Lettera a Polito su Pisapia e la morte del riformista (che è in noi)
(16 novembre )
Caro Antonio,
scusami, intanto, se ti scrivo dalle colonne dell’Occidentale ma non ho nessuna speranza di venire ospitato sul ‘Riformista’, nonostante la passata collaborazione, e, inoltre, con l’avanzare degli anni, faccio sempre più fatica a metabolizzare la sicurissima censura o, peggio, il fin de non recevoir (o, per dirlo alla buona, il <manco te vedo!>). Ma vengo subito al ‘dunque’: ho letto sui giornali il tuo commento alla vittoria di Pisapia e debbo dirti, con la massima sincerità, che questa volta mi trovo in totale disaccordo con te. La vittoria di un generale è la vittoria dell’esercito—o degli eserciti—che lo ha(nno) sostenuto. Il tuo entusiasmo pisapiano mi ha ricordato il vecchio socialista che nell’ottobre del 1922 esultò al pensiero che il Mussolini, che portava al re l’Italia di Vittorio Veneto, era pur sempre <dei nostri>. Cosa importa, ragionava il compagno d’antan, che ad appoggiarlo siano stati i ‘poteri forti’—da una parte consistente dell’Associazione industriali, degli agrari, della burocrazia, agli ambienti di corte attorno alla vecchia regina madre reazionaria Margherita e ai settori ‘deviati’ dell’esercito—quando nel suo dna sansepolcrista ci sono tante idee che condividiamo?
Se Pisapia dovesse venire eletto sindaco a Milano sarebbe il sindaco di Vendola, dei centri sociali, della marmellata antagonista e libertaria, di Dario Fo. Un riformista che mette il cappello sulla sconfitta di Bersani alle primarie evoca non solo la patetica vicenda della mosca cocchiera ma, lo scrivo con profonda tristezza, diventa il segno della nostra (di noi riformisti) ‘nullificazione ontologica’.< Quos Deus vult perdere, dementat prius>. Con la tue esternazioni di giubilo, le macerie che hanno sepolto Bersani hanno sotterrato anche noi, facendoci perdere, definitivamente, ogni credibilità ideologica, ogni dignità ‘di specie’, ogni illusione di riscosse future.
E quel ch’è peggio, quelle esternazioni hanno tutta l’aria di essere l’ultima, patetica, espressione di quella antica, italica, ‘furbizia del concetto’ che affida alla ‘dialettica’ la missione di vendicare la sconfitta di Waterloo. Ne fu insuperato maestro il giovane Gobetti che pensava che a rivitalizzare il liberalismo fosse la sua antitesi radicale: i soviet torinesi di Antonio Gramsci.(Col risultato che gli eredi di Gobetti stanno con Pisapia e con Vendola mentre nessun pronipote di Gramsci sta nelle file liberali…).
Ho sempre trovato giusta la famosa correzione che Marx apportò alla sentenza di Hegel che la storia non si ripete mai.<No, fece rilevare il fondatore del socialismo scientifico ne Le lotte di classe in Francia, la storia si ripete ma la prima volta come tragedia, la seconda come farsa>. Nel nostro piccolo, siamo passati dalla tragedia dei Consigli di fabbrica dell’autore delle Lettere del carcere alla farsa dei Centri sociali. Per te, a quanto sembra,<tutto va ben Madama la Marchesa>, l’essenziale è poter rivendicare il diritto di brindare, assieme ai nostri avversari di sempre, a un risultato al quale ‘Il Riformista’ potrebbe aver contribuito per lo 0.3 per cento. (Quanto è duro, per noi italiani, rimanere esclusi dalle celebrazioni tributate ai vincitori..!)
Tutto passa, a questo mondo, tutto va via..Anche la tua presa di posizione, però, potrebbe risultare utile per la semplificazione del quadro politico e ideologico italiano: come definitiva prova del nove che a sinistra per i riformisti non c’è più spazio—stretti, come sono, tra i vecchi burocrati dell’ex-PCI stile Bersani e i populisti libertari del ‘nuovo modello di (sotto)sviluppo pugliese– e che potrebbero trovarsi una nicchia ( turandosi il naso, chiudendo gli occhi e tappandosi gli orecchi) solo in qualche anfratto del centro-destra.
Con i più cordiali saluti
Dino Cofrancesco
PS—Questa vicenda mi conferma, ancora una volta, che ad avvelenare quel poco di liberalismo che era riuscito ad attecchire nel nostro paese, è– per civettare col linguaggio del grande Augusto Del Noce–una <decisione filosofica> : l’abbandono del luminoso aristotelico principio di identità per cui <A è A> e non c’è dialettica che possa irrobustire A con robuste iniezioni di B. Se uno viene appoggiato da Vendola diventa oggettivamente un vendoliano (anche se non lo è) sicché, per fare un esempio significativo, se un tempo sosteneva la divisione delle carriere in magistratura (il famoso garantismo pisapiano) si guarderà bene in futuro dal sostenere quella misura liberale, dopo aver avuto il sostegno della solita compagnia di giro, dai radical chic a don Andrea Gallo e Moni Ovadia