26 Luglio 2011
Enea Franza
Debiti & debiti. Ma che debiti!
E’ ora di uscire dall’Euro ?
Siamo sempre stati europeisti convnti assolutamente tra i primi e riconfermiamo che il processo unitario andrebbe rafforzato. – Ci chiediamo e chiediamo tuttaiva, nella realtà della galoppante crisi speculativa internazionale dovuta al liberismo sfrenato dei mercati finanziari e alle scelte improvvide di alcuni governi, se oggi conviene continuare oltre con l’esperienza dell’euro per come esso è stato creato. – Conviene contniare ad accettare i marchingegni che lo “utilizzano” o è giunto il momento di cominciare a ridiscutere su tutto?
Dopo oltre venti mesi da quando si è avuta la prima notizia della crisi della finanza pubblica della Grecia, i Paesi dell’Unione monetaria sembrano avere varato il 21 luglio 2011 una serie di interventi idonei ad allontanare il default del debito greco. Il piano prevedrebbe un intervento da 160 miliardi. La mancanza in sede comunitaria di un accordo sul debito greco in scadenza ha alimentato in questi mesi il gioco della speculazione. Il lungo periodo d’incertezza che è seguito alla dichiarazione greca delle forti difficoltà a ripagare i titoli pubblici in scadenza, è costata salata, in termini di maggior costo del rifinanziamento del debito in scadenza, per i Paesi dell’Euro in difficoltà, in particolare, per il Portogallo, Spagna, Irlanda ed Italia. Solo la gravità della situazione, palesatasi anche con l’attacco al debito italiano della prima e seconda settimana di luglio e le conseguenti pressioni della terza settimana di luglio sull’interbancario, hanno palesato l’impossibilità per la Francia e per la Germania di abbandonare la Grecia al suo destino.
Ma vediamo con calma di capire cosa sia in realtà successo in questi giorni. Chi avrà la pazienza di seguirci scoprirà che mai come in questo momento le debolezze della costruzione monetaria sono venute tutte alla luce. E’ emersa altresì evidente come non mai il peso caricato sulle spalle dei paesi che costituiscono gli anelli deboli della catena dell’Euro e la mancanza di una politica capace di opporre le ragioni di paesi come l’Italia, la Spagna ma anche la Grecia nei confronti della Francia e della Germania.
Per farlo partiamo con l’esaminare in primo luogo – certamente in maniera sintetica e grossolana – in cosa è consistito l’intesa raggiunta a Berlino il 21 luglio scorso. L’accordo ha introdotto modifiche nello statuto del Fondo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria (c.d. FESF). La crisi irlandese del novembre 2010[1], aveva spinto alla creazione di un meccanismo europeo di stabilizzazione (Mes) con funzioni simili ad una specie di Fmi europeo, con la possibilità d’intervenire nella soluzione di eventuali crisi del debito dei paesi dell’Eurozona. L’entrata in funzione di tale sistema basato sull’attuale FESF è però previsto dalla metà del 2013 e cosi anche la più ampia dotazione (di certo molto superiore ai 440 miliardi di quest’ultimo) con la previsione del coinvolgimento anche delle istituzione finanziarie private[2].
Le modifiche introdotte con l’accordo in discorso permettono al fondo di agire sulla base di un programma precauzionale, senza la necessaria preventiva autorizzazione dei Paesi Membri, e di intervenire sui mercati finanziari secondari. In particolare, tale seconda facoltà, che era vietata al Fondo nel precedente statuto, amplia l’intervento del fondo dal mercato delle Aste dei titoli pubblici al mercato dove sono trattati i titoli già in circolazione e che vi rimangono fino alla loro eventuale scadenza. Con tale riforma si precisa che sul mercato secondario possono dunque agire sia la Banca Centrale Europea, che si era fortemente opposta a tale intervento, sia appunto il Fondo. Il quale ultimo può effettuare, inoltre, un sostegno diretto sulle banche, ma solo per quelle che siano maggiormente esposte sul debito greco. Si è, inoltre, deciso per un intervento, in realtà lasciato alla volontà delle banche ma quantificato in circa 40 Miliardi di Euro di acquisto dei titoli pubblici greci in scadenza, con l’impegno dell’emittente ad allungarne la scadenza, ed si è data la possibilità allo Stato greco di riacquistare i propri titoli in circolazione ad un prezzo inferiore del nominale (per un importo di 13 Miliardi di Euro).
Per completezza, l’intesa raggiunta prevede anche il sostegno dell’economia greca attraverso lo sblocco dei fondi strutturali relativi al rilancio ed allo sviluppo già stanziati nel bilancio comunitario e congelati. Sono stati, invece, esclusi la possibilità di imporre una tassa europea (c.d. Eurotassa) per ripianare il debito greco da far pagare alle banche, osteggiatissima dalle banche pubbliche tedesche, e l’emissione di un Euro-Bond.
In estrema sintesi, le decisioni adottate impattano sul solo aspetto del debito greco, con l’obiettivo di allontanare il default del debito. Il sostegno sul debito si accompagna ad una politica di austerity del Paese che impone allo stesso un piano di riduzione del deficit pubblico.
La lunga vicenda delle politiche di austerity ha il suo epilogo la notte del 22 giugno. Il governo Papandreou-bis dopo una settimana di manifestazioni ottiene nella notte, con 155 voti a favore e 143 contrari (2 gli assenti), la fiducia del Parlamento. La storia comincia, tuttavia, assai prima.
Il primo ministro George Papandreou, eletto nell’autunno 2009, rivelò che l’esecutivo precedente aveva nascosto la reale entità del deficit di bilancio, schizzato al 12,7% del Pil. Nel giro di pochi mesi il debito del governo greco raggiunse i 300 miliardi di dollari e Papandreou, su spinta dell’Fmi (dove alla guida era il socialista ed amico personale Dominique Gaston André Strauss-Kahn), impone il taglio degli stipendi (anche ai privati) nell’ordine del 25-30%. La compressione economica ha riguardato tutta la forza lavoro. Da un lato è stata eliminata quella disparità economica difesa per anni strenuamente dai sindacati (un contabile pubblico guadagnava anche 2.500 euro contro il collega privato che ne intascava 1.000); ma dall’altro i greci (4,5 milioni la forza lavoro) si sono trovati tutti con le tasche vuote.
L’economia greca, costruita tutta attorno alla spesa pubblica, si è bloccata. E naturale pensare che se lo Stato smette di spendere e la gente resta senza soldi, si cessa di fare impresa e di consumare, peggiorando il deficit statale, anche per via delle minori entrate pubbliche da imposte dirette ed indirette e dell’aumento della spesa per i meccanismi automatici di disoccupazione.
Il primo intervento non ha fatto altro, pertanto, che peggiorare le cose e ha determinato la necessità di una ulteriore azione sul debito. Questa volta le condizioni poste dagli organismi internazionali, sono state quelle di un piano di rientro attraverso le privatizzazioni o la vendita di beni pubblici. Le privatizzazioni, decise dal governo Papandreu per un ammontare previsto di 50 miliardi di euro, prevedono la messa in vendita praticamente tutte le utility statali (acqua, luce, telecomunicazioni) già dal prossimo luglio, compresi i porti di Atene e Salonicco. In particolare, il governo di Atene punta a smobilitare entro l’anno il 16% della Hellenic organization of telecommunications (Ote), il 34% della Hellenic postbank e tra il 75 e il 100% dei porti di Pireo (lo sbocco a mare della capitale) e Salonicco, assicurandosi un introito compreso tra i 3,5 e i 5,5 miliardi di euro. Ma la polpa più succosa è attesa per il 2012, quando dovrebbe essere venduta un altro terzo di Ote e il 17% della società elettrica Power public corporation, per un introito da 6 miliardi di euro. Poi entro il 2015 via anche le società pubbliche di gestione delle acque delle maggiori città. Nel programma, viene anche prevista l’alienazione dei beni immobiliari dello Stato, tra cui il casinò di Atene.
Dall’altra parte della medaglia abbiamo Francia e Germania. Proprio su queste economie, ed in particolare sulla Germania, ci vengono immediate due riflessioni. La prima e che il miracolo tedesco è dovuto alle esportazioni e queste dipendono in parte dalla qualità, ma anche dal prezzo di vendita che regge sui più prossimi concorrenti. Il boom nelle componente delle transazioni con l’estero ha generato un incremento del Pil, per i primi sei mesi dell’anno, intorno al 5%. Ai tedeschi e alla stampa italiota, piace sottolineare come il miracolo tedesco sia da imputare alle politiche di rigore e di riorganizzazione produttiva seguite nell’ultimo decennio dalla Germania. Si sottolinea come la Germania (insieme all’Italia) è stato uno dei pochi Paesi dell’Occidente che hanno conservato una vocazione industriale e come i tedeschi abbiano stimolato gli investimenti in energie alternative e nella ricerca. Questa riorganizzazione è stata pagata, sostengono gli economisti, da un patto condiviso dai sindacati, imprenditori e Stato, che ha permesso un deciso taglio ai salari e il sostentamento, nelle more della riqualificazione produttiva, da parte dello stato con uno strumento simile alla cassa integrazione guadagni.
I soliti economisti, tuttavia, dimenticano che la riorganizzazione è potuta esserci anche con tassi d’interesse più alti di quelli praticati, ad esempio, dalla Banca americana (la Fed) e con una politica di cambio molto rigorosa che rafforzato l’Euro. Un cambio libero di fluttuare che riflettesse le condizioni di squilibrio tra la Germania e l’economie mediterranee (come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e la stessa Italia) favorirebbe indubbiamente le esportazioni dei paesi mediterranei e penalizzerebbe le industrie germaniche e anglosassoni.
E’ forse il momento di mettere sul piatto la solidarietà (a senso unico) della costruzione monetaria!
[1] Nel salvataggio dell’Irlanda, (decisa nel corso della riunione del 28 novembre 20109 l’U.E. è intervenuta con il via libera al piano da 85 miliardi di euro. Degli 85 miliardi che arriveranno a Dublino, a cui concorrono con quote uguali Fmi, Ue e Esfs (fondo salva-stati), 35 andranno
al sistema bancario. Il tasso è al 6%, quindi un po’ più alto del 5,2% previsto per la Grecia, e la durata del prestito pari a sette anni (fra l’altro è stata decisa anche una revisione delle scadenze dei prestiti ad Atene, che verranno presumibilmente allineate a quelle irlandesi).
[2] GRECIA. Fondi pensione pubblici: 30 miliardi. Banche commerciali e assicurazioni: Piraeus 9,4 miliardi, Efg 9, Ate 4,6, Alphabank 3,7, Poste elleniche 3,1, Marfin 2,3, Banca di Cipro 2. GERMANIA. Banche e assicurazioni: Fms 6,3 miliardi, Commezbank 2,9, Deutsche Bank 1,6, Lbbw 1,4, Allianz 1,3, Dz 1, Munich Re 700 milioni. FRANCIA. Banche e assiurazioni: Bnp 5 miliardi, Societe Generale 2,9, Groupama 2, Cnp 2, Axa 1,9, Bpce 1,2, Credit Agricole 600 milioni. LUSSEMBURGO. Dexia 3,5 miliardi. OLANDA. Ing 1,4 miliardi, Rabobank 600 milioni.
BELGIO. Ageas 1,2 miliardi, Kbc 600 milioni. REGNO UNITO. Hsbc 800 milioni. AUTRIA. Enrste Bank 700 milioni. ITALIA. Unicredit 800 milioni. Intesa SanPaolo 800 milioni, Generali 3 miliardi.
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