Disilludetevi, niente “operazione nostalgia”. La melodica canzone con la quale una bellissima Marisa Del Frate ventiseienne incantò il pubblico partenopeo cinquantatre anni fa, non c’entra. La radice della melancolia nasce, piuttosto, dalla constatazione tutta attuale degli effetti nefasti che una concezione totalitaria dell’economia, di cui scrivemmo su queste pagine nell’aprile 2010, sta generando all’interno della crisi. Crisi, sia chiaro, che non è solo economica, ma totale:
– Crisi di conoscenza dovuta al peccato originale della modernità. Dopo aver generato il settorialismo delle discipline con conseguente perdita dell’unità della coscienza, è sfociata nel relativismo culturale precipitando nel baratro del nichilismo. L’università ne è l’espressione più evidente ed i laureati che licenzia delineano, inconsapevolmente, un quadro drammatico di impreparazione generale ed incapacità decisionale individuale;
– Crisi economica assai più grave di quella settoriale che stiamo vivendo. Perdura, infatti, l’equivoco circa il ruolo dei diversi protagonisti del processo economico (imprenditore, capitale, lavoro, mercato). Il conflitto interno tra gli stessi, non risolto, risulta foriero di pericolose distorsioni del normale processo ciclico dell’economia;
– Crisi etico-politica innescata dal totalitarismo economicista che priva del ruolo decisionale la categoria politica nullificandone i valori di riferimento già messi in dubbio dal relativismo e dal nichilismo. La naturale conseguenza è la proletarizzazione dell’uomo da cui, in estremo, sorge il barbaro artificiale, il prodotto di massa delle nostre metropoli – antitetico al cives – che traduce in atti devastanti la consapevolezza elitaria secondo cui “tutto è uguale a nulla” essendo tutto annientabile dall’arbitrio di una distorta volontà di potenza;
– Crisi estetica ovvero della capacità di comprendere e studiare il mondo della forma. In altre parole: crisi della capacità dell’uomo di creare e costruire il mondo, il proprio habitat, nella complessità dei rapporti, delle interrelazioni che legano l’uomo all’ambiente.
Se vogliamo, come vogliamo, << batterci per il nuovo che verrà >>, per dirla con il Franco Iappelli de il Borghese di agosto-settembre rielaborando una Visione del Mondo come condizione pre-politica, come auspicato da Gianfranco De Turris “Nel Deserto della Destra” del mese scorso, occorrerà – in primo luogo – superare la concezione totalitaria dell’economia di cui sopra.
Torniamo alla radice della malinconia di cui in apertura. L’autunno ancora in corso è stato caratterizzato da eventi particolarmente significativi. Alcuni di questi, che investono temi affrontati in precedenti articoli de il Borghese, esaminati con un po’ di buonsenso, compongono un quadro desolante: – Il 14-15 settembre a Genova si è tenuta la IX Biennale delle città e degli urbanisti europei organizzata dall’INU (Istituto Nazionale Urbanistica) con il titolo “Smart planning per le città gateway” in Europa; – il 20 settembre la società di rating Standard & Poor’s esce allo scoperto. Anticipando la sua “concorrente” Moody’s declassa l’Italia; – il 29 settembre, durante l’assemblea dell’ANCE (Ass. Naz.le Costruttori), viene contestato con accesa violenza verbale il ministro Altero Matteoli; – il 30 settembre l’osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del territorio, ente pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze, rende noto che il mercato immobiliare è in piena crisi: le compravendite di immobili hanno registrato un calo del -5.6%. Il peggiore dal 2004. Dal 2006 al 2010 il calo è stato costante: quasi il 30%.
Qual’è la logica che sta dietro questi eventi così diversi ed apparentemente slegati fra loro? La risposta è: la geopolitica condizionata dal totalitarismo economicista.
Consideriamo il declassamento dell’Italia del 20 settembre. Ê’ stato l’ultimo atto, prima dell’annuncio di Moody’s, della guerra di aggressione che la finanza internazionale di matrice americana, inserendosi come un cuneo nel solco scavato dalla Germania, ha scatenato contro l’Europa con l’occulto intento di scalzare il blocco dell’euro. Infatti la Deutsche Bank, a luglio, aveva annunciato di aver venduto 7 degli 8 miliardi di Bot italiani che deteneva spingendo l’Italia ai margini dell’euro.
Comprensibile, ancorchè esecrabile l’attacco geofinanziario del capitalismo selvaggio che da sempre gioca la partita del divide et impera nei confronti dell’Europa, ma qual’era il senso della manovra tedesca così palesemente antieuropea?
La inqualificabile Merkel, caduta nella trappola, si è giustificata affermando: <<Abbiamo tutelato i nostri interessi nazionali>>. Con ciò dimostrando come, nella miopia della sua visione geopolitica, per lei l’Europa non fosse l’organismo di grado superiore atto a realizzare la sintesi di molteplici aspetti di un’unica civiltà europea, ma solo un mezzo per perseguire l’egemonia economica tedesca a scapito degli altri membri della UE. Soprattutto dei tanto disprezzati PIGS (porci in inglese). [Ê’ l’acronimo dei paesi mediterranei: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna]. Perseguendo tale disegno, palese nelle vicende europee recenti, la Germania mira ad imporre agli Stati mediterranei, tramite la BCE, manovre deflattive foriere di impoverimento e disoccupazione e l’apertura di una partita su quelli che vengono definiti gli asset, ovvero le attività patrimoniali. Ricordate la boutade finlandese – ma non troppo – della cessione del Partenone come contropartita per l’aiuto dell’Europa (leggi Germania)? Quel che si vorrebbe imporre all’Italia, messa in difficoltà da Standard & Poor’s e Moody’s, altro non è che una riedizione del Britannia dove si attuò la svendita prodiana delle nostre industrie pubbliche e parapubbliche. Del resto, non è un mistero per alcuno come, sin dal 2009, la Direzione generale per il Mercato interno del commissario francese Barnier avesse lanciato una procedura d’infrazione contro la normativa sulla golden share che fino ad oggi ha protetto Eni, Enel, Snam, Finmeccanica, Telecom e gli altri “gioielli di famiglia” da scalate ostili in borsa.
Come nel gioco degli scacchi, ogni mossa è preludio di altre mosse: così nella politica finanziaria, nei modi più crudi e più cinici. Il fine di questo sporco gioco geofinanziario è quello di ridurre l’Italia ad “un calzino cucito alle Alpi e perso a bagno nell’acqua del Mediterraneo”, come avemmo modo di scrivere su queste pagine in agosto-settembre.
A che pro?
Un’Italia protesa com’è nel Mediterraneo, qualora fosse adeguatamente infrastrutturata, diventerebbe il naturale hub energetico continentale nullificando il disegno di consolidare i megadepositi di Baumgarten (Austria) e Katrina (Germania), il ruolo svolto dagli approdi olandesi e tedeschi, con la connessa borsa degli idrocarburi che tratterebbe i prezzi in euro e che la Germania vorrebbe gestire in compartecipazione con la russa Gazprom. E’ uno degli aspetti della famosa politica continentale basata sull’asse Mosca-Berlino e sulla guerra dei gasdotti ed oleodotti, il controllo dei quali assicurerebbe un enorme potere geoeconomico.non coincidono con quelle dell’area anglosassone ma non meno di queste puntano all’emarginazione e alla subalternità dell’Europa mediterranea, la quale ha indubbiamente collezionato fallimenti e repsonsabilità plurime con i governi che hanno guidato questi Stati. Queste le scelte della Germania della Merkel.
Ma la politica antimediterranea non si ferma a questo. Su queste pagine nel maggio scorso, esponendo il sistema infrastrutturale dei corridoi paneuropei e – a livello mediterraneo – delle autostrade del mare, mettemmo in evidenza due punti: 1. In una prima fase i corridoi paneuropei furono concepiti come infrastrutture miranti a mettere in sistema i nuovi Paesi membri della UE con quello della Merkel finalmente sgomberato dall’impedimento del muro di Berlino; 2. Per insufficienza infrastrutturale dell’hub di Genova e delle altre strutture portuali italiane, le merci in transito nel Mediterraneo circumnavigano la penisola iberica e la Francia per sbarcare i containers nei porti mitteleuropei così da guadagnare tempo di accesso ai mercati dell’Europa sarmatica e danubiana.
Ecco adesso il collegamento con la IX Biennale delle città e degli urbanisti europei che proprio a Genova ha sviluppato il tema “Smart planning per le città gateway”. Vi risparmiamo la dissertazione sullo smart planning, l’ultima “trovata” americana nel campo della pianificazione per concentrare l’attenzione di chi ci legge su significato di city gateway. Il Travel industry Dictionary ne dà due definizioni il cui riassunto unitario suonerebbe: “Una città che funge da ingresso di una o più compagnie aeree o marittime o da punto di partenza da o verso un paese” . Visione meccanicista della “parte per il tutto” che ignora la complessità di relazioni fra città e territorio di pertinenza ma che, per i fini di questa esposizione, accettiamo di utilizzare. La definizione si adatta, chiaramente, ad ogni hub e quindi, a maggior ragione, al caso di Genova, hub mediterraneo per eccellenza delle autostrade del mare che, se adeguatamente infrastrutturato, potrebbe svolgere una funzione ben più importante di quella che la definizione di città gateway lascia supporre. Infatti Genova è naturalmente e storicamente vocata a mettere in relazione organica i due sistemi mal connessi: il continente europeo e il bacino del Mediterraneo. Così come lo è, ad oriente, Trieste. Inoltre, noi dobbiamo considerare che, nella contiguità territoriale dell’area dell’alto Tirreno vi è il non meno importante scalo marittimo di Livorno. Con lo scalo minore di Savona, abbiamo davanti ai nostri occhi un complesso portuale infrastrutturale enorme in grado di competere a livello internazionale e a di abbattere i ritagli degli interessi economici calcolati dagli investitori dei trasporti marittimi in considerazione del fatto che il canale di Suez non è navigabile da parte delle più grandi navi mercantili, le quali, pur circumnavigando l’Africa e attraccando .nei porti dell’Europa nord occidentale atlantica, rendono questo mercato dei noli oggi più conveniente.
Sviluppiamo una considerazione: il Mar nostrum, naturale baricentro delle tre prospicienti masse continentali, nell’ottica della modernità non poteva che ritornare, in epoca di mondializzazione, a svolgere il ruolo di snodo fra oriente che produce ed Europa che consuma. Se ne è resa conto la Cina che ha acquistato i porti della riva Sud e quelli greci, estendendo quindi i suoi interessi ai porti italiani. Se ne sono resi conto anche i francesi e gli inglesi, ma in chiave neo-colonialista. Protesi verso altre traiettorie geostrategiche di interesse nazionalistico, incapaci di vedere un’Europa sintesi unitaria di entità diverse, nell’autunno di un anno fa, tramite i loro servizi segreti, misero in atto un golpe contro gli italiani in Libia: tant’è : Quos Deus perdere vult … con quel che segue.
Tornando a Genova ed al suo ruolo geopolitico di gran lunga più rilevante di quello economicisticamente settoriale discusso nella IX Biennale, giova riaffermare un concetto già espresso su queste pagine: il corridoio Genova-Rotterdam per il collegamento con il Mare del Nord è fondamentale, ma ha senso solo se si realizza anche il corridoio V, perché dal collegamento tra i due si potenzia la capacità della city gateway di mettere in sistema il Mediterraneo con l’ Europa occidentale e quella orientale. Non meno importante, per le stesse ragioni, è il completamento, nel tratto italiano, del corridoio peninsulare Berlino-Palermo.
Siamo in piena crisi economica, è vero, ma per non innescare quel processo deflattivo che ci sbatterebbe col culo a mollo nel Mediterraneo, come PIGS nel brago, occorre concentrare ogni possibile risorsa nel completamento della rete infrastrutturale, cosa che si rivela chiave di volta di ogni realistica visione strategica.
Vi è chi rema contro per imbecillità o perché prezzolato o – ancor peggio – per gretto tornaconto. La vicenda NO-TAV è emblematica al riguardo, particolarmente per l’intervento dei black-block che – vedi caso – vengono da fuori e dimostra come i temi ambientali possano essere utilizzati per fini assolutamente diversi che configgono con gli interessi generali italiani e dei popoli mediterranei.
Ma che dire di certi “imprenditori”?
Abbiamo citato, in apertura, l’assemblea dell’ANCE e la contestazione nei confronti di Matteoli per il rallentamento delle commesse pubbliche che, a loro dire, avrebbe messo con le spalle al muro molte imprese costringendole a ridimensionarsi o, in diversi casi, a chiudere. La realtà è un’altra. La maggioranza delle imprese, che era dedita alla speculazione edilizia ed urbana, si è trovata di fronte alla saturazione del mercato con, a carico, una enorme quantità di case invendute –specialmente seconde case – e con i relativi scoperti bancari per i mutui contratti che, non essendo stati riversati sugli acquirenti, – com’è consuetudine – sono rimasti loro sul gobbo.
Da qui era nata la richiesta da parte della categoria, che lo Stato frantumasse i fondi FAS (Fondi aree sottoutilizzate) per le opere pubbliche in piccole tranches per sostenere l’industria delle costruzioni. La stessa industria, per la quale era stato elaborato il piano casa, che ha dimostrato di non saper intraprendere il ciclo virtuoso della demolizione e ricostruzione che lo stesso piano prevedeva. La stessa industria che per bocca del suo presidente Paolo Buzzetti il 3 agosto, rilasciando un’intervista al Corriere della sera si espresse nel seguente tenore: << Finalmente tornano i fondi per le piccole opere e non per quelle, come il ponte sullo Stretto ma anche la Torino-Lione [corridoio V, n.d.r.] che, con tutto il rispetto, non mi paiono una priorità…>>.
E quali sarebbero state le priorità secondo i costruttori edili: l’assistenzialismo nei confronti di imprese i cui dipendenti sono, in stragrande maggioranza, operai del nord ed est europeo nonché extracomunitari? Degni, questi lavoratori, del massimo rispetto, ma certo non determinanti per il rilancio dell’economia nazionale, ma solo per il gretto tornaconto dei loro datori di lavoro. Speriamo che questa operazione di a bassa speculazione e di anti ammodernamento strutturale del Paese venga definitivamente sventata, e che contro di essa apertamente si schieri anche l’opposizione al governo. Le poche risorse disponibili devono essere anzitutto e con certezza assegnate alle grandi infrastrutture in grado di rilanciare il sistema produttivo italiano nella sua globalità, ad iniziare dai settori più paganti strategicamente ed economicamente nel contesto delle dinamiche, delle collaborazioni e delle concorrenze intra-europee e tra Europa e oriente.
Nasce da tutto questo annuvolarsi sul nostro futuro orizzonte, la melanconia di questo drammatico autunno.