Il frettoloso articolo di Giuseppe Blasi – la capitale del “guru” Rifkin – apparso nel numero di luglio di questo mensile – “Il Borghese ” -e tratto da L’Opinione del 4 giugno, introduce il tema che ci sta a cuore e che costituirà l’argomento che cominceremo ad esaminare da questo mese: come affrontare il problema di realizzare una città organica e quindi ecocompatibile posta l’attuale situazione urbanistica delle periferie ed alla luce delle leggi vigenti, della tecnica e della politica. In altre parole: data una città che per funzionare – male – consuma quantità enormi di energia inquinante mettendo a repentaglio la salute dei propri abitanti e l’equilibrio ambientale, quali proposte suggerisce la tecnica, quale deve essere l’atteggiamento della politica, di quali leggi disponiamo per avviare la soluzione del problema?
Ho definito frettoloso l’articolo di Blasi perché il collega, nell’intento di attaccare Alemanno per il costume deprecabilissimo di rivolgersi a consulenti già utilizzati, con esiti a dir poco negativi, dagli amministratori che lo hanno preceduto, ha limitato la sua analisi critica esaminando non già il cosiddetto piano – in realtà un semplice rapporto ( report ) – elaborato da J. Rifkin, ma una dichiarazione dello stesso alquanto infelice ripresa da una cronaca romana veicolata da Internet.
Giusto prendersela con Alemanno perché facendo ricorso a certi consulenti non fa altro che perpetuare gli errori dei suoi predecessori compiuti, appunto, giovandosi di tali consulenze; errato cazzeggiare Rifkin senza esaminare a fondo il suo rapporto e senza delineare la sua figura di ecologo. Si rischia di creare contrapposizione fra i pro-Rifkin e gli anti-Rifkin con il risultato di dover accettare come atto di fede gli obiettivi del rapporto in caso di prevalenza dei pro o di buttare l’acqua sporca del bagnetto con il bambino dentro nel caso di prevalenza degli anti.
Vero è che il tono enfatico delle dichiarazioni del personaggio in questione indispone alquanto. Sentite questa del 22 maggio scorso:
– Credo che quello attuale sia un momento critico per la specie umana. Ci stiamo avvicinando alla nostra stessa estinzione, siamo di fronte agli ultimi colpi di coda della rivoluzione industriale. Fine della partita. Le fonti di energia conosciute si stanno esaurendo, le infrastrutture industriali sono alla canna del gas e stanno subendo un tracollo senza precedenti. L’economia globale è collassata. L’entropia figlia della rivoluzione industriale e l’enorme impronta carbonica ( carbon footprint ) derivante da due secoli di sfruttamento dei combustibili fossili stanno chiedendo il conto al pianeta terra. Siamo alle porte di un catastrofico cambiamento climatico che minaccia l’esistenza di ogni forma di vita.
Fa il paio con l’apocalittica stupidità del quotidiano La Repubblica che sulla scorta dell’”autorevole” Global Footprint Network, il 17 agosto annunciò che di lì a quattro giorni – il 21 agosto – si sarebbe verificata la “bancarotta ecologica della specie umana” per la fine delle risorse naturali.
Non si capisce – sia detto come inciso – cosa significhi la “bancarotta ecologica della specie umana”. Se è ecologica la bancarotta riguarda tutto l’oikos ( la dimora ) ovvero la simbiosi uomo-natura, quindi non solo la specie umana ma tutte le specie. Tant’è, ma certe enfasi e certe …ronzate ( scusate mi sono perso la s iniziale ! ) purtroppo si prestano al dileggio e vengono prese a pretesto, da parte di interessati ambienti, per mettere alla berlina l’ecologia e tutto il pensiero sistemico che ne è il fondamento. Occorre spendere, allora, un po’ dello spazio a disposizione per far capire, con una digressione, cosa rappresenti J. Rifkin nel variegato mondo dell’ecologia.
Jeremy Rifkin è laureato in economia presso la Wharton School of the University of Pennsylvania. Venendo da una formazione altamente settoriale con pretese di totalità, il suo approccio al problema ecologico, nonostante quanto scrive, resta settoriale da economista. Le analisi che sta conducendo da anni e che lo hanno reso giustamente famoso hanno messo in luce – meritoriamente – alcuni aspetti settoriali della realtà, ma le soluzioni che propone, quando esondano dai confini della settorialità per investire la realtà, che per sua natura è totale, finiscono per essere destinate all’insuccesso per la solita eterogenesi dei fini.
Cosa significa ? Leggete quanto scrive nel suo rapporto:
_ Gli scienziati stanno cominciando a vedere il pianeta più simile ad una creatura vivente, un organismo autoregolamentantesi che si mantiene in uno stato stazionario favorevole alla conservazione della vita. Secondo il nuovo modo di pensare, l’adattamento e l’evoluzione di creature individuali diventano parte di un processo più ampio, l’adattamento e l’evoluzione del pianeta stesso. E’ un continuo rapporto simbiotico tra tutti gli esseri viventi [ l’evidenziatura è del redattore ] e i processi geochimici che assicurano la sopravvivenza del pianeta, dell’organismo e delle singole specie all’interno del rivestimento rappresentato dalla biosfera.(1)
Sembrerebbero i concetti, formulati con parole diverse, che avemmo modo di enunciare nel ciclo di articoli su Uscire dal deserto ( v. Il filo rosso della totalità ). Concetti e relativo metodo messi a punto nel 1963 da Saverio Muratori in Architettura e Civiltà in crisi. Ma non è a Muratori che Rifkin e gli ecologisti dei vari movimenti fanno riferimento, bensì a quegli scienziati [che] stanno cominciando a vedere sulla scia delle formulazioni rapsodiche del filosofo Arne Naess al quale si debbono le definizioni di ecologia antropocentrica e quella di ecologia profonda. L’ambientalismo antropocentrico, secondo i “profondi”, si occupa di conservazione dell’ambiente solo per lo sfruttamento da parte dell’uomo e per fini umani. L’ecologia profonda, invece, non separa gli esseri umani – nè ogni altra cosa – dall’ambiente naturale. Essa non vede il mondo come una serie di oggetti separati, ma come una rete di fenomeni che sono fondamentalmente interconnessi e interdipendenti (2).
Principio, quest’ultimo, fondamentalmente condivisibile, ma che nel tempo ha generato non un metodo di indagine e di intervento nella realtà, ma solo formulazioni e posizioni ideologiche lasciando per strada i primi veri scienziati, soprattutto biologi e fisici, che, a partire dal 1973, avevano cominciato a vedere, ma non ad operare.
Aprirono la strada Humberto Maturana e Francisco Varela con De Maquinas y sere vivos 1973 ( trad. it. Di Alejandro Orellana- Macchine ed esseri viventi. L’autopoiesi e l’organizzazione biologica ) e con l’elaborazione della teoria di Santiago. Secondo questa la mente non è una cosa ma un processo. Essa è “cognizione”, il processo della conoscenza, e si identifica con il processo stesso della vita (2). Seguì il fisico di formazione viennese, poi americanizzato, Fritjof Capra con Il Tao della fisica del 1975 e nello stesso anno Lewis Thomas, biologo, scrisse The live of a Cell. Dieci anni dopo Bill Devall e George Sessions con Deep Ecology 1985 svilupparono le già citate formulazioni di Arne Naess.
Jeremy Rifkin, pur procedendo dal filone dell’ecologia profonda, tenta di rispondere da economista rivoluzionario al quesito da noi posto in apertura, ma lo fa ideologicamente ovvero piegando il processo del reale, indagato settorialmente, ad una visione e ad un obiettivo ideologici.
La visione è quella dell’avvento dell’homo empathicus che dovrà ( imperativo ) sostituire l’homo sapiens dando inizio all’era della biosfera dove l’empatia “allungherà” i confini nazionali per espandersi nei confini della biosfera . Secondo Rifkin L’uomo sarebbe predisposto biologicamente alla solidarietà e all’empatia e non alla competitività, all’aggressività o alla violenza (3) Questa era anche la tesi sostenuta nell’Emilio da Jean Jacques Rousseau. Dalla sua filosofia nacque il Terrore giacobino che la volle tradurre in pratica “potando” un bel po’ di teste dissenzienti.
L’obiettivo, invece, è realizzare la Terza Rivoluzione Industriale per compiere la transizione verso un’economia del post-carbonio entro il 2050. A questo fine – dice il rapporto – abbiamo sviluppato un nuovo concetto di vita urbana [ N.d.R.] che unificherà città e campagna creando un ambiente senza soluzione di continuità sociale per sostenere la nostra specie per i secoli a venire (4).
Ecco dov’è il limite di quello che Rifkin chiama piano mentre dello stesso, tecnicamente, non ha alcunché. L’ecologo americano mostra, qui, di aver preso a prestito il concetto di simbiosi senza averlo compreso. Non ha, infatti, alcuna coscienza dell’ecologia urbana. Una città è anch’essa un essere vivente in quanto simbiosi di uomo e ambiente. Ha propri processi di formazione, propri cicli vitali, una propria sistematica organicità e perciò stesso una spiccata identità espressa dalla sua forma. Se vogliamo formulare una similitudine assai riduttiva che anche un ecologo – quale che sia il suo limite culturale – dovrebbe essere in grado di capire, una città è per gli uomini ciò che un formicaio è per le formiche, un termitaio per le termiti, un alveare per le api, un corallo per i polipi e via assimilando. Se l’ecologo si lascia accecare dall’ideologia e considera l’uomo separato dall’ambiente suo proprio pretendendo, come ipotizza Rifkin, di modificarlo secondo un nuovo concetto di vita urbana di natura economicista senza tener conto dei processi che hanno formato la vita urbana di ogni città e che condizionano – positivamente o negativamente – ogni possibile sviluppo, allora egli non è meglio dello speculatore ( moralità a parte ) e dei politici creatori di periferie. Sfugge a questo tipo di ecologo che nasce, come tale, solo nel 1975, che la natura che lui conosce, che ama, con la quale sente di essere interconnesso e interdipendente è frutto dell’azione modificatrice dell’uomo sull’ambiente così come, per azione dell’ambiente si è formato l’uomo in reciproco condizionamento. E questo nell’arco di tempo di migliaia di anni. La natura, anche quella meno antropizzata, ha perso la sua verginità da tanto tempo ormai. Almeno da quando gli dei fuggirono gli uomini che avevano perduto il senso del sacro e non c’è chirurgia plastica che possa ricostituirla.
Tutto sbagliato, quindi, il rapporto Rifkin?
Tutt’altro se lo sfrondiamo dell’atteggiamento e degli obiettivi ideologici e recepiamo quanto in esso vi è di utile per conseguire, invece, il sogno vero: l’indipendenza energetica dell’organismo città liberandolo dalle protesi.
Al tempo degli uomini, come indulgiamo a chiamare l’epoca in cui gli stessi costruivano le città, queste non dipendevano da protesi energetiche come avviene in questo tempo dei cyborg e delle loro periferie, vere e proprie voragini energetiche. Per rifarci alle statistiche della nostra Italia, nel 2009 gli utilizzatori finali di energia sono stati così ripartiti: 35,2% civili, 32,20% trasporti, 22,60% industria, 10% altri. Ipotizzando che dell’incidenza relativa ai trasporti solo il 70% sia addebitabile alle città, avremmo che il 57,74% del consumo di energia sarebbe da addebitare alle stesse. E si tratta di una ipotesi prudenziale.
Vediamo cosa propone Rifkin per attuare la sua utopica Terza Rivoluzione Industriale ( in sigla T.R.I. ) a Roma premettendo che il discorso può valere per ogni altra città.
Individua quattro pilastri a sostegno della T.R.I. :
1. La produzione e la distribuzione diffusa di risorse energetiche rinnovabili;
2. Uso degli edifici come centrali elettriche;
3. Sviluppo delle tecnologie dell’idrogeno e altri sistemi di accumulazione di energia;
4. Creazione di infrastrutture energetiche e di un sistema di trasporto intelligente.
Impossibile addentrarci nella descrizione e nell’analisi critica di quanto Rifkin scrive nelle 131 pagine del suo A Third Industrial Revolution Master Plan to Transition Rome into the World’s First Post-Carbon Biosphere City. Non certo per la scorrettezza dell’autore che avendo svolto per un cliente italiano un lavoro lautamente pagato, avrebbe dovuto avere rispetto per il destinatario fornendo il testo in italiano. Piuttosto l’impossibilità nasce dal fatto che per svolgere l’analisi occorrerebbero, forse, altrettante pagine se entrassimo nel dettaglio. Limitiamoci a porci la domanda chiave: i quattro pilastri della T.R.I. sono da considerarsi consistentemente reali?
Sotto il profilo tecnico sono pilastri solidissimi; sotto quello economico, molto meno. Occorre attendere il consolidamento di un mercato agli albori nonché lo sviluppo e l’affinamento di una tecnica in grado di abbassare i costi. Già ora si registrano significativi risultati in tal senso e la progressione delle tecniche è assai rapida. Sotto il profilo dell’opportunità, tenuto conto dell’impatto ambientale, vi sono più di un fattore negativo per quanto attiene la produzione e la distribuzione. Ma sono aspetti superabili.
Se ci limitiamo a ciò che ci sta a cuore, ovvero la realizzazione di una città organica la domanda che dovremmo porci dovrebbe essere: sui quattro pilastri della ipotetica T.R.I. si può fondare la speranza di rendere la città indipendente sotto il profilo energetico? Da cui un’altra domanda: può l’indipendenza energetica avviare a soluzione il problema delle periferie?
A giudizio di chi scrive la risposta può essere affermativa per entrambi i quesiti, ma non si tratta di effettuare la solita ideologica rivoluzione tecnico-economica spacciata per conquista etico-ambientale. La soluzione del problema delle periferie non è tecnica né sociale, ma organica e, in quanto tale implica anche gli aspetti settoriali della tecnica e della politica , ma li include in una sintesi di scala superiore.
Limitiamoci, nell’economia di questo articolo, al problema dell’indipendenza energetica per la quale occorre demolire e ricostruire in quanto per fondarsi sul secondo pilastro della T.R.I., gli edifici come centrali elettriche, gli stessi vanno concepiti e realizzati applicando tecniche impiantistiche del tutto nuove. Difficilmente si potranno trasformare gli edifici esistenti realizzati “con lo sputo” negli anni ’60-’70 che si alimentano bulimicamente di energia. Poichè per ottenere la sospirata indipendenza è necessario realizzare infrastrutture di smaltimento, di accumulo, di trasformazione, sarà necessario procedere, nella ricostruzione, per entità urbanistiche tecnicamente ed economicamente convenienti e questo offre l’opportunità di ridisegnare, quartiere per quartiere, le periferie avviando il processo di trasformazione delle stesse in città del 3° millennio.
Utopie? Non proprio. La legge per operare c’è: il piano casa. La tecnica non è un problema. L’economia, se ancorata a schemi vetusti può essere – al momento – un fattore frenante, ma non c’è da preoccuparsi . Manca, per ora, una concreta e cosciente volontà politica.
Abbiamo anche un esempio da prendere a riferimento: il quartiere di Hammarby Sjostad a Stoccolma. Avrebbe dovuto essere un villaggio olimpico per le olimpiadi 2004, ma caduta la candidatura di Stoccolma venne riconvertito ad uso residenziale. Nel 2012, al termine del programma di realizzazione, ospiterà 20mila abitanti ed altre 10mila persone vi si recheranno ogni giorno per lavorare nella zona degli uffici.
Sul piano tecnico è l’esempio perfetto di cosa si può realizzare in termini di autosufficienza energetica grazie all’impiego di fonti pulite e rinnovabili, e ad altre tecniche ambientali. Maggiormente qualificante, sotto questo profilo, è il sistema di riciclaggio creato per convertire ogni rifiuto prodotto dagli abitanti in energia pulita e pronta da utilizzare. Metà degli appartamenti di Hammarby Sjostad sono dotati di cucine a gas alimentate dal biogas formato dai liquami degli scarichi domestici. I rifiuti solidi, opportunamente selezionati, vengono convogliati in enormi cisterne sotterranee svuotate da adeguati aspiratori e avviati al riciclaggio. ( Un mondo senza cassettonetti nauseabondi e con ridotti operatori “ecologici” ). I rifiuti non riciclabili sono convogliati nell’incineratore dove la loro combustione copre il 47-50% del riscaldamento domestico. Il restante 50% viene fornito dalla combustione di olio biologico (16%) e dall’energia idrica prodotta dalle acque di scarico (34%). L’energia elettrica proviene da pannelli solari di nuova generazione capaci di catturare i pallidi raggi del sole anche alla latitudine di Stoccolma. Posti sui tetti sono in grado di garantire l’illuminazione degli spazi comuni e fornire metà del fabbisogno di acqua calda per uso domestico.
Come si vede si tratta di un sistema di riciclaggio a circuito chiuso di cui il 50% e costituito dai rifiuti prodotti dagli abitanti ed il rimanente 50% deriva da fonti pulite: pannelli solari, centrali idriche ed eoliche. Dall’estate 2005 funziona una stazione di servizio per auto ad idrogeno prodotte in Svezia che si aggiungono agli autobus pubblici ecologici ad etanolo che gradualmente stanno sostituendo i vecchi mezzi di trasporto.
Non siamo in presenza della totale indipendenza energetica, ma Sjostad vi si avvicina moltissimo con soddisfazione della Svezia che, sulla replica di questo modello, fonda la speranza di dire addio al nucleare. Non è un fatto di poco conto considerando che si tratta di un paese con i reattori più sicuri al mondo che forniscono un terzo del fabbisogno energetico fra i più alti del globo a causa del clima.
Non possiamo descrivere, se non sommariamente, il suo aspetto urbanistico – a giudizio di chi scrive il suo maggior pregio – vuoi per carenza di spazio che di informazioni di dettaglio. La zona era una ex area industriale dismessa sulle rive del Malaren, un lago di acque dolci che rappresenta la principale fonte energetica di Sjostad ( il nome significa, per l’appunto, città d’acqua ). Fu progettato all’interno degli uffici tecnici comunali realizzando un brano di città sulle sponde del lago mirabilmente ammagliato con il resto della città e dal pregevole impianto lottizzativo su cui insistevano tipi edilizi in linea formanti isolati a corte interna chiusa o aperta. Purtroppo in corso di realizzazione la tipologia edilizia ha subito modifiche non troppo felici alterando la chiarezza dell’impianto originario; il linguaggio architettonico impiegato non risulta all’altezza dell’impianto urbano. Senza addentrarci oltre nell’esame urbanistico-architettonico, anche per mancanza di informazioni più dettagliate, come già detto, quello che si vuole mettere in evidenza è il fatto che soluzioni tecniche all’avanguardia possono essere felicemente adottate in soluzioni urbanistiche integrate con il tessuto urbano della città ospitante.
Ritorneremo su questo aspetto della qualificazione e integrazione in altra occasione.
(1) Jeremy Rifkin Group. Rome Climate Change Master Plan