Roma, progetto Millennium, piano strategico di sviluppo e miserie dell’architettura

8 Maggio 2010

Mino Mini

 

La sfilata delle archistars. Una sfilata di architetti e urbanisti tacchini convinti di avere addosso le piume dei pavoni esibisce solo i propri progetti per adescare nuovi clienti nel mercato internazionale che gli gira attorno. Ma per Roma quali proproste concrete?

ASSENZA DI PROPOSTE PER ROMA E GENIALITA’ SPENTE…. FLOP…!

 

L’avanzata del deserto della modernità ogni tanto mostra segni di rallentamento. Si coglie il fenomeno quando la cultura contemporanea, posta davanti ad interrogativi che investono la totalità del vivere civile, deve mettere a fuoco una imago mundi, ovvero una propria concezione dell’esistenza, da rendere concreta in termini di case, strade, edifici speciali, spazi urbani sacri e profani etc. Capita quasi mai che una amministrazione comunale chiami a convegno i propri cittadini per interrogare la cultura ufficiale su questi temi, per cui, quando ciò accade, l’evento perde la dimensione circoscritta al luogo dove si manifesta per interessare tutta la koiné culturale che soffre la deviazione moderna dell’abitare.
Questa volta è accaduto a Roma.
Ricordiamo gli antecedenti: la legge su Roma Capitale, di cui ci occupammo su queste pagine nel mese di aprile 2009, con il trasferimento delle proprietà demaniali al patrimonio del comune di Roma, ha messo a disposizione di quest’ultimo mezzi e poteri per incidere significativamente sulla forma della città. Forti di questa disponibilità e con l’obiettivo di puntare ad ospitare le olimpiadi del 2020, Alemanno e la sua Amministrazione stanno giocando le loro fortune su un Piano Strategico di Sviluppo di cui vorrebbero dotare la città. Sembra si sia finalmente compreso che un tale obiettivo non può essere perseguito in assenza di un’ampia partecipazione dei cittadini ed a tale fine è stato varato il Progetto Millennium con l’intento di instaurare “una consultazione aperta ad ogni cittadino, attraverso assemblee popolari e forum sulla Rete”. Un aspetto di particolare importanza di questo progetto è la Conferenza urbanistica della città che, al momento, è stata preceduta da un workshop attraverso cui si è voluto “mettere a confronto il punto di vista di alcuni dei più importanti architetti, urbanisti e sociologi dello scenario internazionale”.
Cosa sia un workshop non chiedetelo a me. Sto riportando frasi maiuscole e termini adottati dall’organizzazione capitolina. Prendo il dizionario che mi dice essere workshop traducibile in officina, bottega, corso di specializzazione (basato su metodi pratici). Presumo che l’ultima definizione si riferisca all’evento in questione, ma in tal caso devo altresì presumere che “i più importanti architetti … etc.” siano da intendere come docenti di questo corso. E qui casca l’asino, come vedremo. Dato l’argomento del confronto e la “caratura” internazionale dei convenuti al workshop, l’evento – come ho detto in apertura – supera i confini della situazione romana per proiettarsi nel più vasto panorama urbanistico interessato al problema delle periferie. E’ ormai coscienza diffusa – la koiné di cui si è detto – che la nuova frontiera della civiltà occidentale attraversi il territorio della periferia delle città e quindi ogni confronto su questo tema che raccolga le posizioni dei “più importanti architetti … etc.” rivesta un interesse primario.
Stiamo scrivendo del workshop internazionale dal titolo Nuovi modelli di trasformazione urbana” che, adottando il metodo del Newurbanism del coinvolgimento dei cittadini, si è tenuto in Roma nei giorni 6-7 aprile all’Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi- con la partecipazione di Richard Burdett direttore della X mostra internazionale di architettura, Santiago Calatrava, Peter Calthorpe, Stefano Cordeschi, Roberto D’Agostino – da non confondersi con Dagospia – Bruno Dolcetta, Massimiliano Fuksas, Leon Krier, Richard Meier, Paolo Portoghesi, Matteo Colleoni, Franco Karrer, Franco Martinelli, Renzo Piano.
A parte la costante presenza del sindaco Alemanno per tutta la durata dei lavori e quella parziale degli assessori Marco Corsini e Fabrizio Ghera, con le loro relazioni, la parte più significativa degli interventi dell’Amministrazione è stata quella svolta da Enrico Stravato – direttore del dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica – e, soprattutto, da Francesco Coccia – direttore del dipartimento Politiche per la Riqualificazione delle periferie.
L’evento ha avuto un successo enorme sul piano della partecipazione del pubblico: la sala Petrassi, dall’acustica alquanto insufficiente, era strapiena e nell’atrio da basso un numero quasi uguale di persone seguiva i lavori davanti agli schermi televisivi. Segno più che evidente dell’interesse della cittadinanza per il tema della città e della bontà dell’iniziativa.
Nella intenzione degli organizzatori il confronto tra “alcuni dei più importanti architetti, urbanisti e sociologi dello scenario internazionale” sembrava ben dosato: da una parte i “decon” – Calatrava, Meier, Fuksas, Piano – dall’altra i “tradizionalisti” –Krier e Calthorpe assertori del Newurbanism – in mezzo l’ambiguo Portoghesi. Tutt’intorno gli altri: tecnici, docenti e presidi di facoltà di architettura, sociologi etc. Sennonché, a fronte dell’esposizione di Stravato e Coccia che ponevano il duplice problema di come intervenire nella città storica vista la disponibilità di aree dismesse che Roma si sarebbe ritrovata per effetto della legge su Roma Capitale e come intervenire sulle periferie per passare dall’espansione alla ricostruzione dell’identità –temi di importanza universale – “ i più importanti architetti e urbanisti dello scenario internazionale” hanno fatto …flop!
Coccia, addirittura, aveva proposto molto seriamente ed opportunamente i temi per la successiva discussione, ma si è trovato di fronte al vuoto di risposte quasi totale. Gli intervenuti architetti e urbanisti, con l’unica eccezione di Leon Krier, Peter Calthorpe e Paolo Portoghesi, hanno pensato di riempire tale vuoto facendo sfilare in passerella i loro progetti, che poco avevano a che vedere con i temi in discussione, opponendo alla richiesta di nuovi modelli di trasformazione urbana per risolvere il problema delle periferie, l’espressione del loro “genio”.
E’ stato, questo, il lato miserevole di un evento che si proponeva ben altri risultati. La considerazione che se ne può trarre è che il “genio” di cui costoro si ritengono dotati non sia la capacità di sintesi dei fenomeni reali espressa in termini di città, quartieri, edilizia, ma consista soprattutto nell’arte di sapersi vendere. In questo, va detto, sono geniali approfittando dell’estensione internazionale del mercato di committenti pubblici che nella loro ignoranza assistono, irretiti, a queste sfilate di tacchini credendo di vedere loro addosso il piumaggio dei pavoni.
Ma torniamo al workshop dove abbiamo rilevato la diversa posizione di quei tre architetti che in qualche modo hanno cercato di affrontare i temi posti sul tavolo della discussione. Purtroppo nemmeno questi corifei del newurbanism sono stati in grado di dare risposte convincenti. Stando a chi scrive, per difetto di scala o, se si preferisce, per limite di visione del loro metodo che non consente di affrontare un problema complesso quale quello in discussione. Non si può affrontare, ad esempio, il tema della periferia di una città come Roma, con metodi atti ad operare solo nell’ambito ristretto di un quartiere di espansione. Per quanto brillanti siano sul piano concettuale tali metodi. Il concetto del Transit Oriental Development di Peter Calthorp, ad esempio, ancorchè affascinante, è applicabile in astratto per nuovi insediamenti, ma non sembra possa farsi valere in una realtà preesistente né è applicabile, come pretende, comunque e dovunque. Lo stesso dicasi per un’esperienza notevole come quella di Novoli esperita da Leon Krier. Non sembra applicabile alla dimensione di complessità della realtà romana nonostante la validità più universale dei concetti che lo stesso architetto adotta nella formulazione che ne ha dato nella sua Carta per la ricostruzione della città europea quali: il rifiuto dello zoning e dei disastri che ne sono derivati – appunto le periferie – ed il concetto di quartiere come città dentro la città.
Non ci si può fermare qui. Occorre avere chiaro il concetto che una città è certamente formata di quartieri, ma la identità espressiva della sua essenza non è data dalla semplice sommatoria degli stessi. E’ una realtà molto più complessa: la città è un sistema di sistemi con caratteristiche proprie che i singoli quartieri-città non posseggono. La sua identità deriva dal MODO che essa ha di far sistema. Tale modo è ciò che individua una città e la distingue dalle altre. Questo, infatti, è il problema cardine posto dalla relazione di Francesco Coccia: quale identità dare ad un insieme eterogeneo di tipi edilizi e di conseguenza di tessuti urbani che costituiscono il fenomeno periferia romana; come integrarlo con il centro, quello che l’immaginario collettivo identifica con Roma. E’ qui che le archistars decon hanno fatto flop. La loro risposta indiretta è stata unanimemente la seguente: non esiste (né esisterà) altra identità che quella espressa dal “genio” delle archistars che nelle periferie opereranno. Traduzione: la massa dei borderers (gli emarginati) che oggi abitano le periferie, avranno l’identità che l’archistar di turno conferirà loro in virtù del suo genio. L’ideologia degli “ingegneri dell’anima” di staliniana memoria, come si vede, ancora imperversa.
Ad avviso di chi scrive, invece, occorre inventare. Non nel senso di creare ab nihilo per atto “geniale”, ma nel senso etimologico vero, intensivo di “invenire” ovvero trovare qualcosa che c’è ma non si da all’apparenza. Inventare nel senso di “portare alla luce”. Per trovare occorre cercare, indagare, nel processo di formazione del fenomeno come si presenta a Roma per correggerne le deviazioni e reimmetterlo in orbita. E’ questo un principio metodologico valido universalmente. Non esiste una formula applicabile buona per tutte le città, ma un metodo universalmente applicabile che ricerca, nel modo secondo il quale si è formato il fenomeno urbano, l’identità specifica dello stesso. Perché, giova ribadirlo, ogni fenomeno insediativo che abbia un’identità è legato al luogo; diversamente non ha identità.
E ciò ci riporta al tema proprio del workshop o come diamine si chiami. Se è vero, come è vero, che la periferia romana esterna all’anello ferroviario ospita l’80% della popolazione cittadina su una superficie pari al 95% del territorio comunale, significa che ci troviamo in presenza di un agglomerato informe che ha un solo carattere riconoscibile: l’essere polarizzato sul centro storico.
Ebbene, per dare forma e quindi identità a questo agglomerato, occorre “portare alla luce” il possibile sistema urbano di scala superiore che abbia capacità di sintetizzare i molteplici aspetti del fenomeno periferia in un unico organismo.
Qui si impone, per rispetto di chi ci legge, chiarire ogni tanto qualcuno dei molti concetti che sorreggono o dovrebbero sorreggere la disciplina urbanistica. Ad esempio il concetto di organismo. Significa gradualità di rapporti che intercorrono fra i diversi aspetti o parti che lo costituiscono. Nel nostro caso significa individuare, nel sistema formato dal centro e dalla periferia quelle parti di quest’ultima che abbiano, in potenza, caratteri di polarità tali da potersi interrelate fra loro.
Ma che significa polarità?
Consultiamo il Devoto-Oli che la definisce “proprietà di un ente o di un corpo legata rispettivamente ad una posizione di antitesi o di simmetria rispetto ad un altro ente” Tradotto significa che per esistere un polo (ad es. il centro storico) in antitesi deve esservi un antipolo (ad es. un quartiere periferico). Quest’ultimo, a sua volta, può essere ovviamente polo rispetto ad altri enti.
Può sembrare un discorso astratto e per gli aspetti logici lo è certamente, ma vediamo, data l’importanza che riveste il problema delle periferie, se riusciamo a farci capire. Individuiamo, in linea teorica, una parte della periferia romana che sia caratterizzata da una tipologia insediativa più o meno diffusa con, in potenza, una diversificazione di funzioni (il cosiddetto mix funzionale comprendente soprattutto uffici e strutture commerciali accanto alla residenza), di un “peso” demografico pari ad una cittadina di provincia tale da giustificare l’impianto di servizi, infrastrutture particolari, strutture di tipo culturale, ludico e/o altro. Il problema che si porrà sarà il seguente: stabilire un rapporto di antipolarità diretta con il polo rappresentato dal centro storico e per estensione dalla città interna all’anello ferroviario. Ciò vuol dire individuare, all’interno della parte di periferia in questione, un polo interno che funga da antipolo. Estendiamo il metodo a tutta la periferia sapendo che gli antipoli individuati o individuabili stabiliscono, a loro volta, un reciproco rapporto di polarità e antipolarità tra loro. Avremo allora una rete di poli e antipoli ovvero un sistema di polarità graduate gerarchicamente che definiscono un organismo urbano multipolare. Nulla a che vedere con il policentrismo del piano regolatore che Coccia ha definito, opportunamente, un “sistema non gerarchizzato di centralità urbane.” Peraltro equivoco come concetto in quanto il policentrismo, cioè un luogo con più centri, è una pura astrazione geometrica che definisce matematicamente uno spazio, ma non l’insieme delle relazioni che identifica la città. Una volta individuato l’organismo multipolare sarà possibile, allora, attuare una politica che infrastrutturi, se necessario, le diverse polarità in senso urbano ovvero alla scala del quartiere o ambito polare.
Da tutto ciò ne consegue la necessità di elaborare il disegno della forma della città che, nel nostro caso, è data – appunto – dal modo secondo il quale poli ed antipoli si pongono in relazione tra loro. Il disegno della forma sarà, allora, l’immagine razionale ed espressiva di questo relazionarsi che consentirà le verifiche preventive ed il controllo della validità del nuovo sistema urbano. Quel disegno che la cultura urbanistica attuale non è in grado di immaginare se non, nei casi migliori, alla scala del quartiere di 35 ettari di superficie e di 15.000 abitanti (L. Krier)
Il flop degli architetti e urbanisti dello scenario internazionale convenuti a Roma per discutere sui “Nuovi modelli di trasformazione urbana, assomiglia allo scoppio della bolla finanziaria che è all’origine della crisi economica ancora in corso o, se si preferisce un’immagine più icastica, assomiglia alla rana che per vincere il bue in grandezza tanto si gonfiò che …flop! Si pone allora il quesito: i committenti pubblici avranno finalmente compreso la inconsistenza degli interlocutori che si sono scelti e la fallacità metodologica di ricercare a livello internazionale modelli di trasformazione urbana inapplicabili in una realtà consolidata da una cultura dell’abitare, del fare città, del creare spazi urbani, fortemente identitaria? Oppure, come in economia, si prodigheranno per salvare i responsabili del flop?