Immigrazione, luci e ombre

9 Giugno 2010

Enea Franza

L’eterno conflitto tra capitale e lavoro: qualche considerazione sull’immigrazione

 

Un fantasma si aggira in ogni discussione sulla crisi ed è quello della disoccupa-zione. Le statistiche dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), a partire dal 2007, la rilevano in costante crescita in tutti i paesi dell’Occidente. Ma atteso che gli anni che precedono la crisi sono stati tempi in cui il costo del lavoro si è tenuto sostanzialmente basso, in linea se non addirittura inferiore agli aumenti di produttività, c’è un sospetto che circola a cui però non sento dare voce nei tanti dibattiti sulla crisi di questi anni.
Vengo al punto: non sarà forse che ci sono troppi uomini e donne per la produzione? Mi spiego meglio, perché so che gli argomenti che cercherò di affrontare sono su un terreno minato, per le implicazioni che ne conseguono e che hanno molto poco di economico e tanto di politico. Infatti, quello che si vuole discutere è da un lato la contrapposizione tra capitale e lavoro e dall’altro l’impatto che l’aumento della popolazione ha avuto sul fragile equilibrio delle economie Occidentali.
In particolare, circa l’aumento della popolazione c’è da evidenziare che negli ultimi 20 anni le varie crisi regionali e la ben più grave crisi del blocco sovietico, ha scaricato sulle spalle di Germania, Francia ed Italia (solo per limitarsi ai Paesi che conosciamo meglio), migliaia di disperati che si sono aggiunti ai tanti migranti di altre poverissime realtà del nostro pianeta. La prima considerazione da fare, pertanto, è sulla consistenza e il breve spazio di tempo in cui si è attuato il flusso migratorio.
I dati ufficiali, basati sulle elaborazioni di EUROSTAT , accertano che L’Europa è il paese dove si trova un terzo degli immigrati del mondo, divisi tra Europa centro orientale (29 milioni circa), Unione Europea (27 milioni) ed Europa occidentale (2 milioni e mezzo). In queste stime, però, non si considera il fatto che molti cittadini stranieri hanno ottenuto la cittadinanza e, ad esempio, nell’Unione Europea il numero d’immigrati scende a circa 20 milioni. L’Unione Europea, dove sono Germania, Francia, Regno Unito e Italia ad ospitare il maggior numero di stranieri, è al secondo posto dopo l’America del Nord, che rimane il Paese di emigrazione per eccellenza . Stando alle stime, nella UE ai 20 milioni di immigrati, occorrerebbe aggiungere i clandestini, che ammonterebbero ad almeno 8 milioni.
Di fronte a tale enorme flusso migratorio, è normale chiedersi quale sia stato l’impatto nelle economie di approdo dell’aumento esponenziale della forza lavoro. Va premesso, che una situazione di forte disoccupazione nel mercato del lavoro sussisteva già agli inizi degli anni ‘90. Dagli anni ‘90 in poi, tuttavia, i rinnovi nei contratti di lavoro che si sono susseguiti non hanno generalmente permesso recuperi in termini di effettivo potere di acquisto e neanche in termini di produttività: in media i salari reali, cioè, non sono cresciuti. Il costo del lavoro si è mantenuto basso per la presenza di nuovi lavoratori sottopagati ? Ed in effetti, a parità di offerta di lavoro, se aumentano le richieste di lavoro il salario non può che diminuire .
Sarebbe, allora, più che lecito supporre che, atteso che dagli anni ‘90 è esploso il fenomeno dell’immigrazione, la maggior domanda di lavoro abbia inciso come calmiere sui salari. Ma vediamo se i c.d. effetti secondari della riduzione di salario sul sistema economico, possono controbilanciarne l’effetto negativo. Ed infatti, a salari più bassi in alcuni settori si associano minori costi di produzione e, quindi, prezzi inferiori e maggiore produzione. I minori prezzi andrebbero a beneficio del pubblico dei consumatori, i quali disporrebbero di maggiore potere di acquisto da indirizzare verso altri prodotti che in precedenza non avrebbero potuto acquistare. Questo provocherebbe un aumento nella domanda di lavoratori in quei settori dell’economia verso i quali si è indirizzata la domanda aggiuntiva dei consumatori; per attirare manodopera supplementare in questi settori, le imprese saranno disposte ad offrire ai potenziali lavoratori salari più elevati. Risultato complessivo: più potere di acquisto per i consumatori, maggiore richiesta di lavoratori ed in molti settori, maggiori salari.
Tutto bene? Purtroppo a noi sembra che la realtà sia diversa. Vediamo le cose con ordine, per capire meglio dove le cose non vanno! In primo luogo, si sostiene che il mercato del lavoro è un mercato fortemente segmentato e che, pertanto, il profilo del disoccupato comunitario (italiano, francese o tedesco che sia) è, per qualificazione ed aspettative, normalmente diverso da quello dell’immigrato. Ne segue che è raro il verificarsi di una concreta concorrenza tra le due tipologie di lavoratore, e che quindi nella sostanza gli immigrati insistono sui soli lavori a margine o, addirittura su nuovi lavori (esempio lavavetri, distributori di giornali, ecc). Ma i presupposti sono a nostro parere quantomeno inesatti. A smentire tale prima argomentazione c’è, infatti, un dato incontrovertibile: non tutta l’immigrazione è costituita da manodopera despecializzata, anzi abbondano i laureati con una buona preparazione di base, soprattutto, nelle discipline tecnico-scientifiche (ingegneri, geologi, chimici, ecc). Ma ammesso pure che gli immigrati ad alta qualificazione siano pochi e che sia, invece, sovrabbondante la presenza di nuovi lavoratori non specializzati, deve far riflettere la condizione di sudditanza oggettiva con cui gli immigrati offrono il loro lavoro. Essi si trovano, nei fatti, di fronte ad offerte di lavoro a condizioni normalmente migliori di quelle in vigore nei Paesi di emigrazione, e generalmente non sono in gradi di valutare il complesso dei diritti che gli sono attribuiti. Conseguenza: i lavoratori comunitari si allontanano da quel mercato che viene assorbito dai lavoratori immigrati.
In definitiva, lo spiazzamento della manodopera nativa da parte dell’immigrato (c.d. «job displacement») sarebbe inconsistente solo nell’ipotesi che il numero dei posti di lavoro fosse in crescita e non uno « stock» prefissato, come invece è stato in questi anni . Uno studio, relativo agli USA, del Cato Institute mostrerebbe che ogni nuovo lavoratore dotato di professionalità specifiche nei settori ad alto valore aggiunto, provocherebbe, come effetto indotto, la creazione di circa 3 nuovi posti di lavoro nei settori tradizionali. Ma a ben vedere, i numeri dei disoccupati in crescente aumento sembrerebbe smentire questa anche ipotesi ed anzi, a funzionare maggiormente è il c.d. effetto miraggio, per cui l’illusione di nuova ricchezza alimenta l’ingresso di nuovi poveri, riducendo nel totale la ricchezza pro-capite. Insomma, un problema non di conto di fronte al quale non si può oltre chiudere gli occhi.
In secondo luogo, il lavoratore immigrato non solo produce, ma consuma beni e servizi e ciò forse dovrebbe aumentare i consumi stimolando la produzione interna del paese che lo ospita. Ma quali beni e che servizi l’immigrato consuma? Bene, anche qui gli effetti sono controversi. Infatti, l’effetto espansivo sulla domanda genera certamente un incremento di importazioni su beni non tradizionalmente prodotti nei nostri Paesi, e moltiplica gli scambi di beni e servizi di bassa qualità. L’effetto quindi è duplice: da una parte si rendono più appetibili per i nativi le produzioni “labour intensive” minacciate dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo (dove il costo del lavoro è basso) dall’altro, però, tale attività – a nostro modo di vedere – distrae risorse su produzioni di livello ed a maggior valore aggiunto . in definitiva, anche in tale caso il beneficio per il Paese di immigrazione non è alto.
Si aggiunge, inoltre, il problema delle “rimesse degli emigranti ”, ovvero, nella parte di reddito percepito dall’immigrato che viene inviato alla famiglia! Vediamo meglio la questione. Il fenomeno è molto difficile da calcolare. Gli emigranti, infatti, utilizzano diversi canali per far pervenire nel paese di origine i loro risparmi: trasferimenti di denaro attraverso banche; trasferimenti di denaro attraverso canali privati (connazionali che rientrano in patria, propri rientri temporanei nel paese di origine, ecc.); trasferimento diretto di beni ai parenti e amici in patria; trasferimento diretto di denaro all’interno delle lettere inviate in patria . Il fenomeno è comunque di grande rilevanza. I dati del Rapporto World Bank, 2006, ad esempio, stimano che nel 2005 le rimesse dei migranti verso il complesso dei Paesi in via di sviluppo sono state pari a circa 167 miliardi di dollari USA (circa 138 miliardi di Euro dell’epoca), in crescita del 73% rispetto al 2001 . Qualunque sia il modo utilizzato, tuttavia, l’effetto è che parte del reddito percepito non va ad alimentare né il consumo né finanzia gli investimenti all’interno del Paese ospitante.
Si pone, in sostanza una questione – che riteniamo, tra le tante, maggiormente contribuisca all’effetto impoverimento di un Paese – conseguente al massiccio e rapido afflusso di nuova popolazione: il c.d. effetto “diluizione del capitale ” e “redistributivo”. Infatti, la maggiore pressione sui beni capitale aumenta i prezzi dei beni e dei servizi, è quindi favorisce gli stessi beni capitale posseduti dai nativi (effetto diluizione). Tuttavia, la pressione sui prezzi svantaggerà tra i nativi più i meno ambienti. Infatti, i nativi possidenti registreranno un aumento del valore del loro capitale grazie all’arrivo degli immigrati (effetto ridistributivo). E’ un po’ quello che succede sul prezzo degli affitti, dove la maggior richiesta di locazioni aumenta il prezzo degli affitti e favorisce i proprietari di casa, penalizzando chi casa non la ha o, la deve acquistare .
Spieghiamoci con un esempio; supponiamo che l’affitto di una casa del valore di 1000, sia normalmente di 10 e, ipotizziamo, un repentino aumento della domanda di case in affitto. Nel breve e brevissimo periodo la pressione sull’offerta comporterà la crescita dei canoni d’affitto, poniamo fino a 20. L’incremento di redditività delle case ha come conseguenza una pressione sul valore capitale delle vecchie case e sui muti per acquisto di nuove case; ne segue un aumento del livello dell’incremento del costo del denaro, con un effetto negativo sul sistema economico in generale. E’ evidente che le statistiche ufficiali possono rilevare soltanto i flussi di denaro che utilizzano il primo dei canali sopra indicati mentre, per ciò che riguarda gli altri canali, il flusso è destinato a rimanere ignoto.
Un’analoga pressione è data dall’aumento della popolazione che, in seguito al fenomeno immigratorio, si esercita sulle finanze pubbliche, in termini di nuova spesa sanitaria ed altri servizi offerti ai residenti. Qui il problema è assai complesso, perché la questione dei costi va rappresentata, innanzitutto, in termini di lavoro nero e presenza clandestina sul territorio, questione, tuttavia, che non sembra voglia essere affrontata dalla politica. Viceversa, l’immigrato tipo risultante dalle statistiche, risulta: giovane; all’inizio della sua vita lavorativa; con un numero di figli relativamente basso. Se le cose stanno effettivamente così, questo comporta un relativamente basso utilizzo di prestazioni sanitarie, previdenziali, scolastiche ed assistenziali ed un uso dei servizi nazionali, inferiore rispetto sia alla loro consistenza demografica, sia rispetto alle risorse che versano nelle casse pubbliche. Purtroppo, i contratti di lavoro al minimo ed il frequente uso di contratti stagionali fanno sì che anche i contributi versati, se confrontati alla massa occupata in attività al nero e/o sottopagata, siano in realtà poca cosa e da qui nasce l’effetto certamente negativo sui conti pubblici.
In definitiva, troppo poco il fenomeno dell’immigrazione è stato studiato senza condizionamenti culturali. Forse un nuovo modo di affrontare la questione potrebbe aiutare a risolvere il problema e, forse a comprendere il declino dell’Occidente.

 

[1] L’Organizzazione Internazionale del Lavoro è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani internazionalmente riconosciuti, con particolare riferimento a quelli riguardanti il lavoro in tutti i suoi aspetti. Fa parte del sistema delle Nazioni Unite nel 1946, ma la sua fondazione risale al 1919 in seno alla Società delle Nazioni. Ne fanno parte 178 Stati e le lingue ufficiali sono inglese, francese e spagnolo. Ha sede principale a Ginevra. In Italia è presente a Torino.
[2] Eurostat- Ufficio Statistico delle Comunità Europee.
[3] Russia, Ucraina, Polonia e Bielorussia sono le nazioni dell’Europa Centro Orientale che ospitano il maggior numero di migranti.
[4] La fonte più completa ed attendibile è il “Dossier Statistico sull’immigrazione” curato ogni anno dalla Caritas di Roma che elabora i dati ISTAT relativi all’immigrazione regolare.
[5] Altra questione è l’argomentazione, certamente non priva di fondamento, secondo cui i nativi sarebbero impoveriti dall’arrivo di manodopera immigrata, disposta ad offrire il proprio lavoro a salari più bassi e, pertanto, che se i lavoratori nativi vogliono conservare il loro lavoro devono accettare anch’essi un salario più basso. Le conseguenze sono, tuttavia, identiche; riduzione del salario.
 [6] Il Cato Institute è un think tank (serbatoio di pensiero)  di orientamento libertarian, con sede nella città di Washington.
[7] Che esista una forte correlazione positiva tra immigrazione e sviluppo economico, lo si può constatare osservando le serie storiche relative alla crescita del PIL e all’occupazione dei paesi, con i tassi di immigrazione più elevati. Tuttavia, di fronte alla pressione esercitata da una popolazione crescente sulle risorse disponibili, assistiamo ad una fase dello sviluppo che a basso assorbimento di lavoro.
[8]La compressione della dinamica salariale, ha un’ulteriore effetto di  disincentivo dall’effettuare investimenti in tecnologie atte a razionalizzare il ciclo produttivo (anche relativamente alla salute e/o i sistemi di sicurezza contro le malattie professionali). Se il rallentamento dell’innovazione tecnologica può essere considerato nel breve periodo un risparmio di costi, esso può trasformarsi in un ritardo che nel lungo periodo toglie competitività alle produzioni in cui è richiesto alto livello di precisione, affidabilità e standardizzazione.
[9]Vedi Chiuri M.C., Coniglio N. e Ferri G (2007), “Le rimesse degli stranieri in Italia”, in Caritas, Immigrazione. Dossier statistico 2007, Roma, Nuova Anterem.
[10] Una classificazione analoga a questa si trova in Zucchetti E, 1997.
[11] Le rimesse di cittadini stranieri residenti in Italia sono cresciute, andando a superare nel 2006 i 4,3 miliardi di euro, secondo le stime effettuate con i dati della Banca d’Italia. L’aumento del 2005-2006 è stato determinato soprattutto dalla forte dinamica delle rimesse verso l’Estremo Oriente (Cina in particolare) e verso l’Europa Centro-orientale (in primis Romania) e per l’Asia sub-continentale (principalmente India e Bangladesh).
 
  [12]Vedi Chiuri M.C., Coniglio N. e Ferri G (2007), “Le rimesse degli stranieri in Italia”, in Caritas, Immigrazione. Dossier statistico 2007, Roma, Nuova Anterem. 
[13] Le rimesse di cittadini stranieri residenti in Italia sono cresciute, andando a superare nel 2006 i 4,3 miliardi di euro, secondo le stime effettuate con i dati della Banca d’Italia. L’aumento del 2005-2006 è stato determinato soprattutto dalla forte dinamica delle rimesse verso l’Estremo Oriente (Cina in particolare) e verso l’Europa Centro-orientale (in primis Romania) e per l’Asia sub-continentale (principalmente India e Bangladesh).