UE, BCE e politica monetaria. I forti limiti e l’incapacità di ruolo di una leadership tedesca

05 Ottobre 2012

Enea Franza

 

Mentre Angela Merkel deve fare ogni giorno i conti con le egoistiche e inconcluenti opposizioni interne, anche del suo partito, la Germania sta vedendo sfumare un’occasione storica per porsi come indiscussa leader nel processo di unificazione europea. – I “segnali forti” dati dal governatore della BCE Draghi tuttavia perdono di efficacia per l’alto grado di incisività del “board” della speculazione internazionale e per la miopia della banca centrale germanica e di alcuni ministri di Berlino che, agendo come gli inglesi “imperiali” di ieri e gli americani dei petrodollari di oggi, annegano nel loro piccolo egoismo e trasformano tutto in un naufragio continentale davanti al dilagare della Cina e delle economie emergenti. Cosa farebbero, cosa faranno costoro senza la pur debole e malaticcia Europa? – Ridare forza alle ultime decisioni della Merkel, perché risanare le economie malate non avvenga con lo spreco della ricchezza del lavoro e dei sacrifici tedeschi ma attraverso un maggiore processo di unificazione politica e un meno draconiano programma temporale di rientro dal debito, al fine di non distruggere economie e popoli in crisi. – Rifiutiamo la demogagia di Silvio, sempliciotta rozza e strumentale, di escludere la Germania dall’Europa a 17 . Ovvero, né la Germania da sola né gli altri partner tutti assieme ma senza di essa, fanno “sistema”. E non fanno neppure storia e, soprattutto, futuro. – Eulà

Inutilità della politica monetaria, ovvero, sulla resilienza

 

Sullo scranno più alto della BCE siede, dal novembre 2011, Mario Draghi e non può certo dirsi che la politica monetaria sia rimasta nel solco tracciato dal suo predecessore. Il 3 novembre, appena insediato, infatti, Draghi taglia i tassi di un quinto di punto ed il mese successivo procede ad un altro taglio; si raggiunge quindi in breve il tasso dell’1%.
Ma l’effetto Draghi non investe solo la politica dei tassi d’interesse. A fine novembre 2011, le banche europee, ma in particolare quelle dei paesi periferici, visto il blocco del mercato interbancario, si sono trovate ad essere sempre più dipendenti dai prestiti della BCE. La questione non lascia indifferente il governatore della BCE e la mano di Draghi si fa sentire pesantemente: la banca centrale decide di allungare a tre anni la durata dei prestiti concessi all’1% e all’operazione partecipano 523 istituti. I mercati sembrano ritrovare la pace. Ma anche qui, la quiete è apparente. L’operazione maxi-finanziamento si ripete a febbraio 2012. Questa volta sono coinvolte altre 800 banche.
In totale, in pochi mesi, le due aste portano al sistema bancario oltre 1.000 miliardi di Euro.
Le banche con questi soldi comprano i propri bond in scadenza e sottoscrivono i titoli di stato dei paesi dell’area euro, soprattutto di Grecia, Spagna ed Italia, sostenendone le quotazioni. Poco, come oramai tutti sanno, affluisce all’economia reale. Ma i mercati non sembrano placarsi.
La fine della primavera porta nuove e forti turbolenze e la BCE, nella riunione di luglio, decide per un’ulteriore riduzione di 25 punti del tasso di rifermento portandoli al nuovo record minimo dello 0,75%.
Ad una prima reazione positiva, con un miglioramento negli spread dei titoli di stato dei paesi in difficoltà segue un’estate di alti e bassi dove le riunioni periodiche della BCE non risolvono il dubbio su quale sia il reale mandato che ha l’Istituto di emissione.
L’estate trascorre nella discussione sui fondi salva-stati. In particolare, nell’attesa della pronuncia dell’Alta corte di giustizia tedesca sull’impegno della Germania nell’ESM (European Stability Mechanism), il fondo destinato a sostituire l’EFSF e Draghi nel frattempo consolida la sua posizione facendo ingoiare al membro tedesco della BCE l’idea che la Banca centrale Europea abbia mandato in via ordinaria per intervenire negli acquisti sui mercati secondari di titoli pubblici con scadenza entro i tre anni.
Dopo questa sintetica rassegna delle decisioni di Draghi, soffermiamoci po’ sulla questione dei fondi salva Stati, che assieme al “nuovo corso” del governatore della BCE costituirebbero la c.d. linea di fuoco contro la speculazione sull’Euro.
Com’è forse noto, l’EFSF (European Financial Stability Facility), con capacità di prestito originaria pari a 440 miliardi di euro, messo a punto dall’Unione Europea nel 2010, era stato progettato in funzione della crisi debitoria che aveva colpito prima l’Irlanda ed il Portogallo, poi la Grecia. L’obiettivo principale di tale strumento è l’erogazione di prestiti agevolati verso gli Stati membri che affrontano difficoltà finanziarie, in particolare per quanto riguarda il rifinanziamento del debito pubblico. Bene, l’accesso al finanziamento può avvenire solamente al verificarsi di alcune ipotesi. Innanzitutto, il Paese richiedente deve essere impossibilitato a rifinanziare il proprio debito a tassi ritenuti “accettabili”: l’indicatore principale è dunque lo spread sui titoli a media scadenza, generalmente basato sulla differenza con la Germania. Il governo nazionale poi deve richiedere ufficialmente aiuto, mentre l’approvazione definitiva è ottenuta in seguito ad un negoziato con la Commissione Europea, il Fondo Monetario internazionale e la BCE. In questa fase vengono concordate le condizioni per l’erogazione dei fondi, che normalmente riguardano la ristrutturazione dei conti pubblici in termini di sostenibilità.
A partire da luglio 2012, all’EFSF è stato affiancato il nuovo strumento, lo European Stability Mechanism (ESM). In linea di principio, infatti, il vecchio fondo dovrebbe cessare l’erogazione di prestiti nel 2013 (anche se rimane in funzione fino al rientro dei finanziamenti già in corso, pari a 200 miliardi).
Di fatto l’ESM, ratificato ufficialmente a luglio 2011, dovrebbe dunque sostituire il fondo precedente, del quale dovrebbe anche incorporare la dotazione residua. La gestione è affidata ai ministri delle Finanze dei paesi dell’area Euro, che decideranno sull’erogazione a maggioranza qualificata, sotto la supervisione del Commissario agli Affari Economici e del governatore della BCE. Sarà, inoltre, possibile l’accesso ai privati per aumentare la capacità di finanziamento, anche se il meccanismo attuativo non è stato ancora definito.
Vediamo più nel dettaglio di cosa si tratta. Il Fondo viene costituito dai Paesi dell’Eurozona con un capitale interamente versato di 80 miliardi (l’esborso effettivo, non le garanzie e impegni), da pagarsi in tre tranche: 32 quest’ anno, 32 nel 2013 e 16 nel 2014. La quota di ogni Paese è proporzionale al suo peso economico: 27% Germania, 21% Francia, 18% Italia, 12% Spagna, 6% Olanda, eccetera. Il capitale versato non finanzia direttamente gli Stati in crisi, ma funge da garanzia per sfruttare la leva finanziaria. Ovvero, il Fondo interviene a sostegno degli Stati in crisi, ed in particolare dei loro sistemi bancari (novità questa di non poca importanza considerato l’effetto degenerativo che le crisi bancarie hanno avuto in molti paesi della vecchia Europa, Irlanda fra tutti!), erogandogli risorse attraverso, per esempio, l’ acquisto di debito pubblico in emissione, o di prestiti bancari in sofferenza. E finanzia l’ acquisto di queste attività emettendo proprie obbligazioni sul mercato, che vengono garantite dalle attività comperate, oltre che dal suo capitale.
Tutto bene? No, sotto questo aspetto non sono poche le critiche. Alcuni già sostengono che se Il rendimento di queste obbligazioni corrisponde al costo dei fondi ESM per gli Stati “salvati”, essenziale che il Fondo abbia un rating elevato, per mantenere il costo basso. Tuttavia, il rating dipende dalla qualità delle attività in bilancio all’ESM a garanzia delle sue obbligazioni che, nel nostro caso, non possono essere che i debiti degli Stati finanziati. Proprio gli Stati che, si ricordi, hanno chiesto accesso all’ ESM perché in difficoltà. Va da sé dunque che il rating non può essere molto alto, anche se occorre sottolineare che la probabilità di default simultaneo di Grecia, Francia ed Italia appare un evento non solo scongiurabile ma effettivamente poco probabile e che anche solo per tale ragione il rating del fondo ESM dovrebbe almeno essere migliore di quello delle peggiori obbligazioni in pancia (almeno di una gestione suicida del Fondo).
Per ovviare al problema i Paesi, oltre al capitale iniziale, si sono impegnati a fornire all’ESM fino a 620 miliardi, sempre pro quota, per ripianare eventuali perdite e/o ricostituire le garanzie. Ma l’ Alta Corte tedesca limitato l’impegno della Germania al 27% iniziale, per cui il maggior impegno dovrebbe venire proprio dai Paesi in maggiore difficoltà.
C’è allora solo da sperare che il mercato finisca per apprezzare l’impegno dell’ESM acquistando le obbligazioni emesse? Anche se qui buone ragioni per dare fiducia al fondo non mancano – una per tutte, il fondo infatti è fatto di 17 paesi, alcuni dei quali davvero virtuosi – occorre tuttavia considerare che l’unico precedente che esiste non fa bene sperare; le obbligazioni emesse, infatti, dall’attuale ESFS per un totale di appena 130 miliardi pagano 100 punti in più rispetto al bund tedesco!
Di tutto questo che qui rappresento ai lettori, i mercati sono ben consci e le perturbazioni che ogni giorno colpiscono i mercati borsistici non fanno altro che rifletterne plasticamente i contenuti.
Morale? La politica monetaria in senso ampio non può risolvere i problemi che affliggono il vecchio continente. Forse … dare un po’ di ossigeno ad un ammalato che tuttavia resta tale, anche dopo queste nuove decisioni, è indispensabile.