“Spezzare le reni alla Grecia” si concilia con il salvare il mercato ?
“La Grecia evita il default. Per ora”. Colpisce il titolo ad effetto scelto da un giornale economico all’indomani dello sblocco degli aiuti per la Grecia. La somma complessiva (sommando il piano Ue da 130 mld di Euro e l’accordo per la ristrutturazione del debito dei privati da 107 mld di Euro) arriva a 237 mld. Una cifra importante, anche se poca cosa se confrontata al bilancio dell’Unione Europea. Ma sembra già certo che tale denaro, che il governo di Atene potrà utilizzare solo se attiverà le riforme entro la fine di febbraio, potrà essere sufficiente appena per un paio d’anni. Poi si vedrà. Per la verità a stupire, oltre la convinzione comune che ci vorrà entro non poco tempo altro denaro, è che l’impatto negativo sull’economia Greca non sarà di poco conto. Le previsioni sul PIL parlano di un tracollo della domanda, innestata certamente dalla politica di freno alla spesa pubblica e di riduzione dei stipendi e salari della pubblica amministrazione.
Ma posto che a breve la Grecia possa vantare un bilancio pubblico perfettamente in equilibrio, cosa darà forza al Paese, ovvero, in altri termini qual’è il senso della politica dei sacrifici “lacrime e sangue” che l’Europa sta imponendo alla Grecia per mantenerla nell’area Euro ?
Presento qui di seguito uno sguardo veloce di alcune nozioni studiate all’università dagli allievi di questi indirizzi di studi, che ritengo qui molto utili per aiutare il lettore non esperto in materia economica a potersi concretamente orientare e a potere esprimere in via autonomia una sua propria valutazione; questo ci permette di conseguenza di sviluppare alcune riflessioni di approfondimento in funzione di quanto desidero rappresentare. Si ricorda che una politica fiscale ha come obiettivo principale quello di influenzare il livello della domanda globale attraverso variazioni della spesa pubblica e della pressione fiscale. La politica fiscale può essere sia espansiva che restrittiva: nel primo caso mira, attraverso un aumento della spesa pubblica o una riduzione delle imposte, ad aumentare il livello della domanda globale e di conseguenza il reddito d’equilibrio; nel secondo caso, invece, si persegue un obiettivo opposto, attraverso una riduzione della spesa pubblica o un aumento delle imposte. Bene, già dalle prime battute possiamo riassumere che l’Europa, per concedere un prestito finalizzato alla restituzione del debito contratto, sta chiedendo una politica alla Grecia una politica fiscale restrittiva.
Vediamo adesso gli effetti di una politica di bilancio. Gli strumenti utilizzati dalle autorità governative per attuare una manovra di politica fiscale possono essere, sommariamente, suddivisi in automatici e discrezionali. I primi, una volta introdotti, operano indipendentemente da qualunque decisione delle autorità di governo in quanto sono strumenti le cui variazioni sono determinate dal sistema economico. Ricordiamo, la c.d. tassazione diretta ed i trasferimenti. La prima variabile, infatti, è determinata dal livello del reddito di equilibrio per cui tende ad aumentare quando vi è un maggiore reddito disponibile ed a diminuire nel caso contrario; essa tenderà, quindi, a frenare l’aumento della domanda aggregata nei periodi di espansione e ad incentivarla nei periodi di recessione. Nel primo caso, infatti, vi sarà una maggiore tassazione e, quindi, minor reddito disponibile per consumi, mentre nel secondo la pressione fiscale diminuirà ed i consumi potranno mantenersi ad un adeguato livello. Alcuni trasferimenti dello Stato tendono a variare secondo l’andamento del sistema economico. È il tipico caso dei sussidi alla disoccupazione il cui ammontare si riduce durante i periodi di espansione (maggior numero di persone occupate) ed aumenta durante i periodi di recessione (maggiore disoccupazione): questo permette di stabilizzare il livello della domanda globale evitando brusche oscillazioni tra i vari periodi. I tradizionali strumenti discrezionali di politica fiscale, invece, sono: la variazioni delle imposte e la variazioni della spesa pubblica. Una riduzione delle imposte fa aumentare il reddito disponibile e quindi il consumo aggregato; l’effetto prodotto da una variazione delle imposte dipenderà soprattutto, però, dalla propensione marginale al consumo. Se infatti le riduzioni interessano principalmente gli strati più poveri della popolazione, l’effetto sarà maggiore data la loro maggiore propensione marginale al consumo.
Una riduzione delle imposte sui redditi da capitale potrebbe anche stimolare gli investimenti; in questo caso, infatti, una riduzione del livello impositivo farà aumentare i profitti e renderà più redditizi gli investimenti. Effetti contrari si avranno, invece, nel caso di un aumento delle imposte.
Un aumento della spesa pubblica comporta un aumento del livello di equilibrio della domanda globale e, attraverso il moltiplicatore della spesa pubblica, un aumento del reddito disponibile. Il vantaggio di una variazione della spesa pubblica, rispetto alle variazioni del livello impositivo, è dato dal fatto che mentre una riduzione del prelievo fiscale serve in parte ad accrescere il consumo ed in parte ad aumentare il risparmio, un aumento della spesa pubblica non subirà dispersioni in quanto sarà interamente consumata nell’acquisto di beni e servizi. Ovviamente, una riduzione della spesa pubblica avrà effetti contrari sul livello della domanda globale.
Riassumendo gli effetti di una politica fiscale espansiva saranno perciò un aumento del reddito di equilibrio ed un tasso d’interesse più alto. Viceversa, una riduzione della spesa pubblica (o un aumento delle imposte) provocherà una diminuzione del reddito d’equilibrio e un tasso d’interesse inferiore. Ed è questo che dovremmo attenderci per la Grecia.
Concentriamoci adesso sugli eventuali benefici di una politica espansiva, ed al contrario verifichiamo gli effetti di una politica restrittiva. Bene, cominciamo a vedere i limiti ai benefici che una manovra economica espansiva può apportare al sistema economico, in termini di incremento del reddito di equilibrio. Gli effetti positivi possono essere, infatti, in parte ridimensionati dal così detto effetto spiazzamento. In pratica, se aumenta la spesa pubblica, vi sarà un parallelo aumento del tasso d’interesse (come è dimostrato nella figura) in quanto lo Stato, per poter collocare i propri titoli del debito pubblico, al fine di finanziare la spesa pubblica, deve offrire un tasso d’interesse più alto di quello normalmente praticato; ma se quest’ultimo aumenta, gli investimenti privati subiscono una flessione. Infatti, un numero crescente di imprenditori non ha più interesse ad investire nei settori produttivi perché è attratto dai benefici che consegue dal mero investimento finanziario. L’aumento del reddito generato da una spesa addizionale da parte dello Stato sarà, quindi, parzialmente neutralizzato da una riduzione degli investimenti privati; in altre parole, si può affermare che la spesa pubblica sostituisce in parte la spesa privata per cui l’aumento effettivo del reddito sarà inferiore a quello ipotizzabile senza l’effetto spiazzamento.
Se è vero quanto riferito, gli effetti negativi sulla domanda aggregata, pur in presenza di una manovra cosi forte come quella chiesta dall’Europa alla Grecia, non dovrebbero avere conseguenze ineluttabili. Punto due: la scarsa flessibilità nelle variazioni della spesa pubblica. Lo strumento della spesa pubblica è, infatti, poco flessibile in quanto gran parte delle erogazioni statali sono destinati a finanziare il costo di strutture e di servizi sociali (pubblica istruzione, sanità, pensioni ecc.) e/o sono legati a specifici programmi sociali che presentano un elevato grado di rigidità, ovvero, sono legati a progetti di investimenti pubblici che richiedono vari anni per essere portati a termine e non possono, quindi, essere sospesi o riattivati a seconda dell’andamento della congiuntura economica. Nel caso greco, tuttavia, l’elevata retribuzione media dei dipendenti statali in confronto alla loro produttività e l’alto livello di “corruzione” nella gestione della cosa pubblica è un elemento che depone a favore di un forte ridimensionamento della spesa. Punto tre: incertezza sull’efficacia di una variazione della pressione fiscale. E’ dimostrato (e sono molte le ricerche empiriche condotte in Europa) che una riduzione delle imposte fa aumentare il consumo, altrettanto non può dirsi per la loro efficacia nello stimolare gli investimenti privati. In questo campo, infatti, giocano un ruolo fondamentale le aspettative degli imprenditori i quali, in mancanza di segnali di ripresa del sistema economico, potrebbero semplicemente tesoreggiare la maggiore quantità di moneta a disposizione e posticipare le decisioni di investimento. Se allora gli investimenti sono stimolati più da segnali di ripresa economica che da tassi d’interesse bassi, forse può essere accettabile una politica che crei le premesse per una generale e condivisa fiducia nelle prospettive future.
Ciò premesso, come si vede non appare affatto scontato – sotto un profilo di teoria economica – l’efficacia della ricetta di Bruxelles. Peraltro, nel contesto della storia recente relativo alla formazione stessa dell’Unione Europea, un dubbio sorge spontaneo. Perché, nella fase della riunificazione della Germania – che è costata circa 1.500 Miliardi di Euro – l’onere dell’unificazione fu fatto pagare a tutta l’Europa e per il bilancio in disequilibrio della Germania, l’Europa non aprì alcuna procedura di infrazione? Comprendo che qui erano in gioco fattori interagenti ad ampio raggio, di natura soprattutto di politica internazionale che coinvolgevano tutti gli europei e legati direttamente ai nuovi equilibri nascenti con la caduta dell’Unione Sovietica. Bisognava adottare misure atte a salvaguardare e “indennizzare” comunque la nuova Russia con il ritiro entro i suoi confini di centinaia di migliaia di soldati e loro familiari dai territori della Germania dell’Est. Misure estremamente onerose. E i popoli europei non si tirarono indietro nel venire incontro a queste costosissime misure che Bonn (e quindi, poi, Berlino) dovette affrontare. Capiamo pure che ancora oggi l’ex RDT presenta sacche di forte squilibrio socio-economico non risolti dal governo tedesco. Ma, i riferimento agli avvenimenti europei cruciali di questi mesi, bisogna pure volgere lo sguardo indietro e non dimenticare queste cose. Rimane da salvaguardare l’idea di un percorso europeo in cui il governo tedesco non può non avere un ruolo insostituibile ed essenziale, ma ciò non significa schiacciante o esclusivo. Sarebbe un errore enorme.
In riferimento alla Grecia, comunque e sicuramente i conti non tornano in tutto. E’ anche vero, a onore di quanto accaduto appena qualche anno fa ai tedeschi, che una politica di estremo rigore fu loro imposta dal governo e che senza queste misure Berlino non avrebbe conseguito il miracoloso recupero di cui ora va fiera la Merkel. Ed è vero che in questi anni di difficoltà, greci, italiani, portoghesi, spagnoli ed altri popoli europei non hanno voluto stringere la cinghia come quello tedesco e possiamo anche capire come la cancelliera pretenda che pure gli altri partner facciano grandi sforzi. Ma c’è un limite oltre il quale un sistema politico-socio-economico non regge. E’ forse, appunto, il caso greco? Ricordo, tuttavia, per puro e semplice amore della verità, le tensioni politiche e le scadenti speculazioni che sono nate sulla loro scia, soprattutto negli USA (dove la strapotente lobby dei petrolieri e dei banchieri controlla molti mass media) con tanto di temutissima rinascita … del partito nazista, che hanno accompagnato l’elezione della cancelliera. E questo mi induce a due riflessioni. La prima, che oggi europei e tedeschi mancano di figure di grande rilievo in grado di sapere risolvere anche i maggiori dissensi e contrasti, personaggi quali Khol o Schmidt. La seconda riflessione: forse, al tempo, la Germania ha goduto oltre che del traino fornito dalla locomotiva americana, lanciata a tutta birra verso il disastro, di una troppo ampia apertura di credito da parte dei Paesi del Sud. All’odierno esecutivo tedesco possiamo rinfacciare tutto, ma non di non saper badare bene, anzi troppo bene ai propri interessi e di avere nelle dirigenze degli altri Paesi d’Europa più gregari che partner. Ma sarebbe il momento che Angela Merkel con tutta la sua squadra ripensassero tutta la loro azione politica e si ispirassero ai modelli e alle pagine migliori della storia tedesca in seno all’Unione Europea. E non perdessero al tempo stesso di vista le responsabilità delle società di rating nel caso greco e inizassero ad ingaggiare battaglia contro di esse, cercando dapprima gli indispensabili alleati all’interno degli USA. A buon pro per la Grecia, per l’UE e per tutto l’Occidente allargato.