Dove sta la qualità della formazione scolastica? … solo tra le nuvole

05 Dicembre 2010

Nicola D’Adamo

 

Preso spunto  dall’articolo di Enea Franza, Scuola e formazione: interrogativi di base di un economista, del 27 novembre u.s., il Prof. Nicola D’Adamo ci invia un suo sintetico intervento relativo al reale andazzo del sistema scolastico italiano. Il Prof. D’Adamo, docente presso gli Istituti Tecnici superiori, con esperienze non meno negative di insegnamento nei corsi serali dello stesso indirizzo, ha scritto “La scuola a Caporetto”, di prossima uscita. e-mail: nicola.dadamo@gmail.com

Scuola: corpo docente decapitato e de-selezione degli alunni. Ecco l’ introvabile qualità!

 

Al di là di ogni altra interpretazione dottrinale, la parabola dei talenti in cui il padrone, tornando dal viaggio condanna il servo fannullone ad essere gettato fuori nelle tenebre, riassume al meglio il concetto di meritocrazia, di cui il cristianesimo si fa interprete, inglobandolo dalla società greco-romana. In questo contesto la pari dignità tra i gentili e schiavi non assume il valore di uguaglianza, bensì quello di pari opportunità a raggiungere il regno di Dio. Nel Medioevo, Dante, fedele interprete della Scolastica dispone le anime dei Beati, più o meno distanti da Dio: secondo i loro meriti. Ma perché questo messaggio potesse essere collocato nella dimensione del temporale dovranno trascorrere molti secoli: non per la mancanza di uomini che ne predicassero il valore, piuttosto perché nel passato non esistevano le condizioni materiali per garantire l’ascesa delle classi più umili. La società era rigidamente stratificata secondo la triripartizione operata nel 1025 dal vescovo Adalberone di Laon, bellatores, oratores e laboratores . E quelle forme di mobilità che troviamo alla vigilia della Rivoluzione francese si coniugavano quasi tutte all’interno dei laboratores, ovvero del Terzo Stato, i in cui borghesi, artigiani, contadini o pezzenti che fossero erano tutti indistintamente inseriti.

Solo con l’avvento della tecnologia e della macchina l’uomo si affranca dalle dure leggi della natura, che gli imponevano ritmi di lavoro disumani accompagnati da frequenti carestie. Sicché la società borghese paradossalmente diviene l’autentica interprete del messaggio cristiano, perché pone il merito e non la nascita a fondamento della realizzazione dell’uomo.

Tuttavia nel nostro Paese queste premesse vengono spesso ribaltate a causa di elementi di socialismo pietrificati nella formazione culturale di molti dei nostri maìtres a penser. Per i quali il marxismo, benché esplicitamente negato, continua ad essere la stella di riferimento: dimenticando che questa dottrina sostituisce il diritto di nascita con quello di appartenenza al partito. Non a caso il marxismo leninismo trova la sua attuazione in Russia, che agli inizi del Novecento era lo Stato in cui il mondo feudale non era ancora stato superato: divenendo dal punto di vista della persona e della a sua realizzazione la prosecuzione in alte forme dell’ancien regime. Quando si dà a tutti in ugual misura, indipendentemente dal merito di ciascuno, venendo meno gli stimoli, di fatto si crea una società più povera. E, cosa peggiore, viene paralizzata la spinta ad andare avanti lungo i sentieri del sapere e della conoscenza, gli unici in grado di assicurare all’umanità un futuro di maggior benessere e di maggiore libertà. Nel mondo della economia il concetto di salario come variabile indipendente dalla produttività per effetto delle dismissioni prima e della globalizzazione poi, sembra essere stato gettato là dove meritava: nella spazzatura. Nonostante ciò permangono frange estremiste pronte a far sentire la loro voce ed ad intessere i loro proclami, facendo perno su di una crisi che esse stesse hanno contribuito non poco ad acuire per la loro opposizione ad ogni processo di riqualificazione industriale, normativa, politica e legislativa. Mandato in soffitta nel mondo della produzione, il salario come variabile indipendente si è trasferito nella Scuola trasformandosi in voto come variabile indipendente dal profitto. Ed è tuttora più che presente in ogni grado di scuola. I sei politici, o semplicemente ignavi , nonché le promozioni bulgare agli Esami di Stato negli Istituti d’Istruzione di 2° grado ne sono piena testimonianza. Al più alto grado, i giudizi nella Scuola Media rappresentavano la traduzione pratica dell’assenza di ogni meritocrazia, perchè non erano in grado di misurare oggettivamente i processi di apprendimento di ogni singolo alunno, e si declinavano all’interno di una scuola bonariamente intesa come luogo di una socializzazione percepita nella dimensione dello stare bene insieme: non dialogo all’interno della società nell’ambito delle competenze acquisite. Da ciò la Scuola come luogo in cui la sola presenza avrebbe dovuto garantire il Diploma: confondendo il diritto allo studio con quello alla promozione. A prescindere.

A modificare il sistema di valutazione degli studenti, è intervenuta la legge del 30 ottobre n. 169, varata dalla Gelmini. In essa, mettendo fine ad una vacanza durata decina di anni, in cui i docenti dovevano costruire vere e proprie architetture lessicali, per giustificare promozioni generalizzate, il Ministro afferma la centralità della misurazione espressa in voti decimali.

Ma la Gelmini è lontana anni luce dal conoscere i suoi insegnanti, alcuni dei quali ripagano un’istituzione, che sentono lontana , seguendo o il metro del buonismo, o quello dell’ignavia o quello dettato da una personale interpretazione della legge del contrappasso a causa di un salario avvertito come insultante. Perciò il minimo di meritocrazia, che la Gelmini avrebbe voluto sollecitare, viene spesso , seguendo le orme di un buonismo di maniera, che pare aver contagiato un po’ tutti, ( non siamo forse ad una forma di egemonia culturale di gramsciana memoria?) affidata ad un ipotetico senso di responsabilità dei docenti. E lo Stato, a fronte delle immense risorse messe in campo per assicurare il diritto allo studio, rinuncia, se si eccettuano le prove Invalsi, peraltro affidate ai medesimi professori degli stessi alunni, a qualsiasi verifica circa l’efficacia del processo educativo. Che in questo contesto diviene assolutamente autoreferenziale. Ma anche laddove è presente uno strumento di valutazione terzo, alludo agli Esami di Stato, le cose non vanno diversamente: prova ne siano le promozioni generalizzate.

Anche quando i docenti volessero svolgere il loro dovere, ne sarebbero dissuasi da agenti, che operano al di là di ogni buona intenzione : minaccia di dover ripetere le prove d’Esame nel mese di Agosto ed a proprie spese, nugolo di avvocati pronti a ricorrere per un punto e virgola omesso, e mille altre quisquilie del genere, a cui il Ministero pare che non abbia la capacità di voler mettere alcun argine. In sintesi essi sono programmati non per accertare profitto e competenze, ma per fornire un inutile titolo di studio ai richiedenti. Così come avviene ed avveniva nella Scuola Media. Ed anche quando nel muro di omertà che circonda scrutini ed Esami si dovesse levare una voce di dissenso, questa viene messa a tacere dal Consiglio di Classe o dalla Commissione: veri e propri Soviet inseriti nel seno dell’Istituzione, i quali, espropriando il singolo docente della propria valutazione, di fatto lo de professionalizzano. Ed in una Scuola, in cui non sono i professori a valutare ma organismi, il principio del merito viene rimesso alla loro composizione: gentiliani o ex di tutto. E’ il medesimo meccanismo che ha condannato i docenti delle Medie ad esser più badanti che professori. Infatti negli Istituti Superiori le valutazioni, perno della meritocrazia, dovrebbero essere dall’1 al 10. Ma se andiamo a verificare ci accorgiamo che esse vengono interpretate in maniera differenziata: a seconda dei singoli docenti. Come nei precedenti gradi d’istruzione, quando non operano docenti gentiliani, nelle Superiori ci troviamo in presenza di professori papà, prof.sse mamme, quelle per la pelliccia, ignavi, fannulloni, doppiolavoristi, sindacalisti, ex 68 ed ex di tutto ecc. ecc. Le pagelle sono la cartina di tornasole , che ci offre la misura del loro lavoro. In genere le loro valutazioni presentano un range che va dal 5 al sette, perché assumono come fondamentali indicatori l’interesse e la partecipazione, non il livello di profitto effettivamente conseguito. Così si spacciano i progressi per saperi, o peggio si piega l’ insegnamento alla realtà della classe: svilendo la qualità della professione e abbassando i livelli d’apprendimento dei meritevoli e dei capaci. Come dire: la selezione si fa decapitando l’eccellenza.

Tuttavia nella ristrutturazione delle industrie e nella gestione della macchina dello Stato, la Scuola assume una funzione di primo piano. Perciò alcuni ideologi hanno patrocinato la tesi circa l’obbligatorietà di questo modello di Scuola, fino al compimento della maggiore età, attraverso la frequenza nel sistema dei Licei o degli Istituti professionali. Ma la sua totale incongruenza è dimostrata dal numero molto alto di lavori , che restano scoperti nel gioco della domanda ed offerta. Nel Paese c’è una vera e propria distorsione nel mercato del lavoro: mentre molti diplomati o laureati restano inattivi per molti anni in attesa di una qualche occupazione, nel frattempo si verifica scarsità di personale specializzato in settori, che riguardano le attività artigianali ed industriali. Se lo Stato vuole continuare ad esercitare il proprio ruolo di armonizzatore, deve necessariamente ripensare, oltre al modello di sviluppo, anche a quello della Scuola, che ne è il necessario presupposto. Sul versante delle attività artigianali, si potrebbe pensare all’assolvimento dell’obbligo a 18 anni presso gli artigiani veri e propri a condizione che lo Stato o chi per esso delegato, penso alle Regioni, si assuma tutti gli oneri connessi: considerando l’apprendimento di un mestiere alla stregua di una Scuola vera e propria. Sarebbe ancora meglio una scuola dei mestieri, con docenti falegnami, muratori ecc. affiancati da quel tanto di geometria, fisica, ecc. applicata al loro lavoro. Senza orpelli aggiuntivi. Ma questo è soltanto un primo gradino, che ci vede attualmente perdenti perché nella nostra cultura prevale il totale disprezzo del lavoro manuale a favore di quello intellettuale: dimenticando che nel settore artigianale è la mente a comandare la mano, non viceversa. Nel Paese ci sono tali e tante professionalità che con una buona legge si potrebbe rapidamente coprire il gap. Ed offrire ai giovani nuove opportunità di lavoro. Ma dietro l’angolo c’è il vecchio sindacalismo abbarbicato al mito della fabbrica. Capisco : senza un docile operaismo verrebbe a mancare quella linfa, che ne garantisce l’esistenza: nonostante che le grandi corporazioni sindacali siano state superate dalla Storia.

La seconda questione è al contrario la cronica mancanza di diplomati dai Professionali e soprattutto dai Tecnici. Se si vuole competere nella qualità, giacchè nella quantità ciò è impossibile visto il basso costo della manodopera nei paesi emergenti, abbiamo bisogno di giovani la cui preparazione non sia piegata alle esigenze immediate dell’industria, (mutando le lavorazioni non sarebbero più riconvertibili), ma forniti di conoscenze e competenze tali da permettere loro di dialogare con mondo industriale nell’ambito di saperi consolidati che dovranno essere il punto di partenza di nuove conoscenze e nuove abilità.

Ma un Paese ha bisogno di una classe dirigente. Ed una classe dirigente preparata e motivata fa la differenza. Perciò la prima forma di selezione dovrà essere operata proprio dal sistema d’istruzione, non sulla base dell’appartenenza ad una classe sociale piuttosto che ad un’altra, ma sulla base della meritocrazia. A patto che a tutti vengano fornite le medesime opportunità.

In questo contesto la Scuola dovrebbe divenire il motore di una vera e propria mobilità sociale, favorendo l’ascesa delle classi meno abbienti nei posti chiave dello Stato e delle attività produttive. Le quali vi potrebbero trasferire tutta la loro carica tesa ad innovare ed a svecchiare. E’ certo: tutti trarrebbero vantaggi da un miglioramento della Scuola, perché più di ieri essa è diventata il punto nevralgico, dalla quale partire per creare più ricchezza. Non per altro le nuove sfide sull’energia, sulla produttività, sul benessere, si giocano nel campo dell’istruzione. Ed il Paese, che dovesse restare indietro, sarebbe condannato al sottosviluppo, alla decadenza in una sorta di neocolonialismo, di cui già da oggi vediamo i primi effetti.