Il pittore e scultore Benedetto Robazza nasce a Roma il 2 marzo dei 1934 alla Consolazione, un piccolo rione nel centro della città. Pochi anni di vita serena per il futuro artista, poi ecco la guerra, e con essa l’inizio di un dramma crudele, spietato. Durante un rastrellamento da parte dei soldati tedeschi, il padre dei giovanissimo Benedetto (un valente architetto) viene deportato in Germania. Un disperato tentativo di fuga alla frontiera costa però la vita all’uomo. E cosi, in breve tempo, la famiglia Robazza finisce per trovarsi sul lastrico. E la fame, la disperazione, la lotta per la sopravvivenza. Ed è Benedetto che pensa alla madre e al fratellino nato nel ’41. E ormai il capofamiglia, ed ha appena dieci anni. Passano mesi di stenti, di sofferenze inenarrabili, ed ecco che il destino si accanisce crudelmente sul giovane per la seconda volta: il fratello muore di meningite fulminante. Ormai solo, con la madre, una donna distrutta e incapace di reagire, Benedetto continua nella sua lotta. Accetta qualsiasi lavoro, anche il più faticoso. L’importante è portare a casa qualcosa che permetta di sopravvivere. Ma ecco un intervento delle Autorità pro-orfani di guerra e Benedetto Robazza viene dato in adozione ad una famiglia residente in provincia di Modena.
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Appena pochi mesi e il ragazzo fugge, ritorna dalla madre. Intanto le truppe alleate sono alle porte della capitale e il caos è totale. Ma anche in quel caos Benedetto riesce a sopravvivere, riesce in qualche modo a proteggere sua madre. Ormai è temprato a tutto, non ha paura di nulla. Giorno dopo giorno affronta pericoli d’ogni specie. Affronta anche la morte. Più volte. Ma l’enorme volontà, l’amore che ha dentro di sé, la Fede, vincono sempre. Entrano gli Americani in Roma ed è festa grande per tutti. 0 quasi tutti. Tra quelli che se ne stanno chiusi nel loro dramma c’è anche Benedetto Robazza. Undici anni appena, un passato agghiacciante, un futuro angoscioso. Per lui non c’è niente. né scuola, né amici, né giuochi. Niente di niente. Solo una quotidiana. disumana lotta per la vita. Le cose con gli Americani vanno un po’ meglio e si riesce a portare a casa di che vivere. ma la fatica è sempre tanta. Giorni e mesi durissimi. che temprano ancor più il ragazzo. E non solo nell’animo. ma anche nel corpo. Ha già il fisico e la forza di un uomo. Una forza che in più di una occasione gli permette di superare momenti drammatici. la città è ormai una giungla e in special modo la zona che Benedetto frequenta: Trastevere. E in quella giungla solo chi è forte può sopravvivere. Solo chi è forte. astuto, scaltro. spericolato. A contatto continuo con gente disperata. pronta a qualsiasi azione. il giovane di= a mantenere una sua integrità morale. E malgrado il destino avverso, egli è pieno di dolcezza. di umanità. Sempre pronto ad aiutare i più deboli sempre pronto a «dare». Nasce così in quegli anni un mito in Trastevere, e la gente gli dà un nome: Jhonny l’americano. Robazza è sempre tra gli Alleati, ne parla in qualche modo la lingua, lavora duramente, commercia e avolte sottrae viveri dai camion e dai magazzini per offrirli ad altri, a tutti coloro che non ce la fanno a tirare avanti. Pronto poi a pagare di persona quando le cose si mettono male. Passano 211 anni. Torna la normalità. Ma per Benedetto la vita è sempre lotta. Non ha un titolo d’l studio, cosa può sperare? Niente. La società lo respinge. Spietatamente. Sua madre intanto si è risposata e questo fatto ha turbato non poco l’animo sensibile del ragazzo. Ha sempre davanti agli occhi l’immagine del padre e questo gli impedisce di accettare un altro uomo al fianco della madre. Perciò decide di partire, di arruolarsi in Marina. Ha ormai 18 anni e tanto desiderio di viaggiare, di dimenticare. Comincia a sentire qualcosa dentro di sé. Qualcosa di indefinibile. Si sorprende a contemplare i tramonti e le albe a bordo della nave sulla quale è imbarcato. Il mare, poi, lo affascina in modo particolare. Qualche compagno però lo sfotte per queste sue contemplazioni. E lui per tutta risposta… picchia. E picchia sodo, perché non sopporta essere oggetto di scherno, non lo ha mai sopportato. Lui è leale, corretto con tutti, e desidera che gli altri non siano diversi. Qualcuno nota questa sua forza un po’ bruta. Un sottufficiale. E così il marinaio Robazza diventa pugile dilettante. E ai campionati italiani del 1955, a Bari, si impone. t tra i primi. Nel ’56 torna a casa. In una squallida stanza del suo rione, tra la sua gente, tra quelli che ancora lo chiamano Johnny l’Americano. Lo chiamano così anche i bambini, perché conoscono dai genitori le sue imprese. E con i bambini Benedetto si trova bene. Ci parla volentieri. Sente per loro un grande affetto, tanta tenerezza. E inizia a fare qualche ritratto. Ma così, appena abbozzato e subito distrutto perché non lo soddisfa. Intanto c’è di nuovo il problema della sopravvivenza. E c’è di nuovo tanta difficoltà di inserimento. Buona volontà non manca, ma tutto è inutile. Ed ecco spuntare i conoscenti di una volta, quelli che hanno lottato con lui durante la guerra e la liberazione. Lo convincono, si convince che mai nessuno lo aiuterà, che solo vivendo di espedienti è possibile mangiare. Però non si arrende. Si ribella e tenta in mille modi di trovare quella strada giusta per realizzarsi. Sta crescendo intanto in lui l’Artista. Ora lo sente prepotentemente. Ma sa che è una strada difficile quella. Una strada durissima. Incontra spesso pittori nelle osterie del rione. Anzi li cerca, perché vuole conoscerli, capirli. E cosa vede? Uomini distrutti o quasi, fantasmi alla ricerca di un qualsiasi cliente, che finisce poi per essere il bonario proprietario del locale. Sono incontri che lo sconcertano, che lo demoralizzano. Ma per poco però. Robazza vuole con tutte le sue forze esprimere in pittura e scultura ciò che ha dentro, e vuole che questo avvenga in breve tempo, e con un successo immediato. Si rifiuta di soffrire come gli altri artisti. Ha già tanto sofferto. Da sempre. Da una eternità. E allora decide di soffocare momentaneamente ciò che ha nel cuore e partire in cerca di fortuna, all’estero. In cerca di quella fortuna che poi gli avrebbe permesso di entrare nell’arte dalla «porta principale». Ma prima vuole prendere un titolo di studio, in corsi serali, e studiare gemmologia, per migliorare le sue conoscenze nel campo dei preziosi. Sono mesi di grande sacrificio, faticosissimi, ma coronati dal successo. E giunge finalmente il giorno della partenza per il Belgio. Una terra dove Robazza trova ben presto chi apprezza le sue qualità, ma soprattutto la sua grande volontà di imparare. Lavora senza sosta dalla mattina alla sera. Assimila minuto per minuto, frequenta persone di cultura e gente importante del mondo dei diamanti. La sua simpatia e il suo entusiasmo sono tali che gli facilitano un po’ tutto. E poi l’esperienza di una vita come quella da lui vissuta non può non dare frutti. La volontà di Robazza diviene sempre più grande. Diviene enorme. Qualche anno, qualche altro incontro giusto, un po’ di fortuna in affari, ma soprattutto l’intensa passione per quel lavoro, ed eccolo giungere alla vetta. Torna a Roma che è un altro uomo. Il denaro gli dà una sensazione che non ha mai provato. Si sente ancora più forte, più sicuro. Per prima _cosa si crea una famiglia. E in questa nuova dimensione sembra dimenticare il grande desiderio di dipingere, di scolpire. Ma non è così. Benedetto Robazza ha soltanto bisogno di un po’ di tempo ancora. Vuole scrutare a fondo il suo «io», vuole capire se è pronto per quella che lui chiama «la grande impresa». E frequenta artisti, industriali, uomini di cultura, giornalisti, critici d’arte. E contrariamente a coloro che una volta ottenuto il successo economico evitano tutto ciò che ricorda il passato, lui, Robazza, torna quasi ogni giorno nel suo rione, tra la sua gente, e aiuta tutti, perché tutti sono rimasti poveri, come quando li aveva lasciati. Ed è in mezzo ad essi che comincia a trovare lo sprone per l’inizio della sua «vera» attività. Ma prima vuole scrivere qualcosa: la storia di uno dei tanti personaggi che sono li, attorno a lui, e che lo guardano commossi e fieri. E scrive un soggetto, che poi sviluppa in sceneggiatura con la collaborazione di uno scrittore professionista. Per qualche attimo anche in Robazza nasce il desiderìo del cinema, il desiderio dì realizzare quel copione in modo che tutti possano vedere e capire almeno una pìccola parte del suo animo, del suo mondo. Il cinema, un desiderio forte, ma subito soffocato. E soffocata viene l’attività di gioielliere, perché è tempo ormai di dare inizio alla pittura, alla scultura. t tempo di dare libero sfogo a tutto quello che da anni porta in sé. In breve, crea opere, inizia a fare mostre. E ottiene i primi successi di critica e di pubblico. Successi sempre maggiori. E viene definito dai critici «pittore dell’amore», «scultore del dolore». La sua tenacia è ferrea, la sua volontà incredibile. Ed è inarrestabile nella sua creatività. Dedica tutto se stesso al lavoro, senza preoccuparsi d’altro. E se qualche amico accenna alla violenza che sta sconvolgendo l’Italia, lui non sembra ascoltare. Poi, un giorno, è costretto anch’egli, come tutti, a prendere coscienza della drammaticità del momento. 1 giornali non parlano che di odio politico nei giovani. Di uccisioni. Di morte. Per Robazza sono giorni di profonda riflessione, perché si affaccia con prepotenza il problema dei figli, del loro futuro. Credeva di aver risolto ogni cosa offrendo ad essi una sicurezza economica, ma ora sa che il danaro serve a ben poco in una società in continuo sfacelo, dilaniata dall’odio. Sente perciò impellente il desiderio di fare qualcosa contro quell’odio, sente che non può assistere passivamente a quella violenza dilagante. Pone così nelle sue opere un ancor più profondo significato d’amore. E questo il suo messaggio. Un messaggio ben presto recepìto. Cominciano ad interessarsi all’Artìsta grossi personaggi dei mondo dell’arte, galleristi famosi, reporters internazionali. Un’ascesa continua. Vertiginosa. Robazza che vince il concorso per il busto al calciatore Luciano Re Cecconi, morto tragicamente a Roma in modo assurdo, violento. Ed è a Robazza che poi viene affidata la realizzazione del simbolo della, non violenza «Amore e solidarietà», Opera che lo scultore consegnerà nel ’79 al Presidente Sandro Pertini e nell”80 a Giovanni Paolo II Dell’Artista è anche il bassorilievo in bronzo dedicato ad Aldo Moro e agli uomini della scorta. E suo è l’altorilievo a ricordo del sacrificio degli agenti Mea e Ollanu, uccisi in piazza Nicosia, all’esterno della sede del Comitato Romano della Democrazia Cristiana. La fama dello scultore Robazza cresce sempre più. Nascono altre importanti opere: un Cristo per la Cattedrale di Altamura, Papa Woityla, Alcide De Gasperi e il Cancelliere tedesco Franz Josef Strauss. Ormai è alla scultura che l’Artista si dedica, e sempre con quell’amore che è alla base della sua vita. Poi, ecco che gli viene affidata un’opera mai realizzata: l’Apocalisse. Un’impresa affascinante che però lo costringe per giorni e notti ad un’ansia profonda, perché difficile è quell’opera. Ma pian piano nasce anche questo grandioso altorilievo. E per dargli vita, lo scultore «rivive» gli anni del suo passato, della sua infanzia. Agghiaccianti giorni lontani ma così presenti nella sua mente da infondergli l’ispirazione per quell’opera tanto impegnativa. Un’impresa che Robazza affronta e vince con la stessa tenacia di quando ragazzo lottava per la vita. Ed è nell’Apocalisse, in quest’opera sofferta in modo così viscerale che «l’uomo» scopre risposte a tanti suoi interrogativi. E lo studio continuo della Bibbia gli fa comprendere il significato del «perché» della vita, del «perché» della morte. Cresce in lui intanto l’entusiasmo per quel lavoro. Vi si applica con una volontà incredibile, con un amore smisurato. Vedere Robazza creare le sue opere è un’esperienza che esalta, che fa riflettere. Il contributo che l’Artista dà alla lotta contro la violenza è enorme. Per una sua ennesima opera viene insignito della medaglia d’oro ad honorem dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri. Un riconoscimento che premia la volontà, la tenacia, il coraggio di un uomo, che è stato anch’egli ragazzo. che ha vissuto anch’egli la sua giovinezza, ma sempre lottando disperatamente, accanitamente e senza mai lasciarsi travolgere dall’odio, da quel sentimento che tutto distrugge. che tutto annienta. Ecco, è forse questo il messaggio più profondo di Robazza. di un Artista in continua ascesa. Suo è il monumento in bronzo del piccolo Alfredino Rampi, perito tragicamente nel pozzo di Vermicino. Suoi i bronzi della Regina Sirikit di Thailandia e del Re Bhumibol. E il monumento Madonna della Pace, in viale Mazzini a Roma, opera dedicata alle vittime del terrorismo, civili e militari. Dello scultore è anche il bronzo del Giudice Tartaglione, e le opere a ricordo del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Inoltre il monumento nel Sacrario di Bari ai caduti d’oltremare. Nasce intanto l’anno 1983, e con esso crescono i fatti cruenti, in ogni parte del mondo. Un’assurda sete di odio spinge i popoli l’uno contro l’altro in un irrefrenabile desiderio di distruzione, di morte. L’Apocalisse è forse alle porte? La fine dell’umanità è imminente? Sono questi gli interrogativi che ognuno si pone. Anche Benedetto Robazza. Ma solo per un attimo, perché c’è un nuovo «lavoro» da realizzare. Ed è l’Associazione «Amici di Reagan» a vedere in lui l’Artista capace di creare qualcosa che possa essere di monito agli uomini che hanno nelle loro mani il destino del mondo. E nasce così un bronzo del Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, il cui busto, poggiato su una colonna anch’essa in bronzo e raffigurante l’Apocalisse, è a forma di scudo, uno scudo a protezione del cataclisma che minaccioso si profila all’orizzonte. Quest’opera è stata consegnata alla Casa Bianca e collocata nella Sala Roosevelt, dove nel 1906 il Presidente Teodoro Roosevelt ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Ed è stato lo scultore in persona a consegnare questa sua ennesima «creazione», fiducioso che essa possa contribuire al discorso d’amore che gli uomini debbono assolutamente iniziare se vogliono sopravvivere.
BENEDETTO ROBAZZA
nato a Roma dove attualmente vive e lavora (soprattutto come scultore) intrattenendo rapporti e ottenendo committenze da tutto il mondo; basti pensare che una delle sue ultime opere è il busto di Reagan poggiato su una colonna raffigurante l’Apocalisse collocata nella sala Roosevelt della Casa Bianca. Robazza approda all’arte quando, già maturo, ha compiuto intense esperienze di vita e di lavoro che costituiscono l’humus della sua espressività. Il suo percorso nel mondo dell’arte è veloce, ricco di conferme e successi sempre maggiori. Viene definito dalla migliore critica «pittore dell’amore», «scultore del dolore».
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Realizza una serie di opere di grande prestigio con una inesauribile creatività (preferendo sempre più la scultura): a titolo di esempio ricordiamo: un Cristo per la Cattedrale di Altamura, un busto di Papa Woityla, uno di Alcide De Gasperi, uno del Cancelliere tedesco Strauss e ancora il monumento Madonna della Pace, in Viale Mazzini a Roma, opera dedicata alle vittime del terrorismo civili e militari. L’espressione popolare che, nel gergo e nella tradizione, caratterizza il mito, si rivela, in un certo senso, nella figura di Benedetto Robazza, nella sua arte semplice, nata come espressione di borgata e valorizzata nella generosità di cui la gente di quartiere è ricca: con una ingenuità che è il riscontro delle necessità quotidiane. Robazza, pittore e scultore insieme, rivive in questa gente la propria persuadente realtà: semplice negli entusiasmi che esalta; precisa e crudele nella realtà accertata; disponibilmente dolce nelle caratteristiche popolari, nella cui semplicità si realizzano le cose grandi. Robazza vive serenamente il suo lavoro nella creatività romana, autenticamente trasteverina, e esprime proprio in questa romanità il suo amore immenso verso l’autenticità classica dell’Urbe. Non trascurando quanto la civiltà ha celebrato attraverso la monumentalità delle opere, di cui la sua devozione ritrae, con sapienza di intuizione e con preziosità di mezzi, le caratteristiche più salienti. In questo senso si inquadrano i suoi bassorilievi, aggraziati da una tecnica accattivante e da una incisività professionale, delle più belle piazze di Roma: da piazza Navona a Fontana di Trevi, attraverso un itinerario artistico di rilievo osannato da noi quanto all’estero e in cui l’artista miete le più riconosciute soddisfazioni. E tanto è il fascino di queste composizioni, da riscoprirne l’anima: presente nell’autentica, generosa semplicità romana, sempre disponibile alle avversità quanto al bello. assertoria. nel suo esuberante entusiasmo. delle espressioni più popolari e convincenti. Questo si traduce in un’espressione non puramente oleografica di per sé già Importante. ma In quel qualcosa in più che fa. della gente di Roma. la gente dei mondo. Una suggestività tratta dall’esperienza visiva del vissuto. sia da un punto di vista storico che poetico. che rivaluta. in un acclamato concerto di popolo. l’armonia delle impressioni e delle capacità con cui il pittore immortala il reale. Con i suoi numerosi basorilievi, eseguiti con materiali, incluse le piaccature in oro. Robazza si addentra nel religioso riproponendo, con uguale impegno e umiltà, le sacre rappresentazioni. Ne è testimone esemplare una Sindone, ritratta nel dolore dell’umano, in cui traspare la serafica religiosità dell’artista, la sua totale disponibilità al divino. Riproposte in tutte le sculture sacre, effigiate nei marmi e nei bronzi, da lui dedicate alla maestosità della Resurrezione, alla Madonna della pace, alla santità del Pontefice, tanto per circoscrivere l’elenco a opere conosciutissime, esposte non solo in Italia, ma in tutto il mondo. E conclude questa ricerca con un’opera recente, cui ha dedicato studio approfondito nel senso soprattutto dell’interpretazione biblica, in cui soffertamente esprime, secondo la propria generosa sensibilità, un messaggio in cui prevalgono, sulla violenza, la redenzione e l’amore. Sono sculture queste, interpretate nel congeniale neorealismo, realizzate prevalentemente in marmo o in bronzo, tutte di notevoli dimensioni, presenti in Italia come all’estero proprio per la loro capacità di interpretare il quotidiano. Concepite in quel messaggio d’amore nato dalla violenza, in quella ricerca aperta dalle periferie al centro, dalle ombre alla luce. E cronologicamente ravvisano gli eventi nelle avversità o nelle gioiose conquiste, perfezionando, in quell’interiorità espressa dall’inciso docente, l’arte di commuovere e di comunicare. Derivano da questa esigenza il monumento a Re Cecconi prima, l’attuale Martin Luther King, l’altorilievo di Piazza Nicosia sulla violenza, il Cristo per la Cattedrale di Altamura, il Papa Wojtyla, l’Alcide De Gasperi, il busto del Cancelliere tedesco Franz Josef Strauss e del presidente Reagan. E ancora le opere a ricordo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dell’onorevole Aldo Moro o dei caduti d’oltremare nel sacrario di Bari. Il tutto segnalato a titolo di individualità nella vastità della documentazione, per giustificare l’eclettica creatività dell’artista, il tanto suo lavoro, la sua infinita volontà di realizzazione in quell’arte che oggi l’America ci contende e che per noi rappresenta una presenza vitale e significante. L’excursus creativo di Benedetto Robazza, valorizzato da quel successo che oggi lo riconosce maestro, si giustifica e convalida ampiamente se riportato alle origini: allorquando, dolorosamente, l’artista perdeva in poco tempo il padre e un fratello e una giovane responsabilità lo investiva dei bisogni familiari. Oppure quando in Trastevere lo chiamavano «Johnny l’Americano», per quei servigi dettati dal bisogno di sopravvivenza. 0 quando, infine, nelle borgate, nelle viuzze caratteristiche, ostentanti il decoro della povertà, al di sopra delle necessità cercava quello spiraglio di libertà che il suo istinto intuiva nell’arte. Un’arte convalidata nel tempo dal sacrificio del suo lavoro e da quella ricerca generosa che oggi traduce il suo messaggio d’amore.
FERDINANDO ANSELMETTI |
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