25 aprile. Il giorno dopo. Dopo avere ascoltato ancora una volta

26 Aprile 2010

Domenico Cambareri

 

Non c’è, non ci sarà mai memoria condivisa nella festa delle fazioni e delle mattanze. Mai il 25 aprile

Aspettiamo sempre alla fermata del bus. Essa è quella del 2 giugno. Essa è quella, unica, che ci può condurre alla storia condivisa, dalla nascita della Repubblica al futuro delle giovani generazioni. Salvaguardando assolutamente la storia del Risorgimento da ogni compromissione, reinvenzione e mistificazione con pagine di molto posteriori e con ferite profonde ancora aperte

 

Rispettiamo e condividiamo quasi del tutto le parti dei discorsi del Capo dello Stato e del presidente del consiglio relative agli auspici di superamento delle difficoltà del presente della nostra Nazione. Anche quelle relative alla improcrastinabile esigenza di adeguamento della Costituzione. Non di meno, quelle sulla riaffermazione indiscutibile del principio di unità nazionale mai messo in causa neppure durante i sanguinosi e torbidi anni della guerra civile dai combattenti di tutte e due le parti. Così quelle sul ruolo e sulle prospettive che l’Unione Europea rappresenta per tutti e su quanto può e deve fare in essa il nostro Paese. Condividiamo il pathos di alta etica civile che li ha mossi. Non condividiamo il resto.
Continuiamo a rilevare come il 25 aprile sia stata e sia la ricorrenza di una sola parte, o almeno di quanti di quella parte vogliono ancora festeggiarla. Il fatto che coincide pure con la fine della guerra, diventa una cosa di secondaria importanza, visto che essa è stata sempre monopolizzata in funzione esclusivamente ciellenista. E’ perciò e sarà sempre la festa della fazione, delle fazioni. Nient’altro che la festa della fazione.
Il due giugno, in maniera evidentissima, lapalissiana per tutti, anche per i più ottusi, è il giorno in cui è proclamata la Costituzione repubblicana, Costituzione scritta dai “costituenti” espressione di tutti gli schieramenti parlamentari antifascisti. Questa data costituisce il momento d’inizio del nuovo patto di tutti gli italiani, per tutti gli italiani. Per quelli che si sentirono sempre dei vinti e per quelli che continuarono ad esultare come vincitori di un Paese sconfitto, in un Paese sconfitto, e della maggioranza degli italiani che rimase quasi ai margini dalla spiralizzazione della sanguinosa lotta interna.
Noi continueremo ad attendere in questa data la festa di tutti gli italiani. Noi aspetteremo calmi e sereni che finisca con il passare degli anni la retorica di una data che ma ci vedrà, mai ci potrà vedere partecipi. Il 25 aprile è solo data di rinnovata divisione.
Il 2 giugno è festa dell’Italia rinata. Il 25 aprile è il via alla spirale di eliminazioni e massacri d’inaudita ferocia, perpetrati anche contro tante vittime del tutto al di fuori della lotta dei due schieramenti; lotta finita e continuata dei tribunali del popolo partigiani a suon di scariche di mitra.
Il 25 aprile è una macchia perdurante per gli italiani parenti delle vittime di questi eccidi. Come potrà mai essere la “festa di tutti gli italiani?”
Il 25 aprile segna il là per la corsa dei voltagabbana, per coloro che passaro addirittura dall’una all’altra parte più di una volta, per i falsi partigiani e per tutto quanto il resto. Con quale pudore etico  i partigiani la festeggiano, se finora non hanno mai avuto il buon senso e l’amor proprio di essere i primi a chiedere l’effettiva conta di chi fosse stato veramente partigiano? Per timore della conta? Ma ciò è poca cosa di fronte all’esigenza di scrivere pagine di storia trasparenti. D’altronde, al di là dalla melensa e scadente retorica, storicamente è acquisito da anni che essi costituirono una marginalità assoluta della popolazione italiana. Al loro posto, con fierezza, avremmo incominciato a verificare da subito su chi lo fosse stato e su chi non lo fosse stato. Si dirà che… in fin dei conti, questo è affar loro. E’ vero. Ma lo è anche dell’indagine storica.
Non accettiamo l’ostinazione ciellenista che si è radicata nelle istituzioni nonostante che il Paese sia totalmente cambiato. Non accettiamo, soprattutto, che sia il Quirinale a cercare di riscrivere la storia del 1943-1945. Al Quirinale riteniamo che questo compito non tocchi, assolutamente non tocchi, che non sia mai toccato. Anzi, avrebbe dovuto ben guardare dal farcisi irretire. E così potentemente condizionare. Riteniamo che cura massima ed esclusiva dei Capi dello Stato sarebbe dovuta essere e dovrebbe essere quella di custodire gelosamente la ritrovata unità nazionale nata dopo il referendum e la proclamazione della Repubblica e la promulgazione della Costituzione. Non i mesi e gli anni immediatamente a ridosso, gli anni della cesura, della tragedia, dell’incolmabile odio delle parti in guerra. Non la lettura o addirittura la scrittura e riscrittura di quelle cronache e di quelle storie antecedenti al ruolo e agli altissimi scopi della funzione presidenziale. La ferita la si lascia così sempre aperta, e non si rende un buon servigio alla Nazione, alla Patria.
Massima insipienza civile e massimo scandalo storico è poi voler festeggiare il 25 aprile da Roma in giù. Soprattutto in Sicilia, cosa che non avrebbe mai dovuto fare i presidente del Senato, a Palermo, e a Napoli. Poiché non si può mettere a tacere totalmente la storia. L’Italia vinta, e l’Italia pseudo vincitrice (che poi non è altro che l’Italia sconfitta e in servaggio “cobelligerante”), l’Italia soprattutto rinata, ebbero, ebbe in dono dai vincitori “liberatori”, infatti, il ritorno della mafia come padrona di mezza Nazione.
Non possiamo neppure condividere che ciò sia il risultato, anche, del voler caricare di nuovi e positivi significati il 25 aprile, fine della guerra, visto che esso ridiventa comunque l’esclusiva solfa della “vittoria” dei partigiani contro il “nazifascismo”. Simili ricostruzioni, pur la massima disponibilità d’animo che si può disporre, rimangono nient’altro che ricostruzioni artificiose: artificiose, ricostruzioni artificiose. Che appartengono al poi e al fantastico, ma che risultano completamente avulse dalla realtà degli accadimenti. Non hanno fondamento storico e il fremito ideale che le nutre ne muore.
Ci rammarica, ci rattrista, ci addolora, ci offende tale ostinazione priva di buon senso, che viviamo come petulanza senza fine, come persistente prepotenza, come cieca arroganza. Non possiamo condividere come festa degli italiani la festa della fazione. Ne abbiamo tutti i diritti politici, morali e storici che presentiamo. A meno che non ci si voglia negare la libertà di pensare, valutare, decidere, scegliere.
Le nostre ragioni ci portano a dire che simile insensatezza è espressione di una cecità in termini di etica civile e di analisi storica. Non si può proclamare la vittoria se la Nazione è stata sconfitta, non si può proclamare la stupidità della “cobelligeranza” che ha fatto sorridere tutto il mondo, ad iniziare dai vincitori che ebbero così altro motivo di scherno contro i vinti. Non si può, soprattutto, raccattare la libertà da vincitori “liberatori”. Questi conti sono sospesi con la storia e con il futuro della coscienza collettiva.
Il 25 aprile rimane quello che è. L’insegna delle mattanze nascoste. E la festa dei vinti “vincitori”. Ritrita, bolsa, ideologia che oltre l’Alpe ovunque rimane vilipesa: “vincitori italiani”, cioè sconfitti e badogliani ( per i più giovani che ci leggono: sinonimo di traditori, per gli stessi americani…)
Il 2 giugno segna la data indicata e scelta dagli antifascisti come momento di rinascita nazionale. Noi aspettiamo tutti gli italiani dal Capo dello Stato fino all’ultimo degli italiani, in questa data. La data effettiva dell’inizio della ricostruzione nazionale. E’ essa unica per il significato, è essa l’unica che ci può unire, che ci unisce. Continuare ad imporci l’altra, la data dalla fazione, non può che portare alla disunione dell’etica civile. Per fortuna, siamo sicuri che la quasi totalità degli italiani si opporrebbe a misure repressive contro chi non festeggia il 25 aprile. E ricordiamo ancora le sopraffazioni subite dagli italiani a causa della giubilante e già corriva partitocrazia risorta, sulle spalle delle armate angloamericane e di …80.000 partigiani, con il grasso che cola, come affermò il buon Leo Valiani, integerrimo esponente della nomenclatura partigiana.
Non si scappa da questa alternativa.
Noi aspettiamo il 2 giugno, che – vergogna delle vergogne – in Parlamento dagli antifascisti da strapazzo per tanti lunghi anni è stato declassato e reso giornata non festiva. Vergogna inaudita.
Per noi, assieme alla data della fondazione di Roma,il 21 aprile, data simbolo irrinunciabile della nostra identità storica, il 2 giugno, festa della Repubblica proclamata dagli antifascisti, rimane la festa della Nazione pacificata e degli ideali di rinnovata unione. Con queste date, possiamo guardare e guardiamo serenamente al futuro del nostro popolo e dell’unione dei popoli europei di cui siamo convinti assertori. Agli ideali più alti e nobili, senza remore nell’abbracciare avversari e “antichi nemici”.
Ricordiamo ancora che con un Randolfo Pacciardi ed ex partigiani simili, è molto più quello che ci può unire che disunire. La scelta di Casa Savoia e dei gerarchi fascisti dell’ordine del giorno Grandi allora portò all’obbedienza autodistruttiva, al disastro collettivo e … al suicidio di un grande eroe: Carlo Fecia di Cossato. L’uomo che riscattò il disonore in cui era precipitato chi obbedì. Come dapprima lo dimostrò il generale che a Porta San Paolo – come non sanno gli scalmanati ultrà anarcoidi e il nuovo ometto dell’ora e sempre resistenza (contro Berlusconi: ma si può arrivare a tale viscerale auto-ironia?) –, il generale Gioacchino Solinas, difese Roma dall’occupazione germanica e poi, per l’onore della Patria, andò a combattere nella RSI?
Il 2 giugno, dunque, caro Presidente della Repubblica, il 2 giugno, nell’Italia che rinasceva, caro presidente del consiglio, non altre date. Mentre alto per noi rimane il grido di evviva per gli italiani che morirono per la Patria, senza distinzione di fronte, nel rispetto più pieno dei loro tormenti interiori e delle loro scelte, fatte per un popolo e non per una qualche vendetta o per un fazzoletto e una casacca di partito. Noi abbiamo culturalmente più vicini quelli che combatterono al Nord, ma nei nostri Campi Elisi gli uni e gli altri vi stanno egualmente accanto.
Siamo sicuri che le nostre idee e le nostre scelte sono quelle giuste. Agli altri, lasciamo quelle loro, soltanto loro: quelle del 25 aprile. Avranno sempre tempo per ricredersi. Ci troveranno allora in attesa alla fermata del due giugno.