Caro Sergio Romano, travisare la storia d’Italia non fa bene neppure al Sud
Può sembrare strano dedicare tante pagine alla breve risposta data, sul ‘Corriere della Sera’ del 19 ottobre u.s., da Sergio Romano a un lettore che rivendicava «il diritto del Sud a un risarcimento per i danni subiti nella forzata annessione al Nord, danni che vanno dai fondi della Banca del Mezzogiorno a industrie, beni marittimi e tante altre cose che avevano fatto del Regno delle Due Sicilie e della sua capitale, Napoli, un insieme di ricchezza e felicità». Il nostalgico in questione – tal Roberto Castellano – è un sud-irredentista che ignora, evidentemente, l’immensa letteratura meridionalistica e il suo stretto, positivo, rapporto col Risorgimento. Trasalirebbe se qualcuno gli dicesse che i più prestigiosi intellettuali, che animarono il dibattito sulla «questione meridionale», non solo erano uomini del Sud (e tra di essi vi erano le menti più eccelse dell’Italia post-unitaria) ma, spesso, si professavano dichiarati di ogni progetto federalista, forse perché guardavano al Rechtsstaat , a Hegel, a Jellinek, a Jhering, insomma allo stato moderno limitato nella sua sfera d’azione ma forte ed efficiente entro i confini assegnatigli dall’interesse pubblico.
Romano non glielo ha ricordato ma lungi da me l’idea di fargliene una colpa. Avendo poco spazio a disposizione, lo storico ‘venuto dal freddo’ della diplomazia, ha preferito andare subito al sodo ‘confessando’ le «due reazioni alquanto diverse» prodotte in lui dal sempre più diffuso nostalgismo borbonico. Vale la pena citarle per esteso.
«La prima è un sentimento di fastidio per questo travisamento della storia nazionale. Per unanime consenso dell’Europa d’allora il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta. La ‘guerra del brigantaggio’ non fu il fenomeno criminale descritto dal governo di Torino, ma neppure una guerra di secessione come quella che si combatteva negli Stati Uniti in quegli stessi anni. Fu una disordinata combinazione di rivolte plebee e moti legittimisti conditi da molto fanatismo religioso e ferocia individuale. La classe dirigente unitaria fece una politica che favoriva le iniziative industriali del Nord perché erano allora le più promettenti, e non fece molto, almeno sino al secondo dopoguerra, per promuovere lo sviluppo delle regioni meridionali. Ma il Sud si lasciò rappresentare da una classe dirigente di notabili, proprietari terrieri, signori della rendita e sensali di voti, più interessati a conservare il loro potere che a migliorare la sorte dei loro concittadini».
Meglio non si poteva dire. E del resto a Sergio Romano dobbiamo analisi molto equilibrate della storia d’Italia, del processo unitario, dei suoi grandi protagonisti (come Crispi). Equilibrate anche perché fanno tesoro di ricerche ormai ‘classiche’ compiute da storici di prestigio mondiale, come Rosario Romeo (un meridionale, Signor Castellano!). Scrivere che «la classe dirigente unitaria fece una politica che favoriva le iniziative industriali del Nord perché erano allora le più promettenti» significa, appunto porsi sulle solide spalle di Romeo e della sua scuola (penso ai lavori di Guido Pescosolido e del compianto Giuseppe Are – v. di quest’ultimo il saggio sulla politica industriale nell’età della Sinistra – ancora due meridionali..).
Al posto di Romano, avrei dedicato almeno un cenno a un fatto cruciale e ricco di conseguenze, non sempre positive, come la ‘meridionalizzazione della classe dirigente e della pubblica amministrazione, con l’avvento al potere della Sinistra storica. Le basi sociali dello Stato sabaudo erano oggettivamente strette ma il reclutamento della classe dirigente era così aperto e generoso da non avere eguali in Europa. Non risulta, tanto per fare un esempio significativo, che l’elite politica prussiana, gli Junker che costruirono il Secondo Reich, trovando nel Principe Ottone di Bismarck il loro Cavour, fossero altrettanto disposti a lasciare spazio, nelle stanze del potere, ai tedeschi della vecchia Staaterei, che poi non era tanto ‘stateraglia’ se si considera che comprendeva due regni, quello di Baviera e quello di Sassonia.
Comunque, lo ripeto, Romano ha avuto una reazione ‘sana’ e tanto più meritoria se si considera il numero di giornalisti, accademici, opinion makers, che ogni giorno ci sciorinano i loro ‘brevi cenni’ sulle origini del Risorgimento italiano, ripetendo, né più né meno le antiche lamentazioni di quanti, da sinistra e da destra, da centocinquant’anni ormai, chiedono il «processo ai Savoia» rei di aver ‘conquistato’ il Sud (e gli altri piccoli stati della penisola), calpestando i ‘diritti dei popoli’ e animati solo da brama di potere. (v. il rozzo livello dei pamphlet antisabaudi di Lorenzo Del Boca, non a caso, in un paese avviato allo sfascio, eletto presidente dell’Associazione nazionale della Stampa!). Da vecchio signore, uscito da una scuola seria e severa a tutti i livelli, Romano non poteva certo indulgere alla storiografia dilettantesca di chi impugna la penna come fosse una spada per colpire gli avversari politici, farsi un nome, e, perché no?, un conto in banca.
E’ la seconda reazione, invece, mi si perdoni la franchezza che convince poco, molto poco. «Vi sono circostanze – scrive l’ex ambasciatore – in cui la rabbia e il sentimento di una ingiustizia patita, anche se fondato su una lettura sbagliata del passato, possono produrre risultati positivi». Se le numerose lettere dei filo borbonici al ‘Corriere’ «indicassero la crescita al Sud del numero di coloro che sono stanchi di andare a cercare fortuna altrove e vogliono dare al Nord una lezione di energia e dinamismo, ne sarei felice. Anziché temere la Lega, il Sud avrebbe interesse a imitarla creando nelle sue regioni un movimento che non si limiti a raccogliere voti per darli al migliore offerente. In altre parole al Meridione serve una ‘Lega Sud’ che cambi in una generazione, come è avvenuto al Nord, tutto il personale politico delle amministrazioni comunali e provinciali. Per raggiungere i loro obiettivi, Umberto Bossi e i suoi compagni hanno inventato i celti e la Padania. Il Sud può inventare il regno felice dei Borbone. Quando sono utili al futuro, i travisamenti del passato sono perdonabili».
E’ difficile essere d’accordo. E non certo per la distinzione, sottilmente cinica, almeno nel contesto del discorso in esame, tra il conoscere e il fare: tra la dimensione della scienza – che sa bene quanto fossero mal governati il Sud e il Centro della penisola (eccettuato il Granducato di Toscana), e non per gli standard odierni ma per quelli dell’epoca – e la dimensione dell’etica e dell’economica (per rispolverare i ‘distinti’ crociani) – che si attiva solo in difesa di idealità mobilitanti, pur se fondate su una ‘generosa menzogna’. Le due sfere sono, sì, distinte, come insegnava don Benedetto – liberale, se non altro, per questo, come ebbe a dirmi Norberto Bobbio, nel nostro primo incontro, quando gli chiesi perché teneva sulla scrivania di lavoro la fotografia del filosofo ‘napoletano’ – ma non separate e incomunicanti. La conoscenza del passato, la riscoperta delle tradizioni, la progettualità volta al futuro costituiscono l’orizzonte dell’agire politico ‘responsabile’, il terreno fertile che nutre gli eroi e gli ‘intellettuali militanti’. Col mito di Obelix e di Asterix si può lanciare sul mercato uno strip di successo e, persino, un film interpretato dal corpulento Gerard Depardieu ma non si crea la «political culture» dell’illuminismo, dell’89, dello Stato moderno. «Noi francesi siamo di stirpe celtica e di cultura romana», scriveva con orgoglio il grande storico della ‘Città antica’ Fustel de Coulanges, il precettore del Principe Napoleone Eugenio, e il padre di questi, Napoleone III, inaugurando il monumento a Vercingetorige, ammoniva che grandi onori erano dovuti a quanti si batterono per l’indipendenza delle Gallie ma non si doveva mai dimenticare che la Francia moderna aveva radici romane. E del resto alla civiltà irradiata dall’urbe aveva fatto riferimento il teorico più coerente dello Stato nuovo sorto sulle rovine della Bastiglia, quel Sieyès, che riprendendo la tesi delle due France dell’abate Dubos, vedeva nella rivoluzione il trionfo dei gallo-romani (borghesia cittadina) sugli invasori germanici (noblesse d’épée).
Il mito risorgimentale si componeva di elementi ‘discreti’ ma reali che non erano certo «inventati»: l’unità linguistica imposta alle classi dotte dell’intera penisola in virtù di modelli letterari che tutto il mondo invidiava all’Italia – Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto –; il contributo decisivo dato allo spirito moderno con l’Umanesimo e il Rinascimento, la stessa partecipazione, sobria e lontana dal radicalismo francese, al moto illuministico etc.
Era sicuramente un parto della mente del giovane Mameli la visione unitaria, ‘nazionale’, di momenti tanto diversi di una storia politica separata, che, a partire dalla caduta dell’Impero romano, si era svolta nei secoli separatamente – il 1176, l’anno del carroccio («Dall’Alpe a Sicilia/ Ovunque è Legnano»), il 1530, la caduta di Firenze, (Ogni uom di Ferruccio / Ha il core, ha la mano), il 1746, la cacciata degli Austriaci da Genova (I bimbi d’Italia/ Si chiaman Balilla), il 1282, l’insurrezione di Palermo contro gli angioini (Il suon d’ogni squilla/ I Vespri suonò) – ma quei materiali incollati nell’Inno del patriota genovese erano pur sempre una realtà produttiva di ‘retorica vissuta’, ispiravano poeti e prosatori, pittori e musicisti, si pensi solo a Giuseppe Verdi e al magnifico attacco dei Vespri siciliani.
Un conto è «politicizzare» una cultura, e quella italiana fu una grande cultura persino nei secoli della decadenza – v. Galileo e Vico, per non citare altri – al fine di tessere legami ideali e culturali tra quanti, per le condizioni di arretratezza del paese, non avevano comunanza di interessi, un conto ben diverso è inventarsi un «passato» quanto mai improbabile per sottoporsi a una cura rapida di «energia e dinamismo».
Sulla «rabbia e il sentimento di una giustizia patita» non solo non si costruisce nulla ma si predispone il terreno alla ‘guerra civile’. Quanti si infiammano ascoltando Eugenio Bennato – l’ennesimo cantautore che cerca ispirazione nella ‘protesta’ e s’improvvisa maître-à-penser– che mette in musica la ballata di Ninco Nanco di Giovanni Mustafa: «1859, muore il vecchio re Borbone /e sul trono va suo figlio, 23 anni, ancora guaglione./ E’ il momento di approfittare di questo vuoto di potere, /di quel regno in mezzo al mare difeso solo dalle sirene./ E u Banco ‘e Napoli è l’ideale per rifarsi delle spese,/ per coprire il disavanzo della finanza piemontese.», potrebbero non limitare il loro sdegno a manifestazioni verbali o a innocue adunanze di nostalgici, a Civitella del Tronto o a Gaeta, e decidere, invece, di passare alle vie di fatto, chiedendo la restituzione del ‘maltolto’ e il risarcimento per le ruberie dello stato italiano e minacciando, in caso di diniego, di sfasciare le teste e di armare non soltanto le… sirene.
«Quando sono utili al futuro i travisamenti del passato sono perdonabili» è, come s’è visto, la conclusione del Realpolitiker sennonché una simile affermazione fa trasalire per la sua leggerezza. Quando sono in gioco le comunità politiche, le istituzioni e le loro ‘ristrutturazioni’, parole usate come innocui (e «utili») petardi si traducono in bombe al napalm. Per accorgersene, basta porre l’antica domanda socratica: «ti estì?», «che significa?». Che significa, tanto per cominciare, «utili»? E, posto che il termine abbia un significato univoco, «utili a chi»? E quali «travisamenti del passato» sono leciti? E in che senso sono ‘perdonabili?’. Il mito della responsabilità della finanza ebraica nella sconfitta tedesca fu un travisamento «utile» a Hitler e ai tedeschi stanchi della democrazia weimariana: ma fu «utile» a «tutti» i tedeschi e agli europei del tempo?
Ma v’è una considerazione ancor più decisiva: le mitologie politiche sono fatte per contrapporre il «noi» a «loro», per liberare le comunità dagli stranieri, per creare catene di solidarietà che si alimentano di odio e di risentimento finché gli stranieri restano in casa («ripassin l’Alpi e tornerem fratelli»). Descrivere il Sud preunitario come l’Eldorado conquistato non dai 180 uomini di Francisco Pizarro ma dai mille di Garibaldi può servire, tutt’al più, a riconciliare napoletani e siciliani – che sempre si guardarono in cagnesco durante il secolare, ‘felice regno borbonico’ – ma i ritrovati ‘amorosi sensi’, per sopravvivere, debbono convogliare verso l’esterno, sul centro e sul nord, la passione del ‘riscatto’. Il mito del Risorgimento unì liguri e veneti, lombardi e piemontesi, toscani e napoletani, pugliesi e siciliani contro gli austriaci, i papalini, i borbonici: i miti coltivati dalle leghe – Sud o Nord che siano – quali ‘popoli’sono destinati a unire? Vercellesi e trentini, al Nord, e salernitani e palermitani al Sud? E tutti contro i discendenti dei biechi piemontesi unitari?
Sarà per un residuo di illuminismo, ma sulla menzogna, sul travisamento del passato, si costruiscono solo le repubbliche delle banane, gli Imperi di Bokassa, o i lager africani in forma di Stato in cui ci si inorgoglisce per aver dato al mondo la matematica, la filosofia, la medicina e quant’altro.
A pensarci bene, la misura della civiltà di un paese che abbia conquistato l’indipendenza è data dal grado di «travisamento del passato» incorporato dal suo bagaglio mitico-simbolico. Mettendo da parte il caso nordamericano di un popolo di coloni ribelli alla madrepatria in nome di valori giuridici assorbiti da essa – “No taxation without representation”! – non va dimenticato il nostro grande Carlo Cattaneo che nell’’Archivio triennale’ avvertiva di non confondere l’Austria di Metternich con quella di Maria Teresa e, in altre opere, esaltava l’opera riformatrice di quei sovrani asburgici che avrebbero potuto trasformare l’Impero in uno splendido dogato retto da una dinastia ereditaria. (v. le Notizie naturali e civili su la Lombardia, con le Interdizioni israelitiche il suo capolavoro).
Gli slogan di battaglia non hanno un rapporto diretto con la conoscenza storica e sociologica ma qualora se ne allontanino troppo, divenendo farneticazioni deliranti, diffondono barbarie e anomia. Quanti se ne armano sono in grado di distruggere ma difficilmente raggiungeranno le loro mete.
I patrioti del Risorgimento insegnavano che i tiranni di casa – sostenuti dalle armi straniere – erano più pericolosi ancora degli austriaci. Un sudismo finalmente disposto a lavare i panni sporchi in famiglia non solo sarebbe meno aggressivo nei confronti dell’«Alt(r)a Italia» ma troverebbe fondati motivi di orgoglio nel decisivo contributo che i grandi meridionali diedero al «ricongiungimento dell’Italia all’Europa civile». Da Galiani – tanto apprezzato nei salons parigini – a Pirandello, l’arte, la saggistica, la musica del nostro mezzogiorno è sempre stata parte integrante del patrimonio nazionale e, per quanto riguarda la stessa politica e le scienze sociali, non va dimenticato che l’esponente più alto del cattolicesimo liberale era di Caltagirone, Luigi Sturzo, e che il fondatore della sociologia politica moderna era di Palermo, Gaetano Mosca. Se un popolo «sfruttato, sottomesso, umiliato, depredato», è potuto diventare una colonna portante dell’identità e della cultura nazionale in senso lato, forse, non sarà tanto facile costruire mitologie, per così dire, ‘antagoniste’ che nutrano l’orgoglio e la voglia di «fare da sé», alla faccia degli altri italiani.
Con questi rilievi non intendo affatto negare che oggi i legami nazionali si sono così sfilacciati da chiedersi se e come la ‘casa comune’ costruita centocinquant’anni fa rimarrà in piedi. Forse pecco di pessimismo ma il futuro dello stato italiano mi sembra incerto come è non mai stato dal 1861 – neppure nel 1922 fu così oscuro. Che in questo buio al di qua della siepe, il mito del «regno felice dei Borbone» possa dare qualche barlume di speranza agli Italiani, che stanno alla finestra, come Sergio Romano, a guardare quanto avviene a sud di Napoli, e possa consentire ai cittadini, che un tempo sarebbero stati sudditi del Re Lazzarone, di «raggiungere i loro obiettivi», può pensarlo soltanto chi abbia in mente una «List der Vernunft», un’astuzia della ragione inattingibile per chi è stato corrotto (senza rimedio) dalla lettura dei pensatori privi di ali, ossessionati dalla ‘realtà effettuale’ e ignari della Grande Storia che si svolge sopra le loro teste.