Una ripresa squilibrata o un nuovo ordine globale ?
La crisi del commercio internazionale, seguita allo shock finanziario del 2008, ha accentuato i cambiamenti in atto da tempo nel quadro delle relazioni economiche globali facendo emergere anche sui tableau più popolari gli squilibri internazionali che la politica della liquidità facile aveva in parte oscurato. Tanto per dare un po’ di numeri, nell’anno solare 2009 la caduta degli scambi mondiali è stata, secondo diverse stime, attorno al 10%. Gli economisti hanno raggiunto un certo consenso sulle cause del “grande collasso”: il crollo della domanda dovuta ai timori di imprese e consumatori per la crisi globale e la paralisi della finanza, il tutto aggravato da un’alta sincronizzazione fra settori e fra paesi, è stato in larga parte determinato dalla maggior interdipendenza dei mercati e dall’integrazione delle catene di produzione. Adesso, gli analisti economici che cercano di rassicuraci sulla ripresa devono rilevare che se una crescita del commercio mondiale c’è, questa, tuttavia, è a due velocità (se non addirittura a tre); da una parte i Paesi del Nord del mondo (USA, Irlanda, Islanda e Gran Bretagna in testa), dall’altra il resto d’Europa ed i Paesi del Medio ed Estremo Oriente. Mentre, infatti, la Cina ha grandi riserve valutarie e surplus commerciali verso gli USA (ma non verso gli altri Paesi, anche dell’Asia) l’Europa presenta una forte ambiguità: da un lato Paesi pesantemente indebitati, come la Grecia, la Spagna ed i paesi dell’Europa Centrale ed Orientale ed altri, come la Germania, che invece presentano un forte surplus nella bilancia commerciale ed una bassa domanda interna. Il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, intervenendo nel corso di una conferenza organizzata a Bruxelles dalla Commissione affari economici del Parlamento Europeo , ha marcato con efficacia tale situazione: “La ripresa in corso e’ un primo passo, ma poi ci ritroveremo con gli stessi problemi che avevamo prima della crisi. Problemi che non sono scomparsi”… In effetti, ha spiegato Strauss-Kahn: “se vogliamo guardare al futuro, dobbiamo guardare a un miglior equilibrio della domanda mondiale, dobbiamo affrontare diseguaglianze”, un punto, ha ricordato il direttore generale, che: “i leader del G20 hanno già identificato come priorità massima. Il cambiamento e’ che adesso tutti sono più consapevoli, occorre affrontare la questione degli squilibri mondiali … ci sono paesi con deficit enormi, ad esempio gli Usa e alcuni paesi Ue, che devono risparmiare. E poi ci sono paesi con eccedenze, la Cina, la Germania, i paesi produttori di petrolio. In questo caso e’ la situazione inversa, la domanda interna deve aumentare, ci vorranno più consumi più investimenti”. Insomma, in altri termini, gli squilibri mondiali, ovvero, l’instabilità delle economie di mercato capitalistiche che si manifestano nella disoccupazione, nell’inflazione, negli squilibri della bilancia dei pagamenti, nel persistente sottosviluppo di molte aree del mondo saranno la causa di una prossima crisi economica” Certamente sentire fare ad un uomo legato ai massimi livelli di una struttura come il Fondo Monetario Internazionale interventi di tale gravità, deve far riflettere un po’ tutti e genera una comprensibile apprensione anche in coloro che non masticano di economia. Tuttavia, ricondurre ogni squilibrio ad causa potenziale della crisi internazionale evidentemente non aiuta a stimolare la ricerca di una politica economica condivisa. Vediamo allora di riflettere con le nostre teste, visto che è noto a tutti che gli economisti spesso esagerano, nel bene come nel male, perdendo molte volte il senso delle cose. Le analisi a disposizioni ci confermano che la crisi del sistema bancario del 2007, nata come crisi dei mutui subprime che ha colpito in prevalenza i Paesi dell’aera Nord Atlantica (in primis USA e Gran Bretagna), si è trasformata in shock globale nel settembre del 2008, generando un crollo del commercio mondiale dal terzo trimestre del 2008 fino al secondo trimestre 2009 che ha manifestato una rapidità, gravità e globalità (toccando tutti prodotti ed i Paesi del mondo) mai evidenziata prima d’allora in una crisi economica. Peraltro, mentre lo shock finanziario è stato fino ad ora assorbito con ignizioni di liquidità e con l’accollo dei debiti privati da parte degli Stati, il crollo dei commerci internazionali ha invece avuto conseguenze difficilmente gestibili con interventi di finanza pubblica. A questo punto, allora, è d’obbligo approfondire gli squilibri sistemici di cui i commerci internazionali sono essere portatori e che la letteratura economica ha sempre rappresentato. Per far ciò, tuttavia, ci sembra utile far riferimento alle posizioni dei conti di uno Stato con l’estero per quelle sole economie che abbiano un’importanza nel sistema degli scambi internazionali e che riflettano distorsioni o comportino rischi per l’economia mondiale. Ovvero, in altre parole, alle posizioni dei conti con l’estero relative quindi certamente ai flussi di conto corrente legati ai movimenti commerciali, ma anche concernenti il profilo della composizione degli stock di attività e passività sull’estero. Questo lo facciamo perche siamo convinti che bisogna vedere oltre ai movimenti del commercio internazionale anche le riserve complessive accumulatesi a seguito di tale flusso commerciale come contropartita alla vendita di beni e servizi e come essere siano detenute dal Paese esportatore. Risulta, infatti, a questo stadio dello sviluppo della finanza internazionale, imprescindibile conoscere se gli stock finanziario siano posseduti in valuta, in titoli di debito, in partecipazioni azionarie e/o più in generale in titoli con finalità speculativo o di investimento, ovvero, in beni reali ( metalli preziosi,immobili, ecc. ecc.). Mi spiego meglio, perche mi rendo conto di essere stato abbastanza oscuro e per farlo cerco di spiegarmi partendo un po’ lontano per ritornare poi al punto. Come sappiamo, le transazioni economiche che legano un Paese con il Resto del Mondo sono registrate in un documento (contabile) la Bilancia dei pagamenti che, registrando tutte le entrate e le uscite valutarie di un Paese nel corso di un anno, riesce a raccogliere con completezza gli scambi economici. In particolare, secondo le regole contabili in corso nell’UE, uniformate a partire dall’anno 1999, la bilancia dei pagamenti si articola in tre sezioni: il conto delle partite correnti (bilancia commerciale + bilancia dei pagamenti unilaterali), il conto capitale ed, infine, il conto finanziario. Nella bilancia commerciale vengono registrate le transazioni relative a beni e servizi ed ai redditi da lavoro dipendente e da capitale, mentre la bilancia dei trasferimenti unilaterali comprende i trasferimenti correnti (rimesse degli emigrati, pensioni erogate da enti esteri a residenti, eredità e donazioni), i debiti e le imposte indirette versate all’Ue (dazi e prelievi sulle importazioni agricole, quota dell’IVA, ecc.), i crediti ed i contributi versati/ricevuti dall’Ue (agricoltura e formazione professionale) da altri organismi internazionali, gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Nel Conto dei movimenti di capitale, invece, compaiono i trasferimenti unilaterali in conto capitale, ovvero, i movimenti connessi all’espatrio o rimpatrio definitivo di emigrati o alla remissione di debiti o altri trasferimenti non finalizzati al consumo, i trasferimenti della U.E o di altri organismi nazionali o internazionali, le acquisizioni le cessioni di attività non finanziarie non prodotte (transazioni relative a terreni, risorse del sottosuolo, ecc. se poste in essere da ambasciate, consolati o basi militari all’estero, ecc.) e da attività intangibili (licenze, brevetti, ecc.). Nel conto finanziario, infine, rientrano gli acquisti di azioni e quote di fondi comuni, titoli di debito quali le obbligazioni ed i titoli di Stato siano essi effettuati per acquisire una responsabilità gestionale e per stabilire un legame durevole con un’impresa che opera in un paese diverso che effettuati per fini di portafoglio. Nel conto finanziario rientrano, altresì, le operazioni in derivati (opzioni, future, swap, ecc) e le transazioni finanziarie su crediti commerciali, prestiti, flussi di banconote e di movimentazione di depositi bancari, ecc … Infine, rientrano nel conto finanziario le riserve ufficiali, ovvero, le attività liquide detenute dall’autorità monetaria (la Banca d’Italia in quanto componente del Sebc) costituite da crediti vantati nei confronti di paesi non aderenti all’Uem denominati in valute diverse dall’euro (oro monetario, Dsp, quota sottoscritta di partecipazione al FMI, valute estere). Vale, naturalmente che la somma tra i saldi citati è pari a zero. Tuttavia, se escludiamo i movimenti nel conto finanziario le riserve ufficiali, la somma dei saldi può evidenziare uno sbilancio. Per inciso, osserviamo che solo le transazioni relative alle partite che compongono la Bilancia commerciale e delle transazioni unilaterali contribuiscono a determinare il PIL, mentre quelle iscritte nella bilancia dei movimenti di capitale e nella bilancia dei movimenti finanziari non incidono sul PIL. Incidono, tuttavia, fortemente sull’economia i movimenti di denaro e di ricchezza che essi misurano ! Tutto ciò premesso, spero che adesso possa risultare più chiaro il discorso che tenterò di sottoporre alla paziente attenzione del lettore. In primo luogo, parlando di squilibri occorre porre l’accento su tutte le economie di importanza sistemica; considerando solo gli Stati Uniti, come fanno alcuni economisti, si trascurerebbe il ruolo dei paesi che detengono gli avanzi nelle partite correnti corrispondenti (ovvero, esportazioni superiori alle importazioni).
L’accumulo di risparmio netto in Asia e nei Paesi esportatori di petrolio, ad esempio, è – secondo noi – uno dei fattori fondamentali alla base degli squilibri mondiali. Infatti, gli introiti derivati dall’eccedenza netta dell’esportazioni sulle corrispondenti importazioni genera una ingente quantità di denaro in tali economie, solitamente tenuto in dollari, in forma liquida, o in titoli di debito USA. Vediamo meglio con i numeri di cosa parlo. La bilancia dei pagamenti Usa dal ’46 al 1981 è in attivo, dal 1982 al 1997 raggiunge un passivo di 1200 md $, nel ’98-2000 il passivo diventa 2500 md $, nel 2006 il passivo accumulato è di 4.700 md$ (quasi il 40% del Pil) e necessita di un’immensa ricchezza di cui disporre per essere compensato. Le attività finanziarie negli Usa se nel ’94 erano 1.200 md $, nel 2005 erano quintuplicate diventando 6.300 md $. Tale capitale era detenuto in parte da paesi stranieri: Giappone 1090 md $ (17%) , Cina 530 md $ (8,5%) , Sud-est asiatico 552 md $ (9%), UE 1216 md $ (19%) etc. Tale movimento di capitali va certamente a sostegno della quotazione del dollaro, ma aumenta anche il passivo della bilancia dei pagamenti. Per sostenere tale situazione, gli Usa sono costretti ad attirare sempre più capitali esteri, per cui sono costretti ad emettere nuove obbligazioni, e tramite la Fed ad aumentare i tassi d’interesse.
Cosi facendo, tuttavia, il vortice ascendente del passivo è costretto ad aumentare ulteriormente, per l’incremento del debito pubblico (pre-crisi pari a 8.600 md$, più di due terzi del Pil Usa di un anno ). La situazione diventa ancora più complessa se analizziamo la bilancia commerciale degli Usa rispetto a quella mondiale. Nel 2005 il commercio mondiale cresce del 7%, ma la situazione è diversa per i vari paesi (teniamo a evidenziare che il 75% sono prodotti industriali, macchine utensili, chimica, metallurgia …). La tendenza alla crescita del passivo della bilancia commerciale USA va ulteriormente ad aggravare la bilancia dei pagamenti. Infatti, se il capitale finanziario produce reddito finanziario e quindi Pil, produce altresì consumi improduttivi, ovvero consumi che non entrano nella sfera delle attività che producono merci ed allargano l’attività produttiva del Paese.
La tendenza della bilancia commerciale americana è un segnale che spiega dove vanno i redditi Usa: in attività finanziarie e consumi. Un dollaro forte, sostenuto dal capitale finanziario internazionale e dal ruolo di moneta internazionale è una condizione per una certa stabilità dell’economia americana. Il rischio di una fuga dalle attività del dollaro è una spauracchio che spaventa non solo l’economia Usa, ma l’intera comunità finanziaria e capitalistica internazionale. Attualmente gli scambi internazionali in dollari sono ancora dominanti ma molte sono le incognite che lasciano prevedere incertezze per il futuro.
Dove dovrebbe scoppiare allora la nuova crisi mondiale ? Resta aperto il problema non secondario di individuare nella pratica i Paesi che rivestano un’importanza sistemica. Ciò è importante, in quanto, nel passato alcune crisi finanziarie sono state innescate da economie di dimensioni relativamente modeste e, quindi, anche gli andamenti riguardanti queste ultime possono avere ripercussioni sistemiche. Gli squilibri globali, pertanto, non si possono limitare ai concetti di flusso, quali il saldo del conto corrente e del conto finanziario della bilancia dei pagamenti; essi riguardano anche concetti di stock come la posizione netta sull’estero anche peraltro in termini di composizione delle attività e delle passività sull’estero, di valuta, liquidità e rischiosità. Ne segue che anche su tale aspetto non è possibile indicare una soglia precisa, che può variare da un paese all’altro e nel tempo, al di sopra della quale si possa ritenere che i saldi di conto corrente costituiscano uno squilibrio.
Gli squilibri mondiali, inoltre, comportano rischi e riflettono distorsioni. I rischi sono certamente costituiti soprattutto da andamenti potenzialmente sfavorevoli dei mercati finanziari derivanti da uno shock inatteso e comprendono anche rischi ulteiore, come quello di un crescente protezionismo, che in questa fase contribuirebbe a mettere in pericolo economie votate all’esportazione (come ad esempio quella italiana e tedesca).
E quali sono le distorsioni a cui sono collegati?
Secondo le valutazioni degli Organismi internazionali (Banca Mondiale, FMI, ecc.), i flussi di capitale non sono interamente il risultato delle forze di libero mercato, ma sono da considerare vari fattori che incidono sui saldi finanziari internazionali, come: l’inadeguata flessibilità dei regimi di cambio (che si traduce in ampi interventi sui mercati dei cambi); la liberalizzazione incompleta dei mercati finanziari in diversi paesi emergenti (che sospinge il risparmio all’estero in cerca di attività finanziarie liquide e sicure); l’eccessiva regolamentazione dei mercati dei beni e servizi e del lavoro anche nelle economie avanzate. Ciò genera , secondo tali economisti, un allontanamento dalla situazione “ottimale” in termini di benessere economico globale.
Noi condividiamo solo in parte tali osservazioni, ritenendo ad esempio che una regolamentazione pur parziale della finanza e del mercato del lavoro sia sempre meglio che nessuna regola. E che anzi, proprio su tale terreno sia indispensabile lavorare sempre di più. Gli squilibri mondiali strutturali corrispondono a tendenze di lungo periodo che hanno una notevole inerzia, mentre quelli ciclici riguardano il più breve periodo e possono invertire il proprio effetto piuttosto rapidamente (in particolare, i fattori ciclici sono quelli che influenzano la distribuzione della domanda mondiale nel breve termine). Naturalmente, tale distinzione risulta utile soprattutto a fini analitici, poiché nella pratica questi due tipi di fattori agiscono talvolta in stretta connessione. Ad esempio, un determinato incremento del prezzo mondiale del petrolio può essere attribuito sia a fattori transitori (quali tensioni geopolitiche in alcuni paesi produttori) sia a fattori di più ampia portata di lungo periodo (quale un aumento strutturale della domanda delle economie emergenti). Tra i numerosi fattori ciclici che possono incidere sulle partite correnti, cinque, ossia i prezzi delle attività, il ciclo economico e, in particolare, le variazioni della domanda interna, del risparmio pubblico e dei corsi petroliferi, rivestono un’importanza fondamentale.
Negli Stati Uniti, ad esempio, l’ampliamento del disavanzo corrente della bilancia commerciale dai primi anni novanta ad oggi sembra essersi accompagnato ad una flessione del risparmio netto delle famiglie che non sembrerebbe essere spiegato dagli altri settori (le imprese e la pubblica amministrazione) che se possono avere certamente contribuito al calo complessivo del risparmio netto nazionale, non sembrerebbero spiegare interamente le ragioni all’origine della diminuzione di quello delle famiglie. In effetti, la relazione tra risparmio netto delle famiglie e saldo del conto corrente non caratterizza solo gli Stati Uniti ma anche diversi paesi dell’OCSE. Forse spiegano la riduzione del reddito delle famiglie i mutamenti dei prezzi delle abitazioni? Le variazioni dei valori immobiliari, in effetti, sono di fatto correlate negativamente a quelle dei saldi di conto corrente, in quanto un aumento del prezzo delle abitazioni può stimolare maggiori consumi e ridurre il risparmio. Nel caso specifico degli Stati Uniti, un calo dei prezzi delle abitazioni e dei corsi azionari potrebbe pertanto avere ripercussioni rilevanti sul disavanzo corrente del paese inducendo un aumento del risparmio netto nazionale. Più in generale, i prezzi delle attività (immobili, titoli, commodities, ecc) sembrano costituire una importante determinante del saldo del conto corrente. Da cui si deduce che una politica economica utile per l’Occidente sarebbe quella di programmare una politica abitativa capace di calmierare il prezzo delle abitazioni e la riorganizzazione del sistema finanziario che restituisca alla finanza il ruolo di ancella dello sviluppo economico … Ma non sembra che l’Occidente sia ancora pronto a questa grande e al tempo stesso elementare svolta!