordine esistente, ma per RINNOVARLO ORGANICAMENTE con nuovi valori. Vi è stata solo l’integrazione in un mondo che già settantasei anni prima si stava tentando di superare. Ed è dovuto crollare prima il nucleo interno che sosteneva quel vecchio mondo per consentire l’integrazione di A.N..
A.N. non si è rivelato il partito nuovo per la comunità nazionale ma un partito accettato perché divenuto identitariamente uguale agli altri.
Per noi che veniamo da coloro che volevano realizzare, sia pure immaturamente, con tutti gli errori delle fasi iniziali, la sintesi del mondo dello spirito e di quello della materia traducendolo in organiche istituzioni civili ed in nuove concezioni artistiche superando la modernità, dominando il mondo dell’economia e della tecnica, trovarci oggi di fronte al baratro del nulla scavato dalle vecchie ideologie e a dover condividere il mondo virtuale che le nuove hanno eretto sospeso sullo stesso, significa non sapere più chi siamo politicamente.
Come cultura e come valori condivisi sappiamo di essere diversi e ne siamo coscienti, ma non abbiamo potuto essere dei creatori di nuove forme organiche nel campo del pensiero, dell’economia e della tecnica, della politica e – soprattutto – dell’arte. Siamo insabbiati nel deserto della modernità intuito da E. Junger che si è esteso anche alle oasi del pensiero e del sacro dove il processo, interrotto per il tradimento di chi impersonava il mondo del moderno conservatorismo, ci ha sorpreso. Per uscirne occorre riattivare il pensare politico con l’obiettivo del superamento, del situarsi oltre, al di sopra delle logore e strumentali contrapposizioni di destra e sinistra. Pensare politico come pensiero operante volto alla ricerca della dimensione intellettuale in grado di far compiere alla cultura e, perciostesso, alla politica il salto evolutivo che la liberi dal ciclo involutivo nel quale è imprigionata e dove rischia di perdere i risultati positivi conseguiti fino ad oggi declinando in una caduta progressiva della nostra civiltà.
Nella crisi di identità dell’uomo contemporaneo divenuto prodotto della tecnica, costretto alla sola dimensione di lavoratore -consumatore, pensare politico significa, innanzitutto, riproporsi il problema della complessità dell’esistenza umana, del rapporto uomo-natura o uomo-mondo. Apriamo allora il confronto sul tema della complessità dell’uomo e sul suo destino. Proviamo a porre di nuovo, sul metaforico tavolo della discussione alcune premesse di carattere metodologico formulate assai sommariamente per suscitare il dibattito.
L’uomo è la componente spirituale di un organismo simbiotico di cui la realtà naturale o edificata rappresenta l’altro simbionte. In questa sintesi di uomo e natura ( spirito e materia ) che si esprime in un luogo finito -il territorio- riconoscibile e misurabile con parametri organici e scalari (città,nazione, ecumene etc.), l’uomo distingue concettualmente la propria soggettività come compresenza di quattro aspetti o momenti: homo logicus, homo oeconomicus, homo politicus, homo aestheticus.
Nel superamento dei limiti finiti di tempo, spazio e materia che caratterizzano il suo rapporto simbiotico con la natura, egli diventa homo religiosus ( non clericale!) e come tale, attraverso la fede o il mito, si rapporta con l’entità ultrasensibile e dilata il suo orizzonte spirituale oltre la dimensione universale e cosmica.
In quanto homo logicus costruisce la propria mente, ovvero prende coscienza di sé nel mondo reale definendolo in enunciati che connette in proposizioni secondo l’articolazione del proprio linguaggio. Nasce, con questa presa di coscienza, il primo carattere individuale. Ogni lingua, infatti, è caratterizzata da una propria logica e guida la mente di chi si esprime e cogita, conferendo ai risultati del pensare una prima e particolare identità concettuale. (Siamo italiani perché pensiamo italiano). Ed ogni forma, ogni modo di connettere gli aspetti diversi del reale per trarne una sintesi conoscitiva ed espressiva,reca invariabilmente lo stampo della lingua adottata. Più organica è la forma più assume valore universale.
Per inciso: i dialetti non guidano la mente, non elaborano concetti universali sintetizzandoli in simboli per comunicare e riconoscersi in una patria comune; sono riduzioni strumentali del linguaggio per l’uso contingente di una limitata realtà antropica racchiusa in un’area altrettanto limitata. Fine dell’inciso.
La presa di coscienza di sé nel mondo reale si manifesta con l’adeguamento allo stesso e con la sua modificazione in un continuo processo autocoscienze di mutazione-evoluzione reciproca. La realtà condiziona l’uomo e ne è condizionata.
In quanto homo oeconomicus in una continua ricerca dell’equilibrio con il proprio simbionte (spontanea o intenzionale) persegue il fine di amministrare le risorse che la natura e l’uomo offrono, mettendo in atto, con scienza e tecnica adeguate, strutture sempre rinnovate e rinnovatesi con il mutare delle condizioni di equilibrio.
In quanto homo politicus organizza la convivenza dei propri simili dando forma alle strutture elaborate dall’economia e dalla tecnica ponendole in relazione con gli uomini. Si da delle istituzioni per formare organismi sociali per il perseguimento del massimo obiettivo dell’uomo che realizzerà come homo aestheticus: la creazione del mondo ovvero dove lo spirito si invera nella materia. E’ il territorio che, nell’accezione politica ed alle diverse scale, assume il connotato di città (civitas), nazione, ecumene.
In quanto homo aestheticus crea la propria imago mundi o visione autocosciente del mondo, sintesi espressiva e formale, sempre rinnovatesi, dello spirito dell’uomo (sempre totale) nel luogo da lui antropizzato (il territorio). In un processo di continua trasformazione, crea il mondo adeguandosi allo stesso, dandogli forma e significato espressivi della lingua, dell’economia, della tecnica, dei costumi, delle istituzioni sociali e politiche, della cultura e del senso del sacro. In altre parole, espressivi della civiltà che ha saputo realizzare e della Patria che ha saputo darsi.
In questa unità di spirito e materia (di uomo e natura), la realtà si distingue, ma solo concettualmente, nei diversi momenti dell’esistenza: il momento della logica o del concetto, dell’economia o del fine, della politica (etica) o dell’organicità, dell’estetica o dell’individualità. Momenti compresenti nella realtà secondo diversi livelli o gradi o famiglie di forme.
Nelle successive puntate si tratterà di questi distinti momenti con i limiti imposti dalla incompetenza di chi scrive sperando che qualcuno intervenga a colmare le inevitabili lacune.
Ecco, partiamo da quì per superare la costrizione dell’umanità ridotta a cyborg, a prodotto della tecnica, per recuperare il sogno dell’uomo nuovo mondato dai caratteri che le visioni ideologiche vollero imprimergli fallendo nel tentativo.
L’uomo nuovo è l’oltre-uomo, colui che va oltre l’essenza del borghese proletarizzato, dell’homo oeconomicus appiattito su un’unica dimensione, capace di liberarsi del ressentiment,il risentimento proprio del proletario moralmente indigente e irresponsabile.
Nasce dentro di noi, in una dimensione dello spirito dove non ha bisogno di esprimersi come libertà da vincoli imposti dal mondo per tuffarsi nel nulla possibilistico del libitum, ma come esigenza di libertà per un destino creatore proteso verso un orizzonte. E’ l’uomo che trovandosi davanti al baratro del nihil è capace di compiere il salto per ricadere dove già è -come dice Heidegger- purificato del vecchio modo di pensare avendo acquisito una diversa visione del mondo. Una capacità più vasta e diversa di conoscenza della realtà perché vista con occhi nuovi o diversi.
E’ questo diverso modo di pensare la realtà, l’essere nel mondo come apertura ad esso per abitarvi ed averne cura (il Dasein heideggeriano), per continuare il processo della sua creazione come continua e rinnovata opera d’arte che costituisce la rigenerazione profonda, l’aspetto aurorale, il principio che alimenta e illumina la vita.
(Continua)