Lo Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970) è stato introdotto più di 40 anni fa e nel frattempo il mercato del lavoro italiano ha subìto modifiche di ogni genere ed una evoluzione legislativa che ha introdotto nuove e variegate tipologie contrattuali.
Negli ultimi dieci anni poi lo stesso sistema dei rapporti di lavoro ha dovuto affrontare l’avvento della Comunità europea e un mercato economico mondiale completamente sconvolto da legislazioni lavoristiche di ogni tipo.
L’attuale crisi economico-finanziaria che mina (anche) la stabilità dell’Italia ha sancito l’insufficienza e la debolezza del sistema dei rapporti di lavoro nel nostro Paese e in particolare della contrattazione collettiva, delle relazioni industriali, delle tipologie contrattuali nonché degli ammortizzatori sociali.
La necessità di riformare il sistema del diritto del lavoro, dunque, è ormai palese e merita approfondita analisi del legislatore, il quale, seppure in un’ottica globale, ha il dovere di soffermarsi sulle singole tematiche come l’articolo 18, con l’intento di introdurre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e consentire l’aumento della occupazione, soprattutto giovanile.
Sostenere che la riforma dell’articolo 18 non sia almeno uno degli elementi necessari per proseguire nel processo di riconquista della smarrita competitività internazionale delle nostre imprese mi pare oltremodo irragionevole: le posizioni contrarie espresse dalla segretaria CGIL Susanna Camusso e del responsabile economico del PD Stefano Fassina, si rivelano ancora una volta anti-riformiste, finanche reazionarie contro un sistema di modernizzazione del Paese che finalmente sembra essere iniziato con successo.
Del resto l’attuale normativa si presenta assolutamente rigida e per certi versi anche controproducente per i lavoratori. Una questione su tutte: l’articolo 18 si applica solo alle aziende che hanno più di 15 dipendenti, sicchè la diversità tra le tutele genera lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, aumentando la disoccupazione inducendo le piccole e medie imprese (gran parte degli imprenditori italiani e dunque la fetta massiccia del mercato del lavoro) a non superare mai il numero di quindici dipendenti per non subire gli effetti severissimi della reintegrazione nel posto di lavoro.
Già solamente questa intuitiva osservazione potrebbe giustificare una rivisitazione dell’impianto normativo in termini di eliminazione della disciplina più gravosa per le medie e grandi imprese, cui però aggiungere un’altra serie di provvedimenti altrettanto necessari, quali:
– la liberalizzazione dell’istituto del collocamento, in modo da facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro con il coinvolgimento anche di strutture private;
– l’introduzione di nuove forme di contratto lavorativo più flessibili rispetto al tradizionale contratto di lavoro a tempo indeterminato;
– l’adozione di un nuovo modello di contrattazione decentrata, concedendo spazio alla contrattazione individuale tra lavoratore e datore di lavoro;
– la limitazione del ricorso diffuso alla cassa integrazione, in particolare per le aziende senza alcuna prospettiva di rivitalizzazione;
– l’estensione della indennità di disoccupazione per chi perde il posto di lavoro, creando nel frattempo istituti di ricollocamento nel mondo del lavoro obbligando il lavoratore a frequentare corsi di formazione professionale;
– l’utilizzo vero e sistematico di personale disoccupato nei lavori socialmente utili.
In questa visione di riforma l’effetto sarebbe certamente quello di diminuire il tasso di disoccupazione, generando un maggiore livello di mobilità ed un elevato tasso di sostituzione, facendo sì che il periodo di transizione da un lavoro ad un altro avrebbe tempi molto più ridotti.
D’altro canto, un effetto “protezione” equo ed efficace si potrebbe ottenere stabilendo per il lavoratore licenziato per motivi economici ed organizzativi il riconoscimento di una indennità (ad esempio da un minimo di 6 fino a un massimo di 18 mensilità) calcolata in base a parametri quali la anzianità di servizio, anagrafica e i carichi di famiglia: in questo senso sarebbe solo necessario prevedere un “Fondo per il sostegno al reddito” maggiore di quello attuale che opererebbe in sinergia con corsi obbligatori di reinserimento nel mondo del lavoro organizzati in collaborazione con le imprese, finalizzati a rintrodurre immediatamente il non (più) occupato nel mondo del lavoro.
Questo sistema di rapporti, apparentemente meno protettivo per quanto attiene al licenziamento, ingenererebbe di fatto più sicurezza nel lavoro e contribuirebbe a diminuire il timore delle assunzioni, magari pure eliminando il complesso problema del lavoro “a nero”.
In conclusione, è logico comprendere la preoccupazione del Governo di giungere ad una ipotesi di riforma condivisa con le parti sociali e le organizzazioni sindacali, ma se l’obiettivo è nel segno di un comune interesse ad una più proficua riforma del welfare ed in generale dei sistemi che regolano i rapporti di lavoro, il coraggio e la determinazione nelle decisioni (apparentemente) impopolari devono essere le stesse mostrate in tema di liberalizzazioni delle professioni.
Senza tabù di sorta. Anche sull’articolo 18.
Diversamente, cedere all’ennesima vetusta presa di posizione ideologica, significherebbe di fatto non aver lavorato nell’interesse del Paese e nemmeno dei lavoratori.