I capi da allevamento che contraggono il virus dell’alfa epizootica, una delle principali malattie infettive di ruminanti e suini, sono in grado di contagiare gli altri animali solo per un breve periodo, che dura meno di due giorni. La metà del tempo stimato finora. Non solo: la presenza del virus nel sangue non significa che l’animale sia infetto. Due motivi che rendono ingiustificata la soppressione in massa di tutto l’allevamento dopo la conferma della presenza dell’alfa epizootica nel sangue anche di un solo animale.
A sostenerlo è Bryan Charleston dell’Institute for Animal Health di Pirbright, uno dei massimi studiosi di questa malattia, che ha condotto per la prima volta uno studio sperimentale volto a misurare la frazione di trasmissione che avviene durante la sovrapposizione del periodo di incubazione (dall’esposizione alla comparsa dei sintomi) e del periodo di infettività (il momento in cui un animale è in grado di infettare gli altri).
Per farlo, i ricercatori hanno fatto confluire nello stesso recinto, per otto ore, vitellini sani con mucche affette da alfa epizootica (o FMDV, dall’inglese “foot and mouth disease virus”), per poi prelevarne dei campioni biologici, così da valutare l’infezione sia direttamente (tramite la presenza del virus) che indirettamente (monitorando la risposta immune). Gli animali sani venivano esposti all’infezione a intervalli di due giorni.
I ricercatori hanno riscontrato solo otto eventi di trasmissione in 28 tentativi, sebbene abbiano rilevato la presenza del virus nel sangue o nel fluido nasale di tutti gli animali eccetto uno. “Ciò significa – ha spiegato Charleston – che se il virus è presente nel sangue non vuol dire che l’animale sia infetto. Il problema è che oggi per misurare l’infettività si utilizza proprio l’esame del sangue: appena il virus viene identificato, si manda al macello tutto l’allevamento”.
La malattia, infatti, che si manifesta con febbre e lesioni sulla lingua e sulle zampe, è tra le più diffuse al mondo ed è responsabile ogni anno di enormi perdite in termini di bestiame, produzione e commercio. I nuovi dati dipingono ora, nel complesso, un quadro meno drammatico della rapidità con cui si diffonde il patogeno, sottolineando l’importanza di mettere a punto nuovi strumenti di diagnosi pre-clinica e nuove pratiche per la prevenzione e il controllo di questa e altre epidemie. In tutti i casi di infezioni acute – concludono gli studiosi – sarebbe molto importante capire più a fondo la relazione tra segni clinici e infettività. Riuscire a comprendere meglio i meccanismi che fanno scattare l’infezione e la malattia vorrebbe dire inaugurare una nuova fase nei metodi di controllo delle epidemie.