23 Novembre 2011
Enea Franza
Siamo tutti davvero più poveri o soltanto alcuni?
“Non c’è una corretta, scientifica, condivisa definizione perché la povertà è inevitabilmente un concetto politico, e, di conseguenza, un concetto intrinsecamente dibattuto …”Alcock, 2003
I dati dell’istituto di statistica italiano diffusi a ottobre 2011 confermano quella che da qualche tempo è divenuta una convinzione più che diffusa nel Paese, ovvero, che una parte consistente degli italiani avrebbe difficoltà ad arrivare a fine mese per acquistare beni e servizi essenziali per mantenere uno standard di vita accettabile. Le difficoltà maggiori, confermano i dati statistici, sono al Sud dove ad arrancare particolarmente è la Basilicata. Il rischio povertà aumenta per le famiglie giovani, con bimbi piccoli. I poveri in Italia sono 8 milioni e 272mila, il 13,8% dei residenti, ed una famiglia su cinque è classificabile come povera o quasi povera, per un totale del 18,6% delle famiglie italiane. In condizione di povertà assoluta si troverebbe il 5,2% della popolazione italiana, per un totale di 3 milioni e 129mila persone.
Ma cosa significa per l’Istat essere poveri, o anche, vivere in una famiglia povera? Sgombriamo subito il campo dalle falsi convinzioni. Essere poveri non vuol dire necessariamente che uno va a letto affamato, anche se a volte questo può succedere, il che ovviamente è un pugno nell’occhio a un Paese nella sostanza ricco come l’Italia Il termine povertà deriva dal latino pauperitas, che a sua volta deriva dal termine paucus (poco) e si connota, quindi, come la scarsità di risorse atte a soddisfare i bisogni dell’individuo, tuttavia la sua definizione concettuale appare molto più ardua che non la sua individuazione: a tal proposito nel 1971 Martin Brofenbenner ebbe a sostenere che la povertà potesse essere paragonata ad una brutta persona, che è “più facile da riconoscere che da descrivere”.. Ma allora cosa ci dicono i dati presentati sulla povertà presentati dal nostro istituti di statistica ?
Va premesso che i calcoli per pervenire a tale determinazione (un paese con maggiori difficoltà è più povero …? ) sono oltremodo complessi e tengono conto di un articolato quadro statistico su cui è veramente difficile entrare. Ma ci piace affrontare la sfida, convinti che, a ben vedere, risalendo la china dei calcoli si possa arrivare a comprendere le ipotesi sottostanti all’elaborazione statistica.
In estrema sintesi, l’Istat definisce povera una famiglia il cui reddito (o la cui spesa per i consumi) è inferiore o uguale alla soglia di povertà, che può essere a sua volta spiegata rispetto ai redditi (o alla spesa per i consumi) secondo diverse modalità, ovvero, secondo due criteri principali indicati dagli statistici per definire la soglia di povertà: un criterio di povertà assoluto ed uno che fa riferimento, invece, al concetto di povertà relativa. Nel metodo che fa riferimento al criterio della povertà assoluta, la soglia è definita rispetto ad un paniere minimo di beni sufficiente ad assicurare la sopravvivenza dell’individuo o della famiglia. Tale concetto si basa sull’idea che sia possibile determinare un paniere di beni e servizi primari, il cui consumo è necessario per non vivere in uno stato di privazione. Come detto, per rilevare la povertà assoluta vengono fissati i livelli di consumo che soddisfano i bisogni minimi, indicando la composizione del paniere di beni nei diversi capitoli di spesa (alimenti, vestiario, abitazione, cure sanitarie, ecc ) al di sotto dei quali si verifica una situazione di povertà tale da pregiudicare la sussistenza e l’efficienza fisica. Si individua, poi, il reddito pari al costo del paniere di beni necessario a questo fine. Le persone che godano di un reddito inferiore a tale livello sono considerate povere. Tutto chiaro ?
Bene, andiamo avanti non mancando, tuttavia, come nostra consuetudine, di evidenziare alcune cose. E allora poniamoci la questione seguente: ha senso un’idea di povertà misurata solo sull’indisponibilità di reddito?
Nel 1901 Seebhom Rowntree – il cui lavoro è considerato il primo studio di carattere scientifico sulla povertà – definì povere quelle famiglie la cui indisponibilità di reddito era tale da non garantire la “pura efficienza fisica”. Egli infatti calcolò una linea di povertà, espressa come ammontare monetario minimo richiesto per avere un’alimentazione adeguata al mantenimento dell’efficienza fisica e affrontare le spese basilari per l’abbigliamento e l’abitazione In verità vi erano già stati degli studi sulla povertà, come quello di Charles Booth del 1887, nel quale l’autore tentò una stima della povertà nella città di Londra, correggendo al ribasso le idee del tempo secondo cui un terzo della popolazione londinese viveva in situazioni di povertà (pervenendo, invece, ad un valore del 5%) e facendo riferimento anche ad una classificazione della popolazione in otto classi sociali, quattro delle quali si riferivano a persone in stato di povertà.. Tuttavia, come sottolineano molti illustri studiosi contemporanei: “voler applicare questa definizione alla società di oggi non permetterebbe di cogliere l’attualità del fenomeno: infatti oggi la povertà non è soltanto la mancanza di cibo ma è legata anche ad altri fattori ( De Bartolo Giuseppe, ” La mappa della povertà in Italia”. Contributo a XXXVIII Riunione Scentifica della Società Italiana di Economia e Statistica) .” Una grande quantità di studiosi ha infatti osservato come la povertà deve essere valutata con riferimento al contesto in cui si manifesta. L’economista indiano Amartya K. Sen (1984), sottolinea come “[…] essere poveri in una società ricca è già di per sé un handicap in termini di capacità […]. La deprivazione relativa nello spazio dei redditi può implicare una deprivazione assoluta nello spazio delle capacità. In un paese che è in generale ricco, può essere necessario un reddito maggiore per comprare merci sufficienti ad acquisire le stesse funzioni sociali, come «apparire in pubblico senza vergogna». Lo stesso può dirsi per la capacità di «prendere parte alla vita della comunità»”. La povertà indicata allora dal numero delle persone che, in assoluto o in proporzione della popolazione, hanno redditi inferiori al livello di ‘sussistenza’ (headcount method) non soddisfa L’attenzione ad una visione più ampia era già nel pensiero di alcuni padri delle scienze economiche, da Adam Smith a Karl Marx, passando per Thomas Malthus e David Ricardo. Smith, ad esempio, già nel 1776 parlando di povertà si espresse con queste parole: “[…] una camicia di tela, non è rigorosamente parlando, necessaria all’esistenza, ma attualmente, nella maggior parte d’Europa, un giornaliero rispettabile si vergognerebbe di apparire in pubblico senza una camicia di tela; la sua mancanza denoterebbe quel disgraziato grado di povertà cui si presume che nessuno possa arrivare senza una condotta estremamente cattiva […]”.
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Un ulteriore aspetto che deve essere sottolineato è il seguente: utilizzando la nozione di povertà assoluta si esclude che – almeno in un orizzonte temporale non brevissimo – la definizione di chi è povero muti in funzione di cambiamenti esterni, ad iniziare da quelli connessi alla crescita economica complessiva. Ciò implica, in altri termini, che se un paese o un’area conoscesse nel suo complesso una crescita molto sostenuta questo non inciderebbe in alcun modo sul criterio utilizzato per individuare i poveri e ciò renderebbe assai più probabile che, l’effetto della crescita complessiva, sia quello di ridurre il numero di poveri.
Di fronte a tali pesanti critiche un’altra misura della povertà, quella relativa, fa capolino nelle analisi degli istituti di statistica, e quindi anche nel nostro. L’ipotesi è che le necessità della vita – e lo stato di povertà, che non consente di soddisfarle – sono concetti intrinsecamente relativi, oltre che multidimensionali Questa riflessione ci rimanda alla teoria del capability approach del Premio Nobel Amartya Sen: “[…] il grado di adeguatezza dei mezzi economici non può essere giudicato indipendentemente dalle effettive capacità di conversione dei redditi e delle risorse in capacità di funzionare […]”, e “[…] nello spazio del reddito, il concetto rilevante di povertà deve essere basato sull’inadeguatezza (a generare livelli minimi accettabili di capacità), piuttosto che sulla scarsezza (indipendentemente dalle caratteristiche individuali) […]” .. È necessario, a tal proposito, prendere in considerazione alcuni fattori che possono favorire l’esclusione sociale: ad esempio, le disabilità fisiche e psichiche, il sesso (le donne sono maggiormente svantaggiate), l’età (come abbiamo visto dai dati sulla povertà, le persone anziane sono maggiormente esposte all’indigenza), la composizione del nucleo familiare (la presenza di bambini e anziani in particolare) oppure l’appartenenza ad un’etnia o ad una cultura diversa da quella dominante (ad esempio gli immigrati, le minoranze etniche, linguistiche, religiose) tra i primi studi in questa direzione possiamo citare quelli economici di Townsend (1974; 1979) e Towsend e Abel– Smith (1965), e quelli più sociologici di Stouffer et al. (1949) e Runciman (1966). In particolare Townsend, nei suoi studi, parla di povertà relativa, legandone il concetto all’organizzazione sociale complessiva in termini di redistribuzione delle risorse e di condizioni di vita.
A ben guardare, si tratta di situazioni di appartenenza a gruppi o comunità che non fanno parte della dinamica economica, o rivestono un ruolo marginale. Nella sostanza il discorso sulla povertà si amplia e si riconduce in un alveo più ampio ed irto di contraddizioni.
In linea di principio, considerare la povertà in termini relativi implica la comparazione in un dato tempo ed in un dato luogo fra il reddito di alcuni individui (o famiglie) e quello di altri individui (o famiglie). Un primo modo per effettuare questa comparazione è quello di rapportare il reddito di ciascuno al reddito medio o mediano della collettività di appartenenza. Si può allora stabilire che, ove tale rapporto sia inferiore ad un dato valore (ad esempio, 50%), si verifichi una situazione di povertà (relativa). In tal modo, la povertà misurata in senso relativo permette di tener conto dell’evoluzione delle norme e dei costumi sociali di una collettività.
Cionondimeno anche tale approccio dà luogo a problemi. Le valutazioni degli esperti che consentono di determinare la soglia non sono mai totalmente oggettivi. Se la povertà assoluta, per com’è definita la soglia, tende a ridursi nel tempo in presenza di reddito reale pro-capite e spesa per consumi crescenti, la povertà relativa non cambia se i redditi di tutti gli individui si muovono sulla stessa percentuale. Inoltre, la povertà relativa può avere andamento pro-ciclico.
Ma, non basta. C’è un errore ancora più grande che tale metodo comporta: quello di confondere la povertà relativa con il concetto di disuguaglianza. Come se ne esce? Bene, come per le tante grandi questioni lasciate irrisolte nello scorso XX secolo, anche per la questione della povertà, al momento non c’è una soluzione condivisa. Questo genera – a nostro sommesso avviso – le difficoltà di trovare una soluzione condivisa al problema della povertà, anche e soprattutto, quando questa emerge nelle economie ricche e nonostante le lodevoli iniziative intraprese ai livelli istituzionali. Nel 1984, il Consiglio Europeo dei Ministri definì i povere “[…] le persone le cui risorse (materiali, culturali, sociali) sono così limitate da escluderle dal minimo accettabile stile di vita dello Stato membro nel quale essi vivono”..
Per superare, ma non senza evidenti forzature e difficoltà, i limiti sopraindicati, e per favorire i confronti internazionali, le istituzioni scientifiche ed economiche internazionali li hanno fissato al livello di 1 o 2 dollari al giorno la linea della povertà, tenendo naturalmente conto del fatto che il potere d’acquisto di un dollaro è molto diverso in aree differenti, e convertendo il paniere in valuta di cambio, aggiustandolo per le parità dei poteri d’acquisto ed a prezzi costanti. Si tratta, come è evidente, di una linea estremamente bassa. Così, anche la Banca Mondiale e molte organizzazioni non profit, ritengono la linea minima pari a 2 dollari per giorno.
L’inciso di cui occorre tenere conto seguendo tali analisi è che, naturalmente, si deve dipendere solo da tale denaro per acquistare tutti i beni di cui si necessita per il sostentamento; diverso sarebbe, infatti, il caso in cui una famiglia auto-producesse, ad esempio, taluni beni di consumo. In tale contesto, infatti, potrebbe bastare anche un solo dollaro!
Come è evidente da tale parziale ricostruzione, lo studio dei dati disponibili sulla povertà costituisce un rompicapo che in primo luogo coinvolge le fondamenta dell’analisi stessa ed impone un enorme lavoro di rifinitura da parte degli studiosi stessi. Molti serissimi studi, identificano almeno tre classi di problemi che coinvolgono lo studio della povertà: l’uso di linee di povertà a dir poco arbitrarie o costruite con panieri inadatti o addirittura distorti; l’uso di tassi di cambio che non tengono conto delle distorsioni relative ai prezzi ed alla composizione dei panieri dei poveri, rispetto alle variazioni delle medie dei prezzi; ed, infine, la presenza di “alchimie” statistiche nella elaborazione delle estrapolazione e nell’utilizzo dei dati sulla povertà. Una, anche pur minima variazione della procedura utilizzata, comporta come dimostrano alcuni studi enormi modifiche nei risultati ottenuti (Reddy e Poggy in uno studio del 2002, identificano tre classi di problemi).
Ciò premesso, vediamo meglio i dati fornitici, evitando commenti che forse i dati elaborati non consentirebbero. Il nostro Istituto di statistica ha fissato la soglia di povertà assoluta al livello di spesa familiare mensile pari o inferiore a quella minima necessaria per acquistare beni e servizi essenziali a garantire uno stile di vita minimamente accettabile per gli standard italiani. Al di sotto di tale livello si è poveri. Inoltre, per fare le cose bene, l’Istat naturalmente distingue a seconda della composizione familiare, in primo luogo, numero dei componenti, sesso, età, comune di residenza, ecc. Per ogni gruppo familiare calcola l’importo in denaro necessario per assicurarsi un paniere minimo di beni e servizi (ripetiamo) ritenuto accettabile in Italia.
L’indagine Istat ha riscontrato una sostanziale stabilità della povertà. L’impoverimento, peraltro, secondo in dati forniti, ha riguardato particolari fasce di popolazione, come le famiglie numerose. La povertà relativa, infatti, aumenterebbe tra le famiglie con 5 o più componenti (dal 24,9% al 29,9%) in particolar modo se i figli sono piccoli. Il rischio povertà relativa è presente anche in famiglie con un anziano che vive in famiglia (dal 18,2% al 23%) e quelle in cui è presente un unico genitore (dall’11,8% al 14,1%).
Il passo indietro delle famiglie con membri aggregati riguarda anche il rischio di povertà assoluta, per cui l’incidenza è passata dal 6,6 al 10,4%. Particolari difficoltà si riscontrano, come spesso succede, nelle zone meridionali del Paese. La regione più in difficoltà è la Basilicata, mentre il fenomeno povertà è più attenuato in Lombardia. Nello specifico Lombardia ed Emilia-Romagna sono le regioni con i valori più bassi dell’incidenza di povertà pari, rispettivamente, al 4,0% e al 4,5%. Piemonte, Veneto, Toscana, Friuli Venezia Giulia e la provincia di Trento, si collocano su valori dell’incidenza di povertà inferiori al 6%. In tutte le altre regioni del Mezzogiorno, ad eccezione di Umbria e Molise, la povertà è più diffusa rispetto al resto del Paese. Le situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Calabria (26,0%), Sicilia (27,0%) e Basilicata (28,3%).
Leggendo tali dati, secondo cui in Italia c’è una stabilità della povertà, viene, penso, un dubbio. Ma i tanti che vanno rovistando nelle metropoli nei bidoni della spazzatura, chiedono l’elemosina e dormono per la strada sono la “classe media” del nuovo millennio e, pertanto, non sono da considerarsi poveri ?