21 Giugno 2012
Mino Mini
Le direttricie le svolte che urgono all’Europa
LA CHIAMEREMO EUROPA
Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo di Mino Mini, relativo al Convegno del Centro Studi Polaris. La prima parte era stata pubblicata il 13 marzo u.s. con il titolo: 18 proposte per uscire dalla crisi.
Il 14 giugno nella Sala Cinque Lune in p.za delle cinque lune in Roma il Centro Studi Polaris ha posto sul tavolo della discussione ventisei punti-base della propria concezione dell’ altra Europa da cui far scaturire una visione del continente che vada oltre la miserrima e traballante costruzione edificata con il trattato di Lisbona.
Polaris rileva come la “necessità d’Europa” vada oltre la deludente visione economicistica che caratterizza l’attuale consorzio di Stati privo di qualsiasi individualità politica sovranazionale. Individua, pertanto, come struttura fondante dell’altra Europa, quella confederale degli Stati con il fine di non annullare le singole identità individuali, ma di fare delle stesse gli elementi e le strutture costitutivi di un organismo di scala superiore con proprietà che i singoli elementi, da soli, non posseggono.
I punti- base, dunque, andranno correlati fra loro a costituire il sistema dell’edificio europeo e rappresentano la sfida alle intelligenze creatrici per la progettazione e costruzione del mondo europeo. Quel mondo per ora solo intuito, non sufficientemente indagato, che deve trovare, ora, la sua forma.
I punti-base
1
L’Europa è culla di civiltà, dalle Termopili al Reno, ed è unità spaziale da Brest a Vladivostock.
Civiltà d’impronta grecoromana, poi arricchita dal contributo dapprima germanico e quindi, al di fuori dalla famiglia linguistica indoeuropea, da quello slavo.
Civltà antichissima che si è caratterizzata per omogeneità e al tempo stesso per particolarità.
Il cammino del pensiero europeo, e delle istituzioni economiche, sociali, giuridiche d’Europa, ha visto il contributo di logiche diverse: mistiche e razionaliste, comunitarie ed individualiste, enfatizzate di volta in volta dal retaggio classico o dal riferimento religioso veterotestamentario o neotestamentario.
2
Eraglobale.
Il progredire della tecnica, il restringimento degli spazi e dei tempi, ha finito col promuovere la necessità di unificare piuttosto che dividere i vari ambienti geografici e culturali affini.
L’Europa, che per centinaia di anni fu il centro del mondo e lo scenario di contese e guerre tra i suoi popoli, da oltre mezzo secolo sembra destinata o all’unità o alla definitiva abdicazione.
Dopo due guerre mondiali, che retrospettivamente possiamo oggi considerare come guerre fratricide, la strada intrapresa dagli europei verso l’unità è stata pacifica e si è fondata, forse con troppo ottimismo, quasi solo sull’economia.
L’economia è stata a sua volta soppiantata dalla finanza ed è la ragione per la quale quando oggi si parla di Europa si pensa immediatamente alla mobilità e aleatorietà degli investimenti finanziari e speculativi e, in ultimo, alla BCE e alle politiche rigoriste che minacciano lo stato sociale.
3
Per accompagnare la costruzione europea sulla base economico/finanziaria sono sorte commissioni di tecnici e la rivoluzione dall’alto che dovrebbe caratterizzare la transizione dalle sovranità nazionali a quella europea è stata affidata a queste commissioni che non hanno quasi mai confrontato il loro operato con il pensiero popolare. Ne è scaturita una logica uniformatrice dettata da commissari (un po’ come i commissari politici del secolo XX) che hanno proceduto come cingolati in un’area urbana, spesso incuranti se non ignari delle conseguenze.
4
L’uniformazione è stata delegata alle Commissioni che hanno stilato i Trattati. I quali Trattati non sono stati privi di gravose conseguenzeò , ciò suggerisce di rimetterli in causa.
Il Trattato di Lisbona ha rappresentato una sorta di compromesso tra il principio intergovernativo e il principio comunitario, fra la cultura giuridica continentale, di tradizione romanistica e quella anglosassone.
La governance si è delineata per cessazioni parziali di sovranità e per acquisizioni parziali di sovranazionalità. Una traversata a metà del guado che ha finito col penalizzare la sovranità, sia nazionale sia europea, intesa come partecipazione attiva e condivisa, e con il rafforzare la logica della delega « tecnica » e del commissariamento.
L’Europa a metà è passata ad essere un’unione per regolamento anziché una comunità viva e si è trasformata in un’entità sotto tutela, più oberata da vincoli che lanciata a cogliere nuove opportunità.
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Solitamente, quando popoli, Stati e comunità sono sotto tutela, quelli che la esercitano sono figure rigide e ingessate che affrontano la realtà con dogmi che già sono o che diventano di carattere ideologico.
Il dogma ideologico dominante è quello del « mercatismo » che mostra chiaramente i suoi limiti di percezione vitale in riferimento all esigenze quotidiane dei popoli e di operatività di fronte a situazioni critiche imprevedibili, come è accaduto e come sta accadendo, in cui servono elasticità e inventiva.
L’Europa incompiuta dei Trattati e affidata ai commissari e ai regolamenti ha scarse possibilità di reagire alla crisi importata dagli USA anche per gli « Accordi di Basilea » che, nati per regolamentare le banche, hanno finito col paralizzare la liquidità frenando la leva finanziaria.
La delega all’Unione della politica monetaria da parte degli Stati membri e lo svincolamento giuridico della Bce – organismo privato e anazionale – rispetto alla stessa Unione, hanno prodotto una situazione unica e paradossale che rischia di far saltare, in misura e tempi diversi le economie di tutta Europa.
6
Uno dei limiti e dei difetti principali dell’attuale linea europea è quello di affidarsi ad una politica rigorista, d’ispirazione finanziaria, che prepone l’ ideologia della cifra a quella del vissuto. Per supportare questa logica si è ricorso ad una mentalità calvinista non familiare né consona a ben oltre i quattro quinti dell’Europa; il che rischia non soltanto di causare una retrocessione sociale ad ampio raggio, ma anche di snaturare completamente culture di lunga tradizione a tutt’oggi viventi e solide.
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Paradosso dei paradossi: la locomotiva dell’Europa, di quell’Europa che si prospetta rigorista e “calvinista”e non luterana né cattolica, è la Germania che, ricca della convivenza e della sintesi tra confessioni di vario orientamento, ha prodotto un modello sociale, comunitario e partecipativo del tutto estraneo a quello che i tecnici europei vorrebbero attuare nell’intero continente.
8
La Germania è nazione dall’assetto federale, che rispetta le autonomie e le specificità senza smarrire una concezione comunitaria unitaria. Lo fa sia nel vissuto che nei suoi ordinamenti.
Che nel pieno di una crisi mondiale essa sia l’unico paese occidentale a prosperare, al punto di aver recentemente aumentato i salari, è significativo.
Lo deve alla sua proverbiale energia e alla sua capacità di fare popolo ma anche alle scelte operative che non sono propriamente quelle imposte dal dogma dirigista.
9
In Germania è forte la partecipazione, innanzitutto quella dei lavoratori nelle imprese e quella delle forze sociali e sindacali nelle concertazioni.
Ma c’è anche la partecipazione territoriale. I Länder tedeschi nell’era del privato dilagante hanno prodotto la privatizzazione sociale, poiché i loro cittadini sono azionisti delle principali entità produttive locali.
Ciò ha determinato una diga alle delocalizzazioni e, quindi, alla disoccupazione.
La Germania investe all’estero senza delocalizzare: la tendenza opposta a quella dei paesi occidentali. E realizza, se non di diritto sicuramente di fatto, protezione di produzione nazionale e di lavoro tedesco.
La locomotiva viaggia in modo ben diverso dai vagoni e da come teorizzano i commissari.
10
Il modello uniforme, contraddittorio persino con la stessa “locomotiva” d’Europa minaccia lo sviluppo – altro e diverso – adatto ad aree dalla cultura politica e sociale peculiare.
Il centro-est, l’area danubiana, l’area mediterranea.
Ma ci sono non poche novità
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La Grecia è sotto i riflettori. Chiusa in una morsa tra speculatori internazionali, commissari europei dogmatici e classe politica nazionale parassitaria, è al default.
Vive drammi e tragedie e sembra costretta a scegliere se dover morire per iniezione letale o nella camera a gas.
La sua disperazione enfatizza suggestioni anti-europeiste anche da noi perché è facile essere categorici ed avere la tentazione di scaricare tutto il bene insieme al male.
Nella pia illusione che, precludendosi possibilità epocali, si risolvano o si leniscano i propri mali: il che è inesatto.
12
Si parla molto meno dell’Islanda che ha compiuto una rivoluzione in qualche modo paradigmatica. Di fronte alla bancarotta causata dai meccanismi finanziari, nel 2010 gli islandesi hanno nazionalizzato le banche e avviato un processo di democrazia diretta e partecipata che ha portato a stilare una nuova Costituzione che ha sottratto il Paese allo strapotere dei banchieri internazionali.
E’ stata rigettata la vecchia idea – tuttora perdurante in Europa – che il debito sia un’entità sovrana, in nome della quale sia sacrificabile un’intera nazione. Che i cittadini debbano pagare per indennizzare gli errori commessi da banchieri e finanzieri stranieri con i titoli tossici e le speculazioni sventurate.
L’Islanda in breve si è ripresa dalla crisi economica e, nel frattempo, un orientamento europeista si è fatto strada in controtendenza rispetto al sentimento greco.
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La scelta degli ungheresi di darsi una nuova Costituzione ha subito una serie di critiche per i suoi riferimenti metafisici, per la decisione di mantenere un controllo sulla Banca Centrale, per i riferimenti alla famiglia, per la decisione di tutelare la musica e la cultura ungherese e di spingere i media ad educare alla gioia della vita e non alla disperazione.
Una Costituzione non meccanica, fondata sull’anima. Dunque eterodossa rispetto ai manuali meccanici della burocrazia e della tecnocrazia.
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Le risposte dei popoli e talvolta dei governi all’uniformazione burocratica e finanziaria sono molteplici e attestano che di sicuro il modello dominante non va bene per tutti, anzi quasi per nessuno visto che la locomotiva d’Europa lo interpreta in modo suo e ben diverso dalle teorie.
Appare evidente che sia necessario rispettare le singole volontà e cercare anche di coordinarle.
La soluzione ottimale potrebbe essere fornita da un’architettura meno Unionista e più Confederata. Con la composizione di aree omogenee (ritagliate per esempio sulle direzioni Parigi-Berlino-Mosca; Roma- Budapest – Kiev; Madrid – Roma – Atene) e con una gestione confederata delle politiche, anche economiche, europee sulla base di diversi fattori (popolazione, produzione, stabiltà, equità sociale, PIL, ecc).
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Un discorso analogo vale per l’Euro. La valuta oggi accusata di essere responsabile delle crisi che attraversano l’Eurozona.
L’Euro non appartiene ad uno Stato (neppure quello europeo che non esiste) né a un popolo, né ai popoli; e questo lo rende assoluto. In qualche modo titanico; al punto di esser giunto a venir proposto come unità di scambio internazionale in un paniere insieme a Yuan e Dollaro e a discapito dell’unicità di quest’ultimo.
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L’affermazione dell’Euro ha prodotto una serie di contraccolpi, tra i quali non poche rivoluzioni politiche sullo scacchiere internazionale, Ma non è riuscito ad emanciparsi a fondo perché non è supportato da alcuna autorità politica e perché gli economisti della BCE si devono barcamenare tra interessi europei e scelte americane. E le scelte americane sono quelle di far pagare ai politicamente più deboli le crisi della propria finanza tossica.
Il contraccolpo per noi è stato violento, talmente violento che ci si è resi conto dei punti deboli della valuta comune, enfatizzati fino a ipotizzare che il toccasana possa essere rappresentato dalla sua cessazione, benché questa comporterebbe l’abdicazione definitiva, sugli scenari mondiali, alle finanze americana e cinese.
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Se l’Euro appartiene solo alla BCE e la BCE non appartiene a nessuno Stato e a nessun popolo, ovviamente l’Euro ha una debolezza politica e le economie che gli sono collegate sono deboli in termini di sovranità e di controllo.
Ben diversa è la situazione presso i competitors. In Cina, per esempio, la direzione della Banca Nazionale è di stretta nomina politica.
Inoltre Cina e Usa, ma anche altre economie in crescita, come il Brasile, attuano una politica protezionistica e non esitano, ove necessario, a nazionalizzare banche. L’Europa, nano politico, si trova invece ad essere l’unica che accetti le imposizioni internazionali che le vietano ogni protezionismo e che la obbligano alla privatizzazione incessante e alla de-politicizzazione dell’economia finanziarizzata.
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Se l’Euro apparterrà non più alla BCE ma, tramite la BCE, ai popoli europei; se la BCE avrà cioè una direzione politica confederata da parte degli Stati europei, la cui nomina sarà determinata proporzionalmente in virtù del triplo valore PIL – stabilità finanziaria – equità sociale presso i membri (intesi come nazioni o anche come rappresentanze delle aree omogenee) e se la finanza, così non più disancorata dalla politica e dalla produzione economica, assumerà una dimensione organica, allora sarà possibile approntare i correttivi necessari nella politica economica e mantenere il peso recentemente acquisito in chiave mondiale.
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Solo una politica che diriga la finanza (e non il contrario) potrà consentire che la valuta sia soprattutto mezzo per incrementare la produzione e che questo comporti la salvaguardia e il rinnovo – magari anche in quadri del tutto diversi dal passato – degli stati sociali. Perché se non si deve più permettere loro d’incancrenirsi in assistenzialismo parassitario non si deve neppure accettare che ciò comporti la retrocessione sociale e civile d secoli di conquiste europee.
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Forse è il caso di realizzare, giuridicamente e nelle sedi di rappresentanza, un controllo politico, una sovranità politica di tipo confederato che abbia autorità ma che sia anche garante delle diverse aree culturali e delle diverse strutture sociali. Si devono poter declinare anche diverse politiche fiscali e più aree monetarie (o fasce nella medesima valuta) che non mettano in pericolo il potenziale della valuta europea di riferimento, al fine di adattare, armonicamente e in concerto, le singole necessità con quelle più ampie, senza pretendere che queste calpestino quelle irrimediabilmente.
Questa filosofia e questo modello garantirebbero la costruzione dell’Europa dei popoli e delle Patrie – una seppur plurima – enfatizzando anche i ruoli, culturali e geopolitici, delle singole componenti.
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Così l’Italia, ponte tra le due sponde del Mediterraneo, potrebbe assumere un ruolo primario nelle cooperazioni economiche e culturali verso sud e nel cambio di tendenza sui flussi migratori.
E potrebbe pure accompagnare l’ENI e Finmeccanica, se ancora autonome, nella rotta verso est: Turchia, Russia, Repubbliche turco mongoliche dell’Asia centrale, limes del XXI secolo tra Europa e Russia, Cina, India, e nuova pedina nella scacchiere dei giacimenti e dei rifornimenti energetici, in cui gli USA già si sono installata. N.d.a: – Non di meno e in maniera apparentemente incomprensibile sta operando un Paese insignificante per popolazione e dimensioni geografiche ma non per apparato industriale bellico e per capacità di creare tanto nuove alleanze a suo vantaggio quanto capacità di creare ancora più gravi squilibri: Israele).
Per fare ciò, essa deve far fronte alla crisi senza dismettere, svendere o cedere in alcun modo, i suoi asset strategici né rinunciare ai propri naturali orientamenti geopolitici, geoeconomici ed energetici. In misura proporzionata, gli altri ponti naturali costituiti da Spagna, Grecia e Turchia potrebbero completare l’attuazione dell’integrazione nord – sud dell’aera pan mediterranea o Mediterraneo Allargato, in una prospettiva di medio – lungo periodo.
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Più precisamente, la dinamica positiva di un’Europa completata e profondamente rinnovata non può esimersi dal riallaccio di antiche rotte commerciali e culturali ed oggi anche energetiche che ci spingono, come da tempo ha ben capito la Germania, ad una relazione sempre più organica con alcuni dei paesi componenti la cerniera eurasiatica della SCO (SCO: Cina, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia, Tajikistan, Uzbekistan), avendo tra questi come partners privilegiati la Russia e il Kazakhstan e facendo della SCO nel suo insieme un interlocutore a pari titolo del mondi europeo e atlantico e dunque un correttore degli squilibri internazionali di tutto l’emisfero borele..
E’ una questione di destino: culturale, geografico e strategico oltre che storico.
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Un’Europa così non può che partire da una logica partecipativa, non classista, rigettando qualsiasi dogma che, nella pretesa di promuoverla, la paralizza.
Partecipazione, non solo in senso economico, ma anche di condivisione delle responsabilità nel delineare il comune destino, significa elevarsi al di sopra dei dogmi e dei dualismi (come quello capitale/lavoro) al fine di guidare la propria macchina anziché essere passivi passeggeri teleguidati.
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L’Europa più che di dogmi è vissuta di Miti e i miti si vivono, si capiscono, s’incarnano e si adattano come hanno spiegato al mondo la Grecia e Roma, in grado anche in concreto di confrontarsi con il Nomos del Mare e con il Nomos della Terra, invece di farsi piallare e annientare da suggestioni leviataniche. Le radici greco-romane e tutto il portato della storia e della cultura che si sono innestate su di esse sono in grado di far fiorire la pianta europea e di farle dare frutti.
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Difendere l’idea di Europa in tutta la sua ricchezza e la sua specificità.
Garantire che la sua architettura e la sua potenza siano l’armonia delle singole culture e tradizioni europee, dei singoli popoli e delle diverse Patrie.
Fare dei popoli europei i signori del proprio destino e far sì che lo possano disegnare nella propria sintassi, mettendo a frutto le proprie saggezze.
Rendere l’Europa non più un vaso di coccio ma un competitor globale, ricco di empatie relazionali, in particolare con i popoli e le culture con cui essa è in maggior relazione storico-geografica.
Non andare in dismissione, sociale, economica o culturale, ma rinnovarsi con lucida razionalità non disgiunta da un grande entusiasmo.
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Tutto questo a noi pare indispensabile.
E ci sembra che non sia il momento di mettere in discussione l’Europa e neppure l’Euro.
Non come idea e non come potenzialità.
Non mettere in discussione vuole anche dire, però, riformare strutturalmente e radicalmente diversi meccanismi politici comunitari, i Trattati, il rapporto tra Stati, popoli e BCE, e la filosofia finanziaria, economica e sociale.
Riformare strutturalmente e presto. Questo significa che i capi di Stato e di governo devono indicare la via d’uscita su come i commissari possano riformare il loro ruolo e, soprattutto, il loro modus operandi. Per ciò, sarà necessario passare non dal trattato di Lisbona ma da dal precedente di Nizza alla svolta definitiva per l’Europa del futuro prossimo.