LA QUESTIONE DEL KASHMIR ALLA LUCE DEL RITIRO USA DALL’AFGHANISTAN
La regione himalayana del Jammu e Kashmir è il teatro di uno dei conflitti più longevi e cruenti di tutto il continente asiatico. Crocevia di tre paesi – Cina, India e Pakistan – con diverse concezioni geopolitiche e modelli di sviluppo, essa è da più di sessant’anni focolaio di scontri militari ed inter-etnici, derivanti dalle divisioni territoriali post-coloniali e da dispute sociali e religiose mai sopite.
La “questione del Kashmir”, che di per sé risulterebbe solamente uno dei tanti lasciti del post-colonialismo, assume invece un’importanza particolare in tema di lotta al terrorismo, che ivi prende forma di guerriglia fondamentalista, parastatale o nazionalista, di escalation militari, soprattutto nel campo della proliferazione nucleare, e più in generale è un punto di conversione delle potenziali crisi che potrebbero minare la stabilità del continente.
Il reciproco sospetto tra India e Pakistan ha alimentato la concorrenza tra i due paesi nella gestione del post conflitto in Afghanistan, ed il Kashmir rappresenta tutt’ora per i due contendenti un’arma d’indebolimento e destabilizzazione dell’avversario. L’India, uno Stato aconfessionale e multinazionale, non può avallare la possibilità di secessionismi su base etnica e religiosa; il Pakistan dal canto suo teme le ripercussioni di un eventuale abbandono delle pretese su un territorio a maggioranza musulmana, che comporterebbe tra l’altro l’ulteriore indebolimento del controllo sui movimenti terroristici islamici quali Lashkar-e-Taiba ed il fomento della ribellione interna.
Tutte le amministrazioni statunitensi che si sono succedute dal dopoguerra ad oggi non hanno dimostrato, almeno apparentemente, alcun interesse per la vicenda kashmira. Soprattutto agli esordi del conflitto afghano la questione continuava ad essere inquadrata come una disputa di frontiera tra India e Pakistan, e non una chiave di lettura utile per definire l’assetto politico del subcontinente indiano. La diversità degli attori coinvolti ed il bisogno di accontentare i propri partner per garantirne la funzionalità nell’ambito del conflitto afghano hanno finora tenuto le “mani legate” all’amministrazione Bush prima, e a quella Obama poi.
Il bisogno di una pacificazione ragionata dell’area nasce ora dall’avvicinarsi del ritiro delle prime truppe americane dall’Afghanistan, annunciato per luglio 2011, in un processo che secondo le stime NATO dovrebbe completarsi nel 2014. I lunghi tempi previsti offrono così alla Casa Bianca la possibilità di pianificare una strategia che punti a dirimere le controversie irrisolte e più marcatamente connesse alla stabilizzazione del continente, come quella kashmira.
Al vuoto di potere coercitivo lasciato dalle forze americane in Afghanistan dovrà infatti fare necessariamente seguito una più marcata assunzione di responsabilità da parte di India e Pakistan, rendendo quindi essenziale per Washington una loro cooperazione in campo militare, ma anche in temi di sicurezza e sviluppo economico. Al contrario, un conflitto a bassa intensità tra i due paesi asiatici, peraltro supportato da una già esistente guerra fredda tra le due potenze nucleari, avrebbe conseguenze devastanti sugli equilibri della regione.
Proprio in tale ottica il Kashmir può diventare nel breve periodo il banco di prova della sussidiarietà geopolitica richiesta dagli Stati Uniti ai suoi partner asiatici, anche e soprattutto ad una Cina finora troppo isolazionista a livello militare. Anche se, in questo caso, la vicinanza politica di Pechino a Islamabad e la cessione nel 1963 da parte del Pakistan di una porzione di territorio kashmiro rivendicato dall’India, non farebbe esattamente della Cina un “honest broker”. Se poi vi aggiungiamo il fatto che la ragion d’essere dei solidi rapporti sino-pakistani è proprio la latente ostilità fra i due colossi asiatici, le prospettive per un engagement diplomatico cinese non sono proprio rosee.
Il nodo del terrorismo sembra tuttavia essere al momento l’ostacolo maggiore alla risoluzione della controversia. Dopo tre guerre tra India e Pakistan, infatti, la minaccia nucleare ha portato alla fine degli scontri militari aperti tra questi due paesi, favorendo lo spostamento del confronto su un piano parastatale, e rafforzando di conseguenza i movimenti terroristici di matrice indipendentista e fondamentalista.
L’appoggio fornito dal servizio d’intelligence pakistano (ISI) ai responsabili degli attentati di Mumbai del 2008 ha gravemente inficiato la distensione in corso tra i due paesi, portando inoltre all’inasprimento del ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine di New Delhi nel Kashmir indiano. La protezione dell’ISI ha permesso inoltre l’installazione nel territorio disputato di importanti basi di addestramento della guerriglia fondamentalista poi impiegata in Afghanistan, imponendo alle forze della coalizione un prolungato dispendio di truppe e mezzi per arginare la resistenza talebana.
Da un punto di vista territoriale, non sembrano praticabili altre soluzioni se non quella di rendere la Line of Control, stabilita con il cessate il fuoco del 1972, la frontiera ufficiale tra i due paesi e la concessione di una maggiore autonomia da parte indiana allo stato di Jammu e Kashmir, ma tutto ciò renderebbe però necessario che la exit strategy statunitense dall’Afghanistan sia ufficialmente collegata alla questione del Kashmir, cosa alquanto improbabile viste le sensibilità indiane e il fiorire dei rapporti fra Washington e New Delhi.
Forse per la prima volta dal dopoguerra ad oggi i vari protagonisti della questione del Kashmir si trovano dunque di fronte alla necessità di giungere ad un compromesso, ed al bisogno di incanalare la vicenda in un processo di normalizzazione diplomatica. La cosiddetta “diplomazia del cricket”, inaugurata con la visita del primo ministro pakistano Gilani in India del marzo scorso, sembra andare in questa direzione, così come la nomina da parte di Karzai di uno dei suoi più fedeli collaboratori, Omar Daudzai, ad ambasciatore in Pakistan sembra un tentativo di voler legare indissolubilmente il destino dell’Afghanistan a quello di tale paese.
I prossimi mesi, soprattutto a partire dal fatidico luglio 2011, saranno dunque determinanti per capire gli sviluppi della vicenda kashmira, intimamente legata a quella afghana, e dunque ai nuovi equilibri geopolitici asiatici e mondiali.