Il meeting della scorsa settimana del Gulf Cooperation Council (che raggruppa gli stati del Golfo Persico: Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi, Oman) ha gettato le fondamenta di un nuovo sistema monetario, ispirato al sistema monetario europeo, mediante l’emissione di una valuta comune.
Il progetto, in gestazione da tempo, segue alle dichiarazioni del Direttore del Fondo Monetario Internazionale, Strauss Kahn, che ad ottobre invocava una nuova rivalutazione per i paesi del Golfo Persico all’interno del progetto ampio e complesso di una nuova governance globale. Strauss Kahn inoltre dichiarava:
“Nel momento in cui la ripresa comincerà il suo corso c’è il rischio di un forte aumento del prezzo del petrolio; il modo in cui il Gulf Cooperation Council deciderà di affrontare la questione ha molto a che fare con il rischio di double dip [di una nuova recessione, dopo l’iniziale fase di recupero, in un percorso a W] o con il reale recupero dell’economia globale”.
A guidare i paesi del Golfo guidati dall’Arabia Saudita è la volontà di svincolare i propri sistemi monetari dall’ancoraggio al dollaro, e dai conseguenti rischi di una spirale inflattiva importata dagli Stati Uniti proprio mentre le aspettative sui livelli dei prezzi sono prossime ad esplodere, come confermava fino a pochi giorni fa il massimo storico del prezzo dell’oro. Il quadro è ovviamente più complesso; la cosiddetta paura iperinflazionistica sembra per ora contenuta dall’ampia capacità produttiva americana inutilizzata e da un tasso di disoccupazione americano ai massimi storici.
Il dibattito infinito e per ora inutile sul destino del dollaro deve comunque aver spinto gli stati arabi a cercare una alternativa a un legame sempre più rischioso e ricco di incognite. La nuova valuta, nei progetti per ora taciuti dell’Arabia Saudita, dovrebbe progressivamente sostituire il dollaro quale valuta di scambio per il petrolio. Il gioco saudita rischia ovviamente di essere un arma a doppio taglio, laddove l’unico bene di esportazione, il petrolio, rischierebbe di subire le dinamiche di apprezzamento – deprezzamento di una valuta troppo debole nel complesso per sostenere il peso del principale bene scambiato al mondo.
Il piano, per funzionare, deve avere come contropartita qualcosa. Qualcosa di molto prezioso per il percorso fragilissimo del recupero globale. La riunione dell’OPEC di ieri, la scelta ovvero di mantenere nel corso del prossimo anno il prezzo del petrolio nella banda 70 – 80 dollari al barile, alla luce delle dichiarazioni di Strauss Kahn di due mesi fa, chiarisce quella che è la vera posta in gioco.
In cambio dell’inizio di un progetto di indipendenza monetaria, comunque lungo e tortuoso – il ministro degli esteri del Kuwait Sheikh Mohammed l’8 dicembre dichiarava di dieci anni il periodo di costruzione e implementazione di una moneta unica per gli stati del golfo – , l’Arabia Saudita e i suoi vicini si impegnano a mantenere il prezzo del petrolio sotto gli 80 dollari al barile per tutto il 2010.
Sono molti infatti ad accusare il volatile mercato finanziario dell’oro nero di essere all’origine dello scoppio della crisi un anno fa, quando il petrolio toccò quota 145.26 dollari al barile, amplificando le aspettative inflattive e stimolando l’ultimo fatale errore della Banca Centrale Europea che rialzò il tasso di riferimento di 0.25 in un contesto prossimo ad esplodere. Al di là delle differenti scuole di pensiero, i rialzi del prezzo del petrolio furono certamente la goccia che fece traboccare il vaso.
Ma c’è un secondo aspetto su un progetto, per ora ancora affidato alle cancellerie dei “tutto sommato” piccoli stati arabi, che potrebbe suscitare molteplici ipotesi. Dei sei stati appartenenti al GCC, solo quattro fanno per ora parte del costituendo sistema monetario. L’Oman si autoescluse del 2007 mentre gli Emirati Arabi, secondo stato per importanza dopo l’Arabia Saudita, ne sono usciti a maggio, indispettiti dalla scelta di Riyadh (Arabia Saudita) di autopromuoversi quale sede della Banca Centrale dei paesi riuniti; scelta peraltro giustificata dal tentativo saudita di proporre la loro capitale come nuovo centro finanziario in grado di competere con le principali piazze internazionali.
Come giustificare allora il recente crollo della piazza di Dubai (parte degli Emirati Arabi), trascinata al ribasso dal rischio bancarotta della holding di proprietà statale Dubai World? I riottosi Emirati Arabi, impegnati dopo le garanzie erogate da Abu Dhabi nel sostegno di uno dei principali suoi emirati, si vedranno forse costretti ad aderire a un progetto monetario accantonato per eccessiva self – confidence. Il sostegno della comunità finanziaria internazionale è invece essenziale per l’equilibrio di economie enormemente indebitate, nonostante i proventi dell’oro nero. Il nuovo laboratorio per la creazione di organismi di controllo sovranazionale passa, come sempre, per strade poco ideali quanto estremamente concrete. Bisognerà vedere se il gioco saudita, che forse riuscirà a riallineare gli Emirati Arabi, sarà in grado di imporsi nel contesto della nuova governance oppure se sarà l’ennesima cattedrale del deserto.