Pil: significati, paradossi, contraddizioni (tre)

17 Febbraio 2010

Enea Franza

Il Pil è soltanto una somma?  (III parte)

Come nascono i problemi e come vanno capiti

 

(La prima parte è stata pubblicata il 30gennaio 20109, la seconda il 4 febbraio u.s.)  Si è detto che il prodotto interno lordo misura il valore dei beni e servizi finali prodotti correntemente dalle unità produttive che operano nel paese ai prezzi di mercato. Ma tale scelta è neutrale rispetto ai calcoli che facciamo? Ovvero, essa impatta sul Pil, o, meglio e in altri termini, – prendendo tutti i prezzi dei beni e dei servizi prodotti – esprimiamo un valore esattamente corrispondente al valore della produzione?
Analizziamo la cosa con calma, evitando che il panico ci porti a frettolose congetture. Certamente un primo effetto distorsivo è connesso al fatto che il prezzo di mercato di molti beni scambiati includono anche imposte indirette (ad esempio, in Italia, l’imposta sul valore aggiunto, imposte di fabbricazione, ecc.): ne consegue che il prezzo dei beni e dei servizi non è pari a quello che il venditore percepisce; infatti, se il governo decidesse di aumentare, ad esempio, le tasse sul lavoro o sull’impresa, il risultato sarebbe l’inevitabile aumento dei prezzi per via della traslazione dell’effetto della tassa sul consumatore finale: per tale via si registrerà, così, un aumento del Pil. Ma i problemi purtroppo non finiscono qui, e, tanto per citare un altro dei vari problemi che il tema delle imposte indirette pone circa l’attendibilità delle misure del Pil, si deve constatare che il prezzo, al netto delle imposte indirette, null’altro è che il costo dei fattori (corrispondente appunto a quanto viene percepito dai fattori produttivi capitale e lavoro); la differenza tra il prezzo di vendita e il costo dei fattori produttivi esce allora dalla produzione e viene assorbita dall’operatore pubblico, come imposte indirette e, ridistribuita, sotto forma di spesa della pubblica amministrazione. Una complicazione con conseguenze non da poco!
Infatti, i servizi non destinabili alla vendita e che non hanno un prezzo di mercato, i c.d. servizi collettivi forniti dalle istituzioni sociali (istruzione, difesa, giustizia), vengono erogati a prezzi “politici” , addirittura spesso inferiori ai prezzi di produzione. Ma allora come devono essere valutati? Bene, qui si opera un artifizio, una finzione che – come tutti possono agevolmente comprendere – falsa ancora una volta i dati del Pil: si suppone, infatti, che il valore della produzione dei beni e servizi collettivi sia uguale alla somma dei costi sostenuti, tralasciando, tanto per capirci, almeno i costi del reintegro del capitale fisico e finanziario!
L’inclusione dei servizi collettivi crea, pertanto, la prima seria problematicità nel calcolo del Pil. Infatti, mentre si suppone che il Pil misuri il valore della produttività, in un settore cruciale – quello della pubblica amministrazione -non abbiamo modo di farlo. Se il governo spende di più ad esempio aumentando gli stipendi dei dipendenti pubblici, l’output aumenta. Le cose si aggravano considerando che, negli ultimi 60 anni, la percentuale dell’output di governo nel Pil è cresciuta dal 21.4 al 38.6 per cento negli Stati Uniti, dal 27.6 al 52.7 per cento in Francia, dal 34.2 al 47.6 per cento nel Regno Unito e dal 30.4 al 44.0 per cento in Germania. Ne consegue che quello che negli anni passati poteva essere considerato un problema relativamente secondario, è diventato adesso una complicazione di primaria importanza, capace senza dubbio di ridurre la significatività del Pil.
Tale riflessione sulla valutazione delle sole merci e servizi che abbiano un prezzo, evidenzia un’altra questione, non irrilevante, che riguarda i beni e servizi utilizzati nell’autoconsumo. Spieghiamoci meglio con un esempio: il lavoro della collaboratrice familiare (se regolarmente retribuita) è contato nel Pil, ma se lo stesso servizio è reso da un componente del nucleo familiare il suo valore non viene conteggiato nel Pil. Ma allora le conseguenze sono anche qui dirimenti: una notevole parte dell’attività economica non è computata nel Pil!
E le questioni non si esauriscono qui. Spingendoci più in dettaglio, potremmo addirittura distinguere le transazioni che non rientrano nel Pil in due tipologie: un primo tipo rappresentato da transazioni che, pur non essendo strettamente illegali, violano la legislazione legale, come i lavori retribuiti in contanti, mance, lavoro svolto da immigrati irregolari, riparazioni domestiche etc., ovvero, in definitiva, le attività produttive svolte “in nero” e che costituiscono l’economia sommerso. Dette attività sono stimate ed incluse nel Pil, con un procedimento che, pur con le modalità di scientificità che racchiude tale attività è, tuttavia, sempre fatto da stime e da congetture. Un secondo genere, invece, è rappresentato da transazioni illegali quali spaccio di droga, prostituzione, estorsioni, etc. ed altre attività sommerse che sono correlate all’elusione ed evasione delle imposte. Le transazioni illegali sono escluse in linea di principio dal calcolo del Pil (ed infatti un altro termine utilizzato in riferimento a questi prodotti è quello di “economia sommersa” per sottolineare come il ciclo di produzione e vendita di questi prodotti non contribuiscono al progresso dell’Economia di uno Stato).
Alcuni economisti ritengono possibile ed utile una stima dell’economia sommersa. Un calcolo approssimativo può essere fatto rapportando il circolante con i depositi: poiché le transazioni irregolari vengono di norma pagate in contanti, si suppone che tale rapporto sia tanto maggiore quanto più grande sia la quota di economia sommersa. Nel complesso, alcune stime indicano che il 30% del Pil italiano e il 10% di quello statunitense non è misurato dalla contabilità ufficiale. Il problema principale nel calcolo del valore dell’economia sommersa è che essa non rimane costante nel tempo: se ad esempio fosse una % costante del Pil, non ci sarebbero grossi problemi nel determinarne l’entità. Cosi ragionando, secondo alcuni studiosi, ad esempio, la lenta crescita dell’economia “ufficiale” italiana negli anni ’70 è stata in qualche modo controbilanciata dall’esplosione dell’economia sommersa.
E’ a tutti noto che le fasi dell’economia sono descritte in termini di variazioni di Pil nel tempo: in particolare, è Boom, quando il Pil cresce a ritmi elevatissimi; siamo invece in espansione quando il Pil cresce in maniera sostenuta; in stagnazione se il Pil è stazionario (abbastanza costante); Recessione, infine, quando il Pil diminuisce. Solitamente l’economia (e di conseguenza il Pil) ha un andamento ciclico: da una fase di espansione, si passa alla stagnazione e poi si ha una fase di recessione. Tuttavia, a bene vedere anche quello che appare come un semplice raffronto nel tempo di una misura necessita, quando oggetto della misura è un dato complesso come il Pil, del chiarimento preliminare, di alcune problematiche di non poco conto; infatti, nel tempo del Pil possono variare sia le quantità prodotte di ogni bene (o servizio offerto), che il loro prezzo (unità di misura su cui è calcolato il valore dei beni e dei servizi), oppure, può accadere che alcuni beni (o servizi) escano di produzione e vengano rimpiazzati (o meno) da altri.
Come fare allora per sapere quanta parte della variazione del Pil è dovuta alle quantità e quanta ai prezzi? Non solo, il Pil è spesso calcolato partendo da dati provvisori (es. sul “Bollettino mensile di statistica”), e quindi le stime vengono progressivamente rivedute dagli istituti di statistica e questo complica ancora di più i calcoli.
La valutazione del Pil viene normalmente fatta a prezzi correnti (quelli dell’anno in corso) e nel qual caso si parla di nominale o a prezzi costanti (quelli di un anno-base preso a riferimento) e allora si parla di Pil reale; cosi facendo, moltiplicando il rapporto fra il Pil dell’anno in corso e quello dell’anno-base (valutati entrambi a prezzi costanti) si ottiene il numero indice % delle quantità . Si utilizzano, pertanto, dei numeri indice che danno una soluzione approssimata del problema. Facciamo un esempio per capirci meglio. Premesso che il 1995 costituisce attualmente l’anno base nella misurazione del reddito reale dell’Italia, il Pil reale (e nominale) in Italia era di 81.145 milioni di Euro nel 1995 e di 88.205 milioni di euro nel 2005 (reale perché il valore è espresso in lire del 1995 convertite in euro). Il Pil reale è cresciuto in 10 anni ad un tasso medio dello 0,87%, (88205/81145*100-100/10). E’ evidente che con il Pil nominale (ovvero se i valori fossero tutti a prezzi correnti) il confronto anno su anno non avrebbe alcun senso .
Ma perché il Pil nominale è cresciuto più velocemente del Pil reale ed, in secondo luogo, dei fattori che determinano la crescita del Pil reale? La differenza tra i tassi di crescita del Pil reale e nominale dipende dal fatto che i prezzi dei beni prodotti nell’economia mutano nel tempo. Il Pil reale calcola il valore dei beni prodotti sulla base dei prezzi esistenti nell’anno base (il 1995 in questo caso), mentre il Pil nominale valuta i beni ai prezzi del periodo in cui sono stati prodotti. Poiché i prezzi di quasi tutti i beni sono saliti, il Pil nominale è cresciuto più velocemente del Pil reale. Gli aumenti dei prezzi, ossia l’inflazione, spiegano la differenza tra i tassi di crescita del Pil reale e del Pil nominale.
Veniamo ora alle determinanti nella variazione del Pil reale di un Paese nel tempo. La prima osservazione che va fatta è che la causa delle variazioni del Pil reale sta nel fatto che l’ammontare delle risorse disponibili nell’economia (lavoro e beni capitali) può mutare. La forza lavoro, costituita dagli occupati e da color che sono in cerca di occupazione, se cresce nel tempo rende possibile una maggiore produzione, così, allo stesso modo lo stock di capitale, inclusi gli edifici e le macchine, se aumenta nel tempo, consente una crescita della produzione. Gli incrementi nella disponibilità dei fattori della produzione, il lavoro e il capitale utilizzati nella produzione di beni e servizi, spiegano così, in parte, l’aumento del Pil reale. La seconda causa di variazione sta in una modifica dell’impiego delle risorse date, disponibili per la produzione in quanto non tutto il capitale e la forza lavoro disponibili sono sempre effettivamente utilizzati. Nel 1995, in Italia, per esempio, una riduzione dell’occupazione, ossia un aumento della disoccupazione, si manifestò in un abbassamento del Pil reale. Dati i fattori della produzione, quindi, variazioni della loro utilizzazione fanno variare il Pil reale. Una ultima causa di variazione del Pil reale sta nella possibilità di variazioni di efficienza nell’impiego dei fattori della produzione. Gli stessi fattori possono produrre nel tempo quantità maggiori. Tali aumenti di efficienza produttiva derivano da mutamenti nelle conoscenze, incluso l’apprendimento tramite l’esperienza, ossia quella migliore esecuzione degli stessi compiti ottenuta appunto tramite l’esperienza.

 

[i] Tali prezzi sono correlati a servizi che, per ragioni di politica “sociale”, non sono connessi a valutazioni di convenienza economica particolare dell’azienda pubblica che li eroga, bensì a valutazioni di convenienza/opportunità per la comunità. Essi non sono necessariamente inferiori al costo
[ii] Il numero indice dei prezzi è invece dato dal rapporto % tra la valutazione del PIL a prezzi correnti e quella a prezzi costanti, e viene chiamato deflatore implicito del PIL. Deflatore implicito = PIL (p correnti) / PIL (p costanti).
[iii] Nell’economia italiana il valore del Pil è stato nel 2005 di 88,2 miliardi di Euro (valutato in base ai prezzi del 1995 convertiti in Euro).