Borse, è panico da recessione; e se a fallire fosse l’Europa?
«Il momento migliore per piantare un albero era vent’anni fa, ma se non l’hai fatto il momento migliore è adesso». Antico proverbio africano
Quella di ieri giovedì 18 agosto 2011 è stata una nuova giornata nera per le Borse di tutto il mondo. Ed i commenti del giorno dopo pronti a spiegare le ragioni dell’ennesimo tonfo che dall’inizio del mese sta falcidiando le borse di mezzo mondo non si sono fatti attendere. Questa volta, dicono i commentatori, a pesare sono le stime di Morgan Stanley sulla crescita, l’allarme della Fed sulle banche europee e gli ultimi dati Usa. Ma per il nostro premier Berlusconi il crollo delle Borse è dovuto all’effetto Tobin Tax. Altri, invece, sostengono che a innescare il crollo sui mercati europei sia stata la notizia che la Sociétè Genèrale (che in un solo giorno perde sul mercato di Parigi il 12%) abbia fatto richiesta di un enorme prestito di liquidità alle autorità monetarie. Cosi sintetizza la notizia, smentita con vigore dal colosso francese, l’IHT: “Crescono i timori che le banche europee siano a corto di liquidità”. Altri, infine, ritengono che le cause del crollo di ieri dei mercati vanno trovate nell’ostilità tedesca agli Eurobond che mina nel profondo la fiducia degli investitori nell’Euro. Chi ha ragione ?
Sta di fatto che le Borse europee hanno bruciato la bellezza di 298 mld. di euro, 20 soltanto a Milano. Cosi il Sole 24 Ore del venerdì 19 agosto, mettendo a segno il peggior crollo dal 2009. Questa volta anche Francoforte (-5,82%), Londra (-4,49%) e Madrid (-4,72%) hanno seguito Milano (-6,15%), maglia nera della seduta, male anche Wall Street. In particolare, quanto all’Italia, sono andati malissimo i bancari. Per completezza, si osserva che gli istituti di credito del Belpaese possiedono circa il 32% dei titoli di stato italiani (561 miliardi) e dunque, quando calano i prezzi dei Btp, scendono anche quelli delle banche che accusano perdite nel portafoglio titoli e gli industriali (in particolare la Fiat, con perdite a due cifre: -11,6% Fiat, -12,6% Industrial, -9% Exor), e l’oro su valori record. Il settore del credito è tra i più tartassati e non solo in Italia. I colossi Citigroup e Bank of America registrano pesanti perdite a Wall Street (tra il 6 e il 7%).
crollo generalizzato delle Borse non travolge i titoli di Stato italiani. I BTp, che il giorno successivo alla catastrofe aprono su quota 270 punti base nel confronto con i Bund tedeschi, di fatto allargando il differenziale di rendimento rispetto al decennale tedesco, ma, come si affrettano a confermare gli analisti finanziari: «non sono affondati, come accaduto in altre sedute di mercato». Lo spread BTp/Bund si è ampliato solo di una quindicina di punti base e viaggia intorno ai 288 centesimi, dopo aver toccato un massimo a 292 punti base. Insomma. una buona notizia.
Ma, nel caos generale che sta colpendo i mercati finanziari dell’Occidente e nel mancanza di una classe dirigente che in Occidente sia capace di una reale leadership, vediamo almeno di capire i danni che si stanno facendo a Bruxelles ed a Washington.
Diamo prima uno sguardo al vecchio continente.
Danno iniziale. La Commissione Europea ha confermato che a ottobre 2011, al massimo a novembre, prima dell’incontro del G20, sarà presentata una proposta per l’introduzione in tutta l’Europa della Tobin tax. Le previsioni parlano di un rendimento fra i 15 e i 20 mld. di Euro o addirittura fra i 30 e i 200. Sarà un’imposta ad ampio raggio, come richiesto da Sarkozy e Merkel. La Tobin tax riguarderà non solo i Paesi dell’Eurozona, ma tutti i 27 in quanto uno degli obiettivi è evitare discrepanze all’interno del mercato unico europeo. Il 29 agosto, all’Europarlamento convocato in sessione straordinaria per dibattere sulla crisi dell’Eurozona, saranno chiamati a parlare Junker, Trichet e Rehn su quella che la stampa titola già essere la “Tassa alla finanza”.
La Tobin Tax non è una idea nuova. Nell’idea del suo ideatore J. Tobin, economista e premio Nobel nel 1981, prevede di colpire tutte le transazioni sui mercati valutari, penalizzando le speculazioni a breve termine e, contemporaneamente, procurando dalle entrate le risorse da destinare alla spesa contro la povertà. L’idea dell’economista già dalla sua prima formulazione è stata molto criticata. Lo stesso Tobin evidenziò che, per funzionare correttamente, essa dovesse essere applicata da tutta la comunità internazionale. Infatti, solo una tassazione globale eviterebbe la fuga degli investitori e degli speculatori verso i mercati a tassazione più favorevole ed i fenomeni di arbitraggio per trarre beneficio dai differenti regimi fiscali dei vari Paesi. D’altro canto, le critiche sull’impatto che una tale imposta ha sul mercato non sono poche.
In molti ritengono che il solo risultato netto della Tobin Tax non sarà tanto quello di porre un freno alle speculazioni, che peraltro esistono da quando esistono i mercati, ma di contribuire ad uccidere e non spremere la mucca (dove la mucca da spremere è rappresentata dai guadagni enormi che generano delle transazioni borsistiche). Infatti, secondo i critici, una tassa del genere finisce per concentrare le contrattazioni nelle mani di pochi, capaci di resistere più tempo sul mercato, eliminando i piccoli trader che ricavano profitti dalle microvariazioni. Facciamo un esempio. Si consideri un’azione poco trattata, dove mancano i volumi di scambi necessari ad attrarre i trader più aggressivi; la funzione prezzo appare discontinua nel breve periodo, un susseguirsi di picchi e valli determinati dalla mancanza di offerte intermedie. In tali mercati, chi ha importanti capitali a disposizione può fare il bello e il cattivo tempo. La presenza, invece, di piccoli trader permette di aumentare la liquidità del mercato e quindi di fa affluire si una maggiore offerta che una corrispondente e più articolata domanda, ma con la Tobin Tax, i trader (che puntano a guadagnare anche pochi decimi di punto percentuale reinvestendo continuamente un capitale modesto) verranno di fatto costretti a cambiar lavoro; i loro utili non basterebbero a pagare una tassa per quanto bassa la si ponga. Risultato: nei mercati azionari così ripuliti si comprerà e venderà ai prezzi decisi dagli ignoti soliti noti (i grandi intermediari finanziari). Essendo questo il sentimento della comunità finanziaria, una presa di posizione cosi forte della Francia e della Germania non poteva lasciare indifferente i mercati. E ci stupisce che di questo Merkel-Sarkozy non ne fossero consapevoli.
Poi, ci sono stati i tre paracadute della politica monetaria europea, rilevatisi nei fatti inconsistenti. Ci riferiamo all’Efsf, agli Eurobond ed alla Bce. Ma andiamo con ordine. Il veicolo finanziario European Financial Stability Facility (da non confondersi con EFSM che è l’European Financial Stabilization Mechanism che mette a disposizione degli stati in difficoltà 60 miliardi di euro della Commissione europea, garantiti dal budget dell’Unione europea), acronimo EFSF, è una società basata in Lussemburgo fondata dai 16 stati membri dell’eurozona. È essenzialmente un emittente di obbligazioni. La raccolta tramite il collocamento sui mercati internazionali degli EFSF-bond viene utilizzata unicamente per aiutare temporaneamente gli Stati dell’eurozona in difficoltà. L’aiuto consiste nell’erogazione di un prestito allo stato che lo richiede: l’obiettivo è preservare la stabilità finanziaria dell’unione monetaria.
Bene, la sua costituzione fu salutata entusiasticamente. Nel lontano novembre del 2010, così Klaus Regling, il numero uno del veicolo EFSF, ebbe a dichiare alla stampa internazionale allora timorosa per la crisi del debito greco: «Siamo operativi già da un po’ di tempo», disse, aggiungendo poi di essere già in contatto con investitori istituzionali in tutto il mondo, potenziali acquirenti di queste nuove obbligazioni: «L’interesse per i nostri bond è molto diffuso – ha assicurato – e abbiamo domanda potenziale importante dall’Asia». Questo sondaggio della domanda di mercato ha reso Regling fiducioso sulla capacità di raccolta dell’EFSF che sarebbe in grado di raccogliere, fu sempre lui a sostenerlo, «somme consistenti». Il fatto è che l’organismo non è decollato e la voragine che si è aperta nei debiti degli Stati sovrani dell’Eurozona ha dimostrato che, per quanti fondi questo Istituto possa raccogliere, la speculazione è capace di superare tale limite. Di contro, sia dall’Ue che da diversi Paesi europei sono arrivati tanti no all’ampliamento della dotazione del fondo Efsf che prima o poi dovrà subentrare all’istituto di Francoforte nel difficile compito di comprare i titoli di Stato.
Infine, anche le opinioni sul ruolo della Bce aumentano le incertezze sulle sue capacità di intervento e sul reale contributo che essa possa contribuire a salvare gli Stati in difficoltà a costo quasi zero. Sebbene la Bce nel corso del mese di agosto prosegue nella sua opera di sostegno ai titoli di Stato di Italia e Spagna e tiene sotto controllo lo spread verso il bund tedesco, da Bruxelles e anche da Francia e Germania si sbarra la strada a un ampliamento della dotazione del fondo europeo salva stati Efsf. Già dai primi scambi di mercato gli operatori hanno segnalato acquisti di titoli di stato di Roma e Madrid da parte dell’istituto centrale di Francoforte. Un’azione che ha contribuito a tenere, nei giorni più acuti della crisi, lo spread fra i Btp e i Bund tedeschi sotto controllo, anche scontando il dato sul rallentamento del Pil della Germania.
Anche sugli Eurobond si è troppo cianciato. Lanciati dal ministro dell’economia Giulio Tremonti del Paese più indebitato dell’Eurozona hanno ingenerato una forte aspettativa tra tutti i Paesi in crisi e con forte esposizione sul debito pubblico. Ma, forte è stato l’opposizione della Bce, subito raccolta dalla Germania. Jurgen Stark, membro del comitato esecutivo della Bce, ha provveduto più volte e con veemenza a mettere in guardia contro l’introduzione degli Eurobond. Secondo il banchiere tedesco, ciò non rappresenterebbe la soluzione e darebbe gli incentivi sbagliati. Detto in altre parole, si teme che accentrando l’emissione del debito si possa lanciare un messaggio sbagliato ai governi nazionali, nella direzione di un minore rigore nel controllo della spesa e nella dinamica dell’indebitamento. In altre parole ancora più chiare, sono contrari tutti gli Stati con la tripla A che godono di rendimenti molto bassi sui mercati finanziari, per i loro bond. Con una emissione comune, essi si dovrebbero sobbarcare il maggiore costo di emissione, calcolato in 47 miliardi all’anno per la sola Germania.
Insomma, una serie di errori a cui non si sottrae neppure l’America di Obama. Le politiche economiche messe in campo dal presidente non hanno sortito l’effetto desiderato. Le notizie provenienti da oltre oceano smentiscono le previsioni di una sostanziosa crescita del Pil e sono tutte negative: il Pil a stelle e strisce viaggia poco sopra l’1%, un livello davvero insufficiente a ridurre un tasso di disoccupazione superiore al 9%. L’indice che misura il livello dell’attività manifatturiera, peraltro, è sceso a 50,9 punti nel mese di luglio, e si trova appena 0,9 punti sopra il limite dei 50 punti: sotto, inizia la contrazione. Il deficit federale, invece, non sembra diminuire, anche se nel caso appunto degli Usa il costo del finanziamento del debito pubblico è addirittura sceso. Ad agosto 2011, il Treasury a 10 anni rende il 2,82%, sui minimi del 2011, e ad inizio anno si viaggiava al 3,22%. Sul punto va detto, tuttavia, che non ha giovato all’immagine degli USA la lunga negoziazione, conclusasi solo con la votazione del 1° agosto del congresso Usa, sull’innalzamento del tetto del debito pubblico federale. L’esito di tale votazione era dall’inizio necessitata per evitare la sospensione dei pagamenti da parte del Tesoro Usa e, dunque, un’ insolvenza tecnica. L’accordo alza il tetto del debito, fissato inizialmente a 14.300 miliardi di dollari, di altri 2.100 miliardi, una cifra sufficiente per arrivare al 2013. Si prevede anche un taglio delle spese di 2.500 miliardi. Eppure, una commedia lunghissima è stata recitata di fronte al pubblico mondiale. Da una parte, i fautori del taglio delle spese e, dall’altro, i sostenitori dello stato sociale. Una recita, appunto. Ma grave di conseguenze, che non mancheranno di evidenziarsi nelle prossime settimane.
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