Un’Italia declassata: “La perfida Albione” colpisce ancora ?
All’una di notte del 20 settembre u.s., la società di rating S&P, anticipando la sua concorrente Moody’s, declassa l’Italia. L’ abbassamento del rating, emesso dalle società di revisione sulla capacità di ripagare il debito sovrano, era una mossa attesa da tempo dai mercati finanziari, ma l’impatto sulla stampa italiana è enorme. La società “S&P taglia il rating dell’Italia”, titolano all’unisono, il Sole 24 Ore e la Stampa in prima pagina.
La tempesta sul debito italiano – nel passato sempre ritenuto tra gli investimenti più affidabili del mondo – non sembra placarsi. Anche Moody’s, altra società di rating americana, intanto, fa sapere di aver messo nel mirino, sotto osservazione il debito di comuni e regioni d’Italia: “Sugli enti locali un intervento depressivo” titolano, facendo eco all’agenzia di rating, il Sole 24 ore di martedì e la Repubblica. A rischiare di più sono gli enti che fino ad oggi hanno avuto i rating migliori, che secondo la filosofia di Moody’s non possono stare sopra il livello del debito sovrano italiano. E pochi giorni dopo, dalle minacce seguono i fatti. Anche Moody’s abbasserà il rating e a fine mese seguirà anche la società di revisione Ficht, che assieme alle altre due agenzie ha il monopolio mondiale della revisione.
Standard & Poor’s ha come socio dominante la Mc Graw Hill e tra gli altri soci troviamo la Capital Word Investors, con il 7% complessivo della proprietà, società che ritroviamo anche tra i soci di Moody’s. Quest’ultima, a sua volta, è in mano a questi grandi fondi di investimento USA: Berkshire Hataway (il 13,4% della proprietà), Fidelity Management e Capital Research (ciascuna il 10%), Black Rock, State Street e Vanguard (ciascuna il 3% circa). Fitch Ratings, infine, appartiene al gruppo francese Fimalac ed al gruppo editoriale statunitense Hearst.
La giustificazione dell’arretramento nel giudizio sul debito italiano, c’è già tutto in sintesi nel comunicato al mercato reso il 20 settembre da S&P, ovvero, “I motivi: la fragilità di governo (il riferimento è al governo Berlusconi) limita la capacità di risposta alla crisi, la crescita è debole”.
Il declassamento, va da sé, avrà un impatto non trascurabile sui nuovi finanziamenti ed a farne le spese sarà lo Stato Italiano che si troverà a dover sostenere maggiori costi a rinnovare le tranche in scadenza che si concentrano nell’autunno del 2011 e nella prossima primavera. Se non sarà un altro bagno di sangue c’è da scommettere che molto ci avvicineremo …
Ma poteva essere diversamente ? Alcuni politologi ben informati ritengono che, invece, la svalutazione del debito italiano non abbia fondamenti reali, ma che in realtà le vere ragioni risiedano in un complotto ai danni della vecchia Europa, di cui in particolare il nostro Paese viene a pagare un costo altissimo, per via dell’enorme peso che ha negli attivi delle banche italiane e delle maggiori banche francesi e tedesche. Per cui, una svalutazione del nostro debito significa colpire oltre che l’Italia le banche di questi due Paesi, e per tale via, l’intera costruzione dell’Euro.
A metà seicento, in un sermone a Metz sulla circoncisione, il vescovo Bossuet, ebbe a dire: « L’Angleterre, ah la perfide Angleterre, que le rempart de ses mers rendoit inaccessible aux Romains, la foi du Sauveur y est abordée. » (1653 spéc. la perfide Angleterre (BOSSUET, Premier sermon pour la fête de la circoncision de N. S. prêché à Metz ds Œuvres, Versailles, 1816, t. 11, p. 469), confinando per sempre nella storia il mito di un Paese abitato da gente cattiva e malvagia. O ,per dirla diversamente, la colpa è tutta della “nazione di bottegai” (come la definì Napoleone Bonaparte), che dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, ha esteso la sua supremazia culturale sul vecchio continente (salvo ora che con la costruzione europea sta perdendo terreno? ). Oggi questo Paese sarebbe da identificare con quello che si estende lungo le coste dell’Atlantico settentrionale e che ha per bandiera le stelle su fondo blu e le strisce rosse e bianche. Quantomeno, come nel caso della precedente e originaria “perfida Albione”, non il suo popolo tout court ma le sue élite economico-finanziarie e, a ruota,in uno spirito impotente o perfino gregario e connivente, le sue rappresentanze politiche e istituzionali, che si beffano della stesso spirito di libertà e di rispetto che sta a simbolo e guida della loro nazione, assieme a quello dell’onesta intraprendenza economica. All’estremo opposto ci sono coloro che, invece, sostengono che non è colpa certo delle agenzie di rating se le cose vanno così male. Esse, in effetti, analizzando e dando voti a titoli fanno semplicemente il loro mestiere e, anzi, si tratta di un mestiere benemerito, che tutela i creditori, soprattutto quelli europei. In ballo ci sono i soldi, direttamente o indirettamente, dei risparmiatori, quelli per il pagamento delle pensioni (negli Stati Uniti), ed è bene che tutti sappiano il rischio che si corre acquistando questo o quel tipo di titoli.
Ma chi ha ragione in questa diatriba?
Non possiamo avvicinarci affatto a dare una risposta se prima non rispondiamo a quest’altro quesito: cosa sono queste agenzie, che cosa fanno, chi le gestisce, quali interessi specifici eventuali e ulteriori sono propri a ciascuna di esse, se ce ne sono o se almeno è possibile individuarli con una qualche certa sicurezza alla luce del sole o di risultati investigativi di giornalisti esperti, coraggiosi e non condizionati?
Vediamo di far luce sulla questione. Dapprima vediamo meglio che cos’è il rating. Rinviando alle considerazioni già svolte nel mio libro “Crack Finanziario “ (Edizione Pagine, 2009), mi limito qui ad evidenziare che si tratta di un metodo di analisi e di classificazione, da parte di analisti professionisti, che porta ad un voto da parte di un comitato di esperti ancora più qualificati che svolgono, tale attività ai titoli di imprese, istituzioni finanziarie, soggetti pubblici (tra i quali gli Stati) sulla base della loro rischiosità per quanti li acquistino: risparmiatori o “investitori istituzionali”, il che significa compresa ogni sorta possibile di speculatori che da sempre operano in borsa. Di norma i titoli emessi da uno Stato sono titoli sul debito, servono cioè a rinnovarlo, evitando quindi crisi di insolvenza. Questo voto è espresso in lettere e altri segni. Più alto è il voto, più affidabile è il titolo a cui è stato assegnato, e viceversa.
La sua assegnazione porta quindi, per via di mercato, alla definizione di un “premio di rischio” più o meno elevato: i titoli con i voti migliori comporteranno un premio di rischio basso, e viceversa. I titoli “sovrani” di Germania, Stati Uniti (in ultimo, meno di prima) e Cina, disponendo di un voto elevato, offrono agli acquirenti un premio basso (in compenso non comportano rischi significativi di perdita di valore e ancor meno di insolvenza); viceversa per quanto riguarda i titoli di Grecia e Portogallo.
Nel caso del declassamento del debito italiano, il debito a breve passa da A+ ad A ed il debito a lungo termine da A-1+ ad AA-1. In parole semplici, ciò determina un maggior costo di interessi per finanziare il deficit dello Stato attraverso la vendita di nuovi stock di bot e cct. Concretamente questo significa, per esempio, che se il premio di rischio di Grecia e Portogallo si pone al 10% del valore dei titoli emessi, essi saranno dunque venduti al 90% del loro valore, quindi che quando questi titoli verranno a scadenza e gli acquirenti saranno rimborsati questi paesi dovranno esborsare il 10% di più di quanto a suo tempo incassato. Se, inoltre, il voto assegnato ai titoli di questi Paesi è “declassato”, cioè abbassato, questo significa che le loro emissioni di titoli riescono a essere vendute solo portando il premio a oltre il 10% (sarà il mercato a decidere quanto oltre, ovvero la richiesta di acquisto: in parole crude,attraverso le “voci” e le amplificazioni del mondo della finanza internazionale e della stampa, la “richiesta” dei soliti grandi speculatori di volere indici di interesse sempre più elevati a causa del rischio … determina un avvitamento pericoloso che può provocare una condizione di reale strozzamento delle possibilità finanziari di questi Stati di assolvere ed onerare – nelle dinamiche temporali e dei meccanismi interni di rincorsa così messi in opera – il pagamento dei titoli collocati nel mercato al momento della loro scadenza).
L’attività delle società di rating, nella validazione dell’affidabilità di un debito sovrano, si basa su metodologie utilizzate dalla comunità finanziaria internazionale. Come lavorano queste società? L’analisi delle varie emissioni di titoli (quindi della situazione di imprese, banche, amministrazioni locali, Stati, ecc., dal punto di vista dell’andamento delle loro situazioni finanziarie: delle entrate, dei patrimonio, del debito, della solvibilità ecc.) è un lavoro di una certa complessità e onerosità. I parametri che sono impiegati dalla società S&P (ed i cultori della materia mi perdoneranno lo sforzo di sintesi) non sono molto differenti da quelli usati dagli altri concorrenti. Le agenzie di rating fondamentali, che abbiamo già citato anche in relazione parziale alle loro co-partcipazioni azionaria,, sono solo tre: due statunitensi, Standard & Poor’s (il 40% circa del fatturato totale) Moody’s (un altro 40% circa), e una statunitense-europea, Fitch Ratings (il rimanente 20% circa). Le aree di analisi comprendono: il rischio politico, inteso come la capacità di portare a termine le azioni da fare per governare l’economia del paese; la struttura economica del Paese, in particolare, la vocazione manifatturiera o meno, l’apertura al commercio estero ecc; la liquidità interna e la posizione verso l’estero; il debito, visto sia sotto l’aspetto dell’andamento nel tempo che della flessibilità fiscale. Ci rendiamo conto quindi della enorme complessità di una metodologia che deve implicare processi di affinamento continuo relativi alla acquisizione dei dati e alla loro lavorazione in modo neutro, ossia scevro dalla possibilità di inserire “variabili” estranee rispondenti a finalità distorsive delle procedure applicate e dei risultati del giudizio in funzione di più o meno occulti interessi di soggetti che operano nelle attività di investimento, disinvestimento e profitto finanziario. Nel merito, come abbiamo visto, la storia e la cronaca più recenti non mancano di riferimenti estremamente scandalosi e illuminanti al tempo stesso.
C’è chi obietta che le analisi e le valutazioni che fanno, in particolare, sui titoli degli Stati, perciò, sono viziati in quanto le società di rating hanno convenienza a dare un giudizio basso sull’affidabilità dato che questo comporta per l’acquirente di tali prodotti (fondo pensione, istituzione finanziaria, ecc) un prezzo minore di acquisto (o, che la stessa cosa, un interesse percepito dall’emittente maggiore). L’obiezione ha un certo fondamento se è vero, com’è vero che tali società sono chiamate spesso dalle banche d’affari,dalle assicurazioni e dai Fondi d’investimento e dai Fondi pensione ecc a dare giudizi sull’affidabilità delle emissioni pubbliche. Le stesse aziende, poi, ricevono rating generalmente molto alti sulle loro emissioni: cosi i loro titoli sono molto cari, mentre quelli che di solito esse acquistano sono ottenuti a prezzi stracciati. Insomma, queste società di rating o di valutazione quale grado di oggettività metodologica possono realmente mettere in pratica se sono direttamente coinvolte nei processi finanziari che dovrebbero soltanto misurare in maniera terza? A quali criteri di indagine oggettiva esse stesse sono in grado di sottoporsi? Ripeterci nella sottolineatura di queste problematiche è estremamente importante, come il rimarcare la necessità oramai impellente di cercare di individuare – e come è possibile – e descrivere e denunciare e il limite e l’intreccio della matassa tra “convenienza” e “connivenza” in operazioni di così grande importanza in cui sono in gioco le risorse finanziarie di interi popoli.
Molti Stati non sono rimasti indifferenti sul punto anche perché, nel recente passato, non sono mancati episodi in cui il comportamento delle Società di rating ha suggerito addirittura l’ipotesi di violazioni penali. La Procura di Lisbona, ad esempio, ha avviato una causa per pratiche abusive nei confronti delle tre grandi società di rating. In particolare, sarebbero contestati reati come “l’aggiotaggio”, (ovvero per aver provocato sia il rialzo che il ribasso in modo fraudolento di prezzi, sul mercato o in borsa) e “l’insider trading” (un reato connesso ad un’operazione su titoli da parte di un soggetto in grado di utilizzare una posizione vantaggiosa nell’accesso a informazioni riservate che li riguardino).
Molte autorità di controllo dei mercati finanziari (cosi come la nostra Consob) si sono allertate e aprono fascicoli sulle motivazioni che hanno condotto le società di rating ai recenti downgreting. Neanche nella patria d’origine le “c.d. tre sorelle” godono di una vita più serena. Un’apposita Commissione del Senato degli Stati Uniti ha aperto un’indagine sulle attività speculative illegali delle banche di affari nel periodo antecedente la crisi finanziaria del 2008 e, recentemente, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’affari statunitensi, è stata accusata di aver mentito ai risparmiatori circa la solidità delle sue attività finanziarie, in combutta con l’agenzia di rating Standard & Poor’s. l’agenzia che ha appunto declassato la credibilità dei titoli italiani, laddove è stato sempre direttamente sperimentato da tutti i tipi di investitori, anche in questi mesi di accentuata e pilotata “crisi speculativa”, che l’Italia è stata sempre in grado di onerare totalmente ogni scadenza finanziaria che riguarda le attività di collocazione del debito pubblico.
Date le premesse, si può dubitare di tutto, ma forse è bene riflettere sul fatto che è proprio il sistema che non regge. In primis, l’idea che sia gestibile sul piano temporale in maniera illimitata un siffatto sistema finanziario internazionale. Nella realtà che abbiamo tutti sotto gli occhio,oggi particolarmente in Europa,ma che nei modi e nei tempi più diversi ha investito molte aree geografiche, come è possibile che un corpo di regole astratte, che dovrebbe essere capace di sintetizzare il tutto il complesso mondo delle aziende, dell’economia e degli Stati e delle variabili in gioco,possa essere tranquillamente demandato, a delle società che vogliono continuare a rispondere ciascuna a se stessa? Quale credibilità intrinseca può continuare ad avere un tale modello entrato fatalmente in crisi negli USA nel 2008? Come è possibile che i governanti anglosassoni di USA e Regno Unito risultino ancora nei fatti, e talora anche sulle posizioni teoriche, arroccati più di tutti gli altri nella difesa un sistema valutativo fortemente compromesso perché non è stato in grado di individuare per tempo né dopo i responsabili di perduranti trucchi di borsa ed è stato così partecipe – direttamente o meno – nel produrre e nell’arrecare disastri finanziari e stagnazioni e depressioni economiche non meno colossali ovunque?
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