Anche Emma Marcegaglia continua a battere la grancassa sulla priorità della riforma pensionistica. Qui è proprio il caso di dire che, senza assonanza e senza rima alcuna con la simpatica e volitiva presidentessa, il marcio ci cova. E anche senza assonanza tra i bombardamenti propagandistici confindustriali e il vice presidente Bombassei.
Non abbiamo il dubbio di avere davanti interlocutori che sono tra il fiore dei galantuomini e delle gentildonne del nostro Paese. Vogliamo suggerire comunque di guardare e riguardare bene dentro la storia dell’associazione che essi rappresentano, ad iniziare dalle cattive virtù civiche e imprenditoriali di chi … come ai tempi della presidenza Pininfarina predicava – o meglio, nonostante le garbate maniere, crudamente e letteralmente sputava sulla scuola italiana e sui suoi sottopagati professori – un giorno si e l’altro pure sulle colonne dei grandi quotidiani, dal Corriere della Sera alla solita La Stampa: e che predicava! Probabilmente Emma non lo ricorderà – era ragazza – ma certamente lo saprà, come ben lo sa e ben lo ricorda il suo vice Alfredo su cosa faceva il suo predecessore di allora. E su come tutto quello che faceva con i capoccia dei trust sindacali e del malaffare fosse cosa comune, comunissima, diffusissima…!
Prima di parlare di riforme strutturali, gli imprenditori italiani dovrebbero rispondere a due domande a cui finora non hanno mai risposto agli italiani. Vogliono continuare ad essere imprenditori a rischio zero, a costo zero e con i soldi degli altri? O, più precisamente, con i soldi degli italiani o di parte degli italiani rigirati loro dai governi di turno? Vogliono continuare a spendere nella ricerca meno, molto meno di quanto spendono le industrie a partecipazione pubblica?
Due domande storiche, attuali e che riguardano il breve e medio termine del nostro futuro industriale. Cosa rispondono su tutta la linea del fronte temporale? Cosa possono rispondere mai?!
Il fatto è che una parte non indifferente dell’imprenditoria italiana è stata sempre impastoiata con tutte le pagine più nere e più grigie della storia politica e sindacale italiane e del malaffare malavitoso dei buon signori della società italiana che ha elevato a sistema il nord produttivo e il sud subalterno e acquirente indispensabile in una logica inestricabile di reciproche sudditanza. E’ quello che si dice matassa concussione-corruzione. Il modello operativo applicato da Lodigiani esemplava ed esempla tutto. Il fatto è che una parte non indifferente dell’imprenditoria italiana, anche quella meno sporca o quasi pulita, ha oramai nel suo dna la “logica” dello scambio “politico” che parte proprio dall’esigenza di farsi finanziare attraverso le più disparate vie, sempre pubbliche o parapubbliche. Il fatto è che i casi coperti dai governi, come quelli di De Benedetti o di imprenditori altrettanto poco fortunati, sono stati sempre saldati con costi pubblici. Il fatto è che la finanza nuova e rampante degli ultimi venti anni ha visto operare quasi sempre sul proscenio con Opa basate su operazioni virtuali e di spostamenti finanziari che hanno racchiuso in capitoli di bilancio i disastri dei passivi e delle pendenze relative alle operazioni andate in porto, edulcorandoli con una terminologia che i barocchismi e gli estetismi decadenti e le aggressive performance mediatiche à la page possono solo invidiare agli imprenditori e ai banchieri.
Il caso Tarantini offerto dalla cronaca scandalistica e politica oggi rappresenta una estrema, banalissima e popolare immagine di ciò che spesso si considera essere un uomo rampante, privo di scrupoli, pronto a qualsiasi sotterfugio pur di diventare una mezza tacca o la reale contraffazione del vero imprenditore.
Noi abbiamo grande rispetto per il vero imprenditore, per ogni imprenditore che intende realizzare guadagni e profitti, espansione, crescita e successi con le proprie idee, con le proprie energie, con la propria volontà,con le proprie attività, con i propri sacrifici. Con i propri rischi. E così produce in maniera sana lavoro e ricchezza. In questo senso, gli esempi certo non mancano ed è bene che sia la Confindustria a diffonderli, ad additarli, ad assumerli come esempio, al di là delle cerimonie ufficiali e dei neo cavalieri del lavoro.
La realtà delle cose tuttavia pare non andare affatto ancora in questa direzione. Anzi, pare che non pochi industriali italiani, e la stessa Confindustria, sperano in quello in cui sperò vanamente, per fortuna, Gianni Agnelli primo. Allora, l’acquisto da parte dello Stato delle industrie fallite acquistate dal governo, sanate rilanciate e rese ben attive da capitani d’industria pubblici con la regia generale di Mussolini, che gli industriali privati avrebbero voluto acquistare a prezzo di favore; oggi, l’acquisto sempre da parte degli imprenditori privati dallo Stato di “hard core” strategico relativo a industrie di prim’ordine a livello mondiale, rappresentate da Finmeccanica e Agip.
Questo perseverare di una logica confindustriale non competitiva, parassitaria e inefficiente non porta da nessuna parte. Men che mai verso l’innovazione strutturale e la crescita. Allo stesso modo, il continuare ad investire, come da decenni si è fatto e si fa, poco e nulla nella ricerca. Confindustria pubblichi e sciorini pure i suoi dati. Vedremo quale realtà impietosa o quali bufale verranno fuori. Di alcuni esempi come Ferrari e Maserati ne andiamo tutti fieri. Ma essi, a livello generale, rimangono purtroppo men che aneddoti e servono per le tifoserie e non per accrescere di numero i team dei ricercatori, dei tecnici e delle maestranze in una quantità notevole di industrie. E qui Marcegaglia e Berlusconi dimostrano di non voler capre che l’Italia, pure difendendo ruolo e posto che occupa a livelli internazionale nel settore manifatturiero, comprese le nicchie dei settori più esclusivi e redditizi, non può continuare a puntare su di esso in maniera eccessiva perché è ineluttabile che nel futuro a medio termine sarà schiacciato dall’irreversibile asimmetricità delle economie dei giganti d’oriente. E perché esso non può costituite la fonte duratura dell’accrescimento o quanto meno – in un’epoca di stagnazione e di riflusso geo-economico – il mantenimento del livello della ricchezza dei Paesi occidentali, che dipende essenzialmente dal mantenere la leadership indiscussa nella ricerca e nell’alta tecnologia.
I fondi pensionistici degli italiani oggi e nei prossimi anni sono e saranno ben sicuri. Come è ben sicuro che gran parte degli italiani dipendenti, pubblici e non, vuole continuare a lavorare oltre i limiti dei 35 (e non dei 40) anni di servizio. Ma questa è deve rimanere la linea massima per legge ancora per diversi, per molti anni. Ai lavoratori deve essere salvaguardata assolutamente la facoltà di scelta come elemento minimale e indiscutibile del welfare in via di generale smantellamento. Deve assolutamente eserere evitato, sventato il pericolo che il datore di lavoro licenzi o metta in mobilità un cinquantenne o un sessantenne perché diventato improduttivo per qualsiasi motivo. E quello di ulteriori sopraffazioni che si accompagnerebbero a questo radicale mutamento di cose. Questo lavoratore deve conservare la possibilità di andare in pensione su sua scelta o su indicazione medica.
Il tentare di sgomitare con Berlusconi e Tremonti per cambiare, con i loro Sacconi e lupi mannari di turno, le regole del calcolo delle pensioni, per legge ancora calcolate in parte sul Tfs, la dice lunga di come sia famelica Confindustria nell’aspettare di ricevere in tal modo finanziamenti come soldi traslati e rigirati a forza, sottraendoli ai legittimi lavoratori. Non è così? Marcegaglia e Bombassei lo dicano forte, bombardino le nostre orecchie e dicano finalmente in cosa oggi è cambiata Confindustria rispetto a tutta la storia dal dopoguerra ad oggi. Se ciò che diranno risponderà a verità, saremo ben contenti di prenderne atto e di esprimere le nostre felicitazioni ad una platea di imprenditori non facondi ma veracemente fattivi finalmente diventata più numerosa. In tempi difficili in cui non più c’è da spremere dalle tasche degli altri.
Riscrivano, dunque, Marcegaglia e Bombassei le priorità della loro agenda per renderle più realistiche e raffrontabili con le vere esigenze del Paese di cui essi fanno parte. Ad iniziare dalle norme sulle rendite e sull’inasprimento di quelle relative agli occultamenti e alle esportazioni di ricchezze. Da lì verranno tanti, tantissimi denari. Su cui il giulivo Tremonti perderà proprio il conto.