06 Febbraio 2011
Fonti: Tullio Mascellari on line – Rivista Marittima
La ricostruzione strorica ha dell’incredibile sul come possa essere in parte illuminata da eventi del tutto accidentali che avvengono in altre parti del mondo 66 anni dopo con persone che appena si incontrano….
Tullio Mascellari: Perché ricordare la Nova Scotia
Sono passati sessantasei anni da quel giorno e il tempo ha il potere di affievolire e, successivamente, di cancellare i ricordi. Ognuno di noi, preso dalle proprie attività quotidiane, ripone nei cassetti reconditi della memoria gli avvenimenti che lo hanno colpito.
Molte persone ignorano i fatti che sono accaduti nel passato (non molto lontano in verità) che hanno coinvolto dei nostri connazionali durante l’ultimo conflitto mondiale. E’ il caso dell’affondamento del piroscafo inglese Nova Scotia avvenuto il 28 novembre 1942 nel Canale di Mozambico (Oceano Indiano) a seguito del siluramento da parte del sommergibile tedesco U-177.
Era una nave passeggeri che il Ministero della Guerra Inglese aveva adibito al trasporto e all’avvicendamento delle truppe della zona di operazioni in Africa Settentrionale e nel Medio Oriente. Percorreva la rotta che, partendo da Durban (Sud Africa) attraversava il canale di Mozambico, l’Oceano Indiano occidentale e risalendo il Mar Rosso, arrivava fino a Port Tewfik (Suez) e viceversa.
L’Africa Orientale Italiana (Somalia, Etiopia ed Eritrea, ex A.O.I.) era ormai caduta sotto l’occupazione militare inglese dal 27 novembre 1941, data della resa di Gondar, e le operazioni militari erano cessate in questa parte del continente.
Nella ex-colonia Eritrea molti prigionieri di guerra ed internati civili erano ammassati nei pochi campi di prigionia ivi esistenti, creando enormi problemi logistici alle autorità militari inglesi, che decisero di trasferirne un certo numero in Kenia, in India e in Sud Africa.
Per quest’ultima destinazione venne scelto il piroscafo Nova Scotia.. Durante uno dei suoi viaggi, partito da Port Tewfik fece scalo a Massaua il 14 novembre 1942, dove imbarcò circa 760 prigionieri di guerra ed internati civili per trasportarli a Durban, da dove avrebbero raggiunto i campi di prigionia. Tra l’equipaggio inglese, alcuni militari sudafricani che tornavano a casa in licenza natalizia e gli italiani, a bordo c’erano circa mille persone.
La mattina del 28 novembre 1942, quando era quasi alla fine del viaggio (avrebbe raggiunto Durban nel pomeriggio inoltrato), la nave fu colpita da tre siluri lanciati dall’U-177 e affondò in circa sette minuti. Persero la vita circa 860 persone, di cui 651 italiani. Sopravvissero circa 190 persone tra italiani, inglesi e sudafricani. In Sud Africa questo evento è stato ritenuto il più grave disastro navale della loro storia.
Al rientro in Italia mi nasce il desiderio di fare delle ricerche su quell’evento perché non cada nell’oblio. All’inizio non mi fu difficile procurare l’elenco delle vittime, ma mi sembrava poca cosa. C’erano tanti interrogativi a cui era necessario rispondere. Ecco allora la necessità di andare negli archivi, di interrogare i familiari delle vittime, persone informate dei fatti, navigare in internet per trovare e raggruppare notizie utili per potere scrivere un libro sull’accaduto.
Ci sono voluti quasi due anni e alla fine, a mie spese, ho pubblicato il libro. Ho voluto intitolarlo inchiesta perché mi sono limitato ad assemblare i fatti, i particolari, le testimonianze, i documenti, lasciando agli storici il commento sull’evento.
Dopo avere distribuito alcune decine di copie (il libro non si trova in libreria, ma lo spedisco personalmente) ho constatato che aveva fatto presa sui lettori e sono stato contattato da parenti delle vittime e dei sopravissuti, dei quali non conoscevo l’esistenza, In ultimo, cosa quasi inverosimile, anche da un membro dell’equipaggio inglese che vive in Canada. Considero quest’ultimo una preziosa fonte di informazioni che presto mi sono proposto di consultare. Sono certo che non è stata fatta ancora piena luce sull’affondamento della Nova Scotia: c’è ancora molto da indagare e da scoprire.
Se qualcuno fosse interessato al libro prego inviare una e-mail a: Tullio Mascellario telefonare al numero 0650911671 o al 3487655068. Tullio Mascellari Via Giuseppe Molteni, 279 00125 Roma – Italia
(fonte dell’immagine: betasom.it)
28 novembre 1942- una tragedia in mare
Tullio Mascellari – Nel mese di aprile 2008 è stato stampato il mio libro «28 novembre 1942- una tragedia in mare – Il piroscafo inglese NOVA SCOTIA – Inchiesta sull’affondamento». Come si evince dal titolo è un libro-inchiesta nel quale non mi sono limitato a riportare i fatti (ben 652 italiani morti nel naufragio), ma ho cercato anche di scoprirne le cause, i retroscena e quant’altro possa aiutare a ricostruire questo tragico evento quasi dimenticato dal grande pubblico, che gli asmarini dell’epoca hanno vissuto direttamente o indirettamente.
Il libro non è disponibile in libreria. Per acquistarlo: vaglia postale di € 18,50 (€ 16,00 + € 2,50 per spese di spedizione) indirizzato a Tullio Mascellari, Via Giuseppe Molteni 279 – 00125 – Roma, oppure: pagamento in contrassegno di € 20,00 (€16,00 + € 4,00 per spese di spedizione) E-mail: mascellari@yahoo.it
Sulla stessa tragedia della guerra sul mare è stato pubblicato anche ques’altro libro:
L’ONDA GRIDAVA FORTE – Il caso del Nova Scotia e di altro fuoco amico su civili italiani
Valeria Isacchini
Con una rigorosa documentazione storica, Valeria Isacchini ricostruisce le vicende dell’Arandora Star e del Nova Scotia, due navi inglesi cariche di civili italiani prigionieri che incontrarono sulla loro rotta i terribili U-Boote. Si descrivono il comportamento dei sommergibilisti tedeschi, la sorte dei naufraghi e dei sopravvissuti, i sorprendenti intrecci tra spionaggio e nazismo in Africa, e l’opera di padre Mosè, missionario cappuccino combattivo e patriottico, che lasciò ad Addi Qualà, in Eritrea, un documento straordinario che ha trasmesso ai posteri il ricordo di tanti italiani, morti per “fuoco amico”.
È uno studio su alcuni casi di “fuoco amico” che coinvolsero drammaticamente da una parte U-Boote tedeschi alla caccia di navi britanniche di trasporto truppe, e dall’altra civili italiani, che su quelli navi venivano trasportati verso campi di internamento.
“Internati”venivano chiamati, con un equilibrismo verbale per distinguerli dai “P.O.W.”, militari prigionieri di guerra. Per loro non c’era nessuna garanzia: il Diritto Internazionale, come puntualmente viene documentato nel testo, non prevedeva alcuna protezione per i civili. “Nessun articolo della Convenzione di Ginevra del 1907, né di quella del ‘29, in vigore durante la Seconda guerra mondiale, vieta l’internamento di civili per ragioni di guerra. Sembra che, semplicemente, ci si fosse dimenticati di loro.” Né si può lamentare, come molti dei precedenti studiosi hanno fatto, la mancanza del simbolo della Croce Rossa sui loro trasporti: la Croce Rossa poteva essere utilizzata solo ed esclusivamente su navi ospedali registrate internazionalmente.
Molti di questi nostri connazionali trovarono una morte atroce quando, mentre venivano inviati in campi di internamento in Canada sull’Arandora Star, ex splendida nave da crociera, trovarono sulla propria rotta il sommergibile tedesco U-47, che, ritenendola una nave trasporto truppe, la silurò, provocandone la fine quasi immediata. 805 morti, di cui 470 italiani, e ironia atroce, ben 243 tedeschi, connazionali del comandante Prien, che aveva ordinato il siluramento.
Ma il caso dell’Arandora non fu certo l’unico: il testo dedica spazio molto maggiore all’analisi di un caso simile, ancora più drammatico: quello del Nova Scotia, altro ex-piroscafo civile britannico che di solito costeggiava l’Africa per trasportare truppe fresche e feriti tra Suez e il Sudafrica. L’autrice studia accuratamente un quadrante bellico pressoché sconosciuto in Italia, nonostante la sua vitale importanza: quello dell’Oceano Indiano, su cui si affacciavano le principali colonie inglesi, nonché stati alleati . Proprio per questo in quelle acque si aggiravano i cosiddetti “ branchi di lupi”, gli U-Boote che dovevano impedire le comunicazioni britanniche.
Il 28 novembre 1942, però, il Nova Scotia aveva a bordo solo pochi soldati sudafricani ed inglesi. La gran massa era costituita da italiani fatti prigionieri in Eritrea, dopo la caduta del nostro “Impero” sul Mar Rosso, e che venivano portati a Durban, in Sudafrica. “Bisognava svuotare l’Eritrea, e sbrigarsi: comunque andasse la guerra, avrebbe avuto un dopoguerra, e meno italiani si fossero trovati lì in quel momento, meno l’Italia avrebbe potuto accampar diritti e primogeniture”, dice l’autrice, che ha rintracciato le storie personali di diversi di quegli imbarcati, grazie a documentazione di fonte sudafricana e mozambicana, a interviste con i parenti di vittime e sopravvissuti, a ricerche d’archivio.
Al largo della capitale del Mozambico, Lourenço Marques (oggi Maputo) la nave venne colpita dai siluri dell’U-177 comandato da Robert Gysae. E fu Gysae che, una volta verificato di avere colpito non dei soldati nemici, ma dei civili alleati, allertò il suo comandante superiore, Karl Doenitz; quello che poche settimane prima, in seguito al celebre disastro del Laconia (quando un U-Boot, mentre prestava soccorso a naufraghi civili inglesi e ad italiani, venne proditoriamente bombardato da un aereo americano) aveva emanato il celebre ordine “Triton Null”, per il quale venne processato a Norimberga: nessun aiuto ai naufraghi, “la guerra prima di tutto”.
Tuttavia, in quel caso il naufragio era avvenuto davanti alle coste del Mozambico, colonia del neutrale Portogallo. Da Berlino venne avvisata Lisbona, che allertò un proprio “aviso”, l’Afonso de Albuquerque, che si trovava nel porto di Lourenço Marques.
Il salvataggio fu però ostacolato dal mare agitato e, soprattutto, dalla terribile insidia degli squali, che, in numero eccezionale, sbranarono moltissimi dei naufraghi in quella che venne definita una sorta di “frenesia alimentare”. L Afonso de Albuquerque tornò in porto con 184 sopravvissuti. Ne erano morti 750, di cui 631 italiani.
Cosa è successo poi, di quei sopravvissuti? Mentre inglesi e sudafricani poterono facilmente raggiungere la vicina Repubblica Sudafricana, gli italiani rimasero per anni isolati in Mozambico, circondato da colonie e stati loro nemici; talvolta vi impiantarono attività e decisero di rimanervi anche dopo la fine del conflitto. Il testo documenta come Mozambico e Sudafrica fossero al centro di trame spionistiche che vedevano i boeri sudafricani, filonazisti, contrapporsi al governo della Repubblica Sudafricana, schierato con la Gran Bretagna. In Mozambico operavano spie degli opposti schieramenti, impegnate sia a intercettare il passaggio di imbarcazioni nell’Oceano Indiano, sia a cercare di annullare vicendevolmente le proprie azioni. E, sulla base di documentazione, l’autrice avanza un’inquietante ipotesi: L’U-177 non incontrò casualmente il Nova Scotia, ma venne inviato appositamente in quel quadratino d’oceano con il preciso compito di silurare quella nave che, secondo le informative dei servizi segreti filo-germanici, doveva trasportare centinaia di militari.
L’autrice ha ricostruito la tragica storia del Nova Scotia partendo dalla sua curiosità per un sorprendente elenco di nomi che trovò anni fa, inciso su una serie di lapidi nella chiesa di Addi Qualà; e così è risalita alla storia della tragica nave e quella di Padre Mosè, sorprendente figura di missionario cappuccino combattivo e patriottico.
Costo del volume € 17,00 , pp. 274, Mursia Editore – http://www.mursia.com/home.html