Aveva ragione Václav Havel quando, nella sua commedia del ’65 “Circolare ad uso interno” a proposito dell’uso del “ptydepe”, la lingua degli iniziati, dei potenti, dei burocrati, affermava: <<chi possiede la parola magica, “la frase che dà il potere”, possiede il potere>>. Un potere esercitabile in forza dell’alienazione della turba anonima dei non iniziati, degli oppressi. Quello stesso potere oppressivo che si manifesta con l’uso del particolare “ptydepe” infarcito di inglesismi tecnicisti del nostro attuale presidente del Consiglio.
Circolano sul web, a questo proposito, battute di pesante spirito goliardico. La più icastica, ancorché volgare, mascherata da comunicato d’agenzia recita: – << Agli oscar del porno a Miami premiati due italiani ….il 2° posto a Rocco Siffredi per essersi “fatto” oltre 4000 donne; l’Oscar a Mario Monti per essersi inc… to 60 milioni di italiani.>>
Altro che bunga bunga!
Riso amaro il nostro, per di più condito di sconforto per chi scrive – libero professionista e per tre decenni sindacalista della professione – nel leggere il box di Claudio Noschese su Il Borghese di gennaio 2012 in reazione all’obiettivo di potere, chiaramente dichiarato da Monti e Passera, di porre mano alla riforma delle professioni.
E’ pur vero che oggi il variegato mondo delle professioni è inquinato da mestieri che con l’etica della “professio” nulla hanno a che fare, ma per quelle che un tempo ne erano vincolate declassarsi a precaria categoria tecnico-economica è stato aver messo nelle mani del loro carnefice la corda per farsi impiccare. La professione sembra pervasa, nella sua maggioranza, da un desiderio di morte, dal desiderio di rinuncia di quello che fu il proprio ruolo civile per annullarsi, in una sorta di “cupio dissolvi” , nel magma del totalitarismo economicista che caratterizza l’attuale condizione dell’esistenza. Ed è con fastidio ed irrisione che reagisce allorché gli si ricorda qual’era questo ruolo.
Spieghiamoci: nell’epoca della modernità degenerescente viviamo, come tanti sperimentiamo ogni giorno, in una fase civile piuttosto problematica dove assistiamo al progressivo ridursi delle libertà individuali in omaggio al principio della convivenza democratica. In una situazione del genere, i rapporti fra un individuo e l’altro e fra gli stessi e la collettività vengono affidati di continuo ad un insieme di conoscenze tecniche, di regole, di norme, di leggi espresse sempre in un linguaggio di difficile, se non impossibile, comprensione per i non addetti ai lavori. Il dialogo fra individuo e società diventa, in tal modo, impedito con il rischio conseguente del disfacimento civile. Occorrono, allora, delle persone in grado di comprendere questo linguaggio ostico, astruso – il ptydepe – e di interpretarlo per gli altri acciocchè il dialogo fra individuo e società possa aver luogo ed essere civilmente fruttifero.
Erano i professionisti ed i tecnici ad essere deputati a questo compito ed ogni società che aspirava ad essere libera e civile li aveva creati a propria misura. Nel mondo della riforma protestante, dove lo stato sociale era nato ordinato in classi contrapposte dalla loro valutazione economica, la professione si estrinsecò – e si estrinseca tutt’ora- come una delle strutture della produzione. In un mondo come il nostro, invece, vocato all’organicità per tradizione protrattasi per millenni ad opera della visione universale romana divenuta, poi, cristiano-cattolica (da katholikòs = universale), persino nella nostra anomala forma di stato borghese il ruolo della professione aveva mantenuto il carattere di organicità dei valori del vivere civile svolgendo il ruolo di interprete cosciente fra le esigenze vitali del singolo e quelle della collettività. Tanto da riproporlo, nel 1948, nella costituzione e nella legge costitutiva come istituto di pubblica necessità. Ruolo organico – appunto – alla società ed alla sua civiltà giuridica in attuazione di un principio fondamentale di tutela del cittadino assunto dallo Stato. La professione veniva, a questo fine, sottratta alle “regole” dell’economia basate sulla concorrenza in regime di mercato affinché potesse esercitare il ruolo politico intermedio di garante. Riconosciuto ed istituzionalizzato, se fosse stato debitamente coltivato avrebbe permesso alla libera professione di esercitare funzioni di controllo e di propulsione in difesa della collettività. Proprio quel ruolo che né il potere economico né quello politico erano disposti a riconoscergli nonostante il dettato costituzionale. Il primo per totalitarismo economicista, il secondo perché da quello infeudato.
Nonostante la voglia di organicità, però, quello che i padri della costituzione non potevano prevedere era il letto di Procuste sul quale sarebbe stata costretta l’Italia a causa del conflitto interno al capitale riaccesosi dopo la fine del conflitto mondiale. Da un lato, stirata, per sudditanza sancita ad Yalta, verso l’ideologia capitalistico-borghese che riduceva l’uomo alla sola dimensione economica, dall’altro accorciata dalla contrapposta ideologia capitalistico-comunista perseguente un identico obiettivo, ma di segno opposto. Entrambe, nei fatti, protese alla gestione del denaro pubblico – specialmente quello destinato alle opere pubbliche – al di fuori di qualsiasi controllo che non fosse quello manovrato dal potere partitico in collusione con quello economico.
Dalla VI legislatura fino al 1989 fu perseguito il disegno, sviluppato per anni e con costante determinazione, di eliminare i garanti, i professionisti liberi o al servizio esclusivo dello Stato, minando la loro credibilità presso i cittadini e rendendo loro la vita impossibile fino all’estinzione e sostituendoli abusivamente.
Poi cadde il muro ed il comunismo implose dopo aver spianato la strada al capitalismo borghese mediante la proletarizzazione della società democratica. I “poteri forti” – quelli che votano ogni giorno nelle borse di tutto il mondo – non si fecero scappare l’occasione. Con un partito comunista avviato a divenire una “cosa” liberal, pronta a tramutarsi in killer spietato pur di legarsi al carro della legittimazione guidato da un capitalismo vincitore per abbandono dell’avversario, tentarono di distruggere quanto non rispondeva alla degenerata visione totalitaria della finanza.
L’occasione si presentò con la U.E. e le sue direttive comunitarie ispirate da società eredi delle inclinazioni più radicali della riforma protestante di indirizzo calvinista. Nonostante vi fosse ampio margine per conservare l’organicità delle nostre istituzioni libero-professionali, ci si volle deliberatamente appiattire sulle stesse. Fu una silenziosa rivoluzione politica tradotta in termini tecnico-amministrativi che, con la complicità della tecnoburocrazia, distrusse l’antico rapporto tra Stato e cittadino, tra quest’ultimo e la libera professione. Ormai separata eticamente dalla tecnoburocrazia, dapprima interlocutrice per conto della collettività con la libera professione, quest’ultima fu ridotta ai margini della vita economica nazionale e internazionale mentre la prima ne occupava abusivamente gli spazi avvantaggiandosi della sua funzione di controllore pubblico per operare come “controllato”.
E’ di pochi giorni la “scoperta” di 3.300 casi, negli ultimi tre anni, di malatecnoburocrazia (ci si perdoni l’orribile neologismo) da parte di una Guardia di Finanza che fino a tre anni fa, evidentemente, “dormiva da piedi”.
La conseguenza, sul piano di civiltà, è stata devastante. Oggi abbiamo raggiunto la condizione in cui i giudici si “giudicano” e si “aggiudicano” incarichi e prebende distruggendo la fiducia del cittadino nei confronti dello Stato mentre gli esponenti tecnicamente più preparati di ogni professione si sono arresi alla logica di subordinazione al cosiddetto “mercato del lavoro” senza la minima possibilità di poter influire sullo stesso se non al ribasso. Degli altri, i più attivi mendicano una possibilità di lavoro presso quelli che sono divenuti i loro nemici, realizzano con gli stessi degli innominabili connubi o trafficano, attraverso gli Ordini ed il sottogoverno, la nomina a “gabelliere” in qualche commissione. I più si rinchiudono nel proprio “particulare” sopravvivendo in attesa della fine.
Questo descritto è il processo di distruzione del ruolo che la libera professione aveva sulla carta costituzionale e che ha perduto, come già detto, per l’insipienza e il miope egotismo dei suoi componenti. Un processo distruttivo, perseguito come obiettivo strategico dai poteri forti e dai loro servitori politici, che investe soprattutto il principio di tutela del cittadino, ma che si configura come tradimento nei confronti della compagine civile cui viene tolta ogni libertà per opera del potere oppressivo dei detentori ufficiali del ”ptydepe”. Tradimento la cui colpa va addossata – duole dirlo – anche alla libera professione che, in questo perverso gioco delle parti ha subito passivamente trascinando nella propria caduta anche chi doveva tutelare. Ha agito come il selvaggio di cui diceva, nel 1963, Saverio Muratori:- “Qui, in politica, la nostra età è ridotta al livello del selvaggio che svende l’idolo dei suoi padri per una radio e che poi pretende di suonarla come un tam tam” (Architettura e civiltà in crisi pag. 195).
Tradotto ed applicato al nostro caso: la libera professione ha svenduto il simbolo dei padri, il suo ruolo, per ridursi a struttura della produzione [la radio] ed ora batte i piedi rivendicando il diritto ad essere ascoltata mentre se la suona come un tam tam.
Come se ne esce? In primo luogo acquisendo coscienza che il mondo di cui la vecchia professione era “istituto di pubblica necessità” va scomparendo. La crisi, e non ci si riferisce solo a quella economica, ci ha mostrato che “tutti i limiti dell’esperienza sociale sono stati superati ed ogni giorno di più constatiamo che i vecchi rapporti di valore comunemente impiegati perdono senso.”(S. Muratori, op cit.). Dobbiamo seppellire il vecchio mondo meccanicista per riconquistare, ad una scala più elevata, una più matura e organica visione della realtà. Dobbiamo compiere una grande svolta culturale che guidi la ricostituzione, su altre basi, di una compagine civile in grado di non disperdere ciò che l’umanità ha conquistato ed, al tempo stesso, elabori nuovi rapporti di valore in grado di misurare, in senso organico, la mutata dimensione del mondo.
In altre parole: un’altra Italia ed un’altra Europa.