Sclerosi regionalistica, malaffare politico, dispendi dirigenziali, disintegrazione pubblica

12 Ottobre 2012

Mino Mini

 

Ricordiamo su queste colonne che eravamo rimasti tra i pochissimi oppositori del regionalismo, anzi del federalismo più sfrenato. Sui recenti scandaletti e sulle decisioni del governo nulla abbiamo scritto: cose di poco conto, prima di arrivare davvero a voltare pagina. Essi stanno servendo come stura, per dare una sveglia all’indignazione dell’opinione pubblica, non certo per individuare certi ladruncoli da pollaio d’oro e piccoli mali al posto dei grandi mali della corruttrice e pervertitrice democrazia dei partiti.

E intanto veniamo a sapere che l’artefice primo di questo disastro, quel tale Bassanini, non finisce mai di stupire: sta alla guida della Cassa Depositi e Prestiti. Che scandalo, e di che proporzioni mai è questo? E nessuno ne parla? Chi ce l’ha messo? Perché non viene rimosso seduta stante? Perché non se ne chiede l’ “incriminazione politica” per le scelleratezze compiute con la banda Dababe? Perché Bersani tace: per coprire l’altro distruttore del comparaggio, D’Alema? E cosa si dice in Parlamento su questo affaire? E Monti, perché tace? – Italia Europa e Libertà!

 

Ragioni contro le Regioni

RATIO ADVERSUS REGIONEM

 

L’ottimo articolo di Adalberto Baldoni sullo scorso numero de Il Borghese – Affarismo e clientelismo – ha messo in luce il fallimento delle regioni divenute, nel corso di 42 anni “un contenitore di clientelismo, affarismo, malaffare, corruzione”. Conclude la prima parte dell’articolo affermando: “ L’ente è sbagliato nelle dimensioni, nelle strutture, nelle competenze, negli organi, nei meccanismi di controllo. Sarebbe quanto meno da rifondare; con mentalità nuova, sgombra dai motivi di lotta per il potere, tesa alla ricerca del decentramento più razionale”.
A questo punto occorre domandarsi: ne vale la pena?
Ad avviso di chi scrive il problema è molto più complesso di quello costituito dalla elefantiaca proliferazione del parassitismo burocratico, dalla corruttela della classe politica e dall’enorme dispendio di risorse. Basti pensare a due particolari aspetti: la disgregazione dell’unità nazionale; la incapacità legislativa unita a quella di una mancata attuazione concreta delle strategie di governo del territorio.
Cominciamo con la disgregazione dell’unità nazionale.
Nel lungo processo che portò alla formazione dell’Italia nel 1871, l’unità organica, mai totalmente compiuta, si andò progressivamente formando attraverso conflitti interni ed esterni,violenti e sanguinosi, svoltisi – più o meno felicemente – nell’ambito della struttura unificante della monarchia. Con la costituzione repubblicana del dopoguerra la struttura unificante venne meno ed il processo di formazione dello Stato unitario – non ancora compiuto – subì, culturalmente ed istituzionalmente, un’inversione di rotta che si concretizzò nel 1970 con l’istituzione delle regioni intese come entità distinte per presunta individualità propria.
E’ qui la matrice della disgregazione perché in realtà nessuna regione, nemmeno le isole, avevano una individualità definita né l’hanno a tutt’oggi. Addirittura, in alcuni casi, perfino la loro definizione territoriale è stata il frutto di una delimitazione di confini puramente amministrativa. Oggi, dopo 42 anni di esperienza regionalistica, l’Italia è divenuta una sommatoria di enti dotati di uno statuto mentre avrebbe dovuto diventare, secondo il processo di formazione, un organismo territoriale unitario.
Qual è la differenza? La sommatoria è solo una elementare aggregazione meccanica che assume identità collettiva in ragione del minimo denominatore comune. In quanto minimo, per effetto delle differenze tra le diverse ragioni, tale denominatore può rivelarsi alquanto basso. Un organismo, al contrario, è un TUTTO di cui ogni componente è parte integrante e indiscindibile.
Perché il TUTTO possa formarsi occorre, però, che ogni componente – ovvero ogni regione – abbia raggiunto la sua completa individualità. I greci l’avrebbero chiamata “entelechia” ovvero lo stato di perfezione di un ente che ha raggiunto il suo fine (telos ) attuando pienamente il suo essere in potenza. Solo allora, in ragione di questa legge organica, reale e non astratta, l’organismo Italia avrebbe potuto raggiungere anch’esso la propria “entelechia” di livello superiore assumendo in toto i caratteri regionali, ma acquistando – così potenziata – proprietà che le regioni, singolarmente, non posseggono né possono acquisire. E solo dopo aver raggiunto tale “entelechia” l’organismo può diventare, a sua volta, componente di un organismo a scala ancora superiore come l’Europa. Essendo, invece, cristallizzata al livello di semplice sommatoria di entità distinte solo per definizione amministrativa, la stessa è vocata alla dissoluzione. Infatti il peggio deve ancora venire. Le regioni economicamente più avanzate o più virtuose hanno, a livello internazionale, esigenze di partecipazione che solo l’organismo Italia può soddisfare. Ma essendo l’organismo nazionale dis-organico (proto il trattino), le singole regioni ritengono e rivendicano di poter autonomamente svolgere le funzioni del TUTTO essendo, in realtà, solo una parte.
Si potrebbe disquisire a lungo su questo aspetto, ma riteniamo che la cronaca delle vicende politiche di questo disgraziato paese – la Lega, la Liga veneta, l’autonomismo alto-atesino, l’autonomismo sardo, la confusionaria riforma del Titolo V della Costituzione varata dal centrosinistra etc. – denunci ampiamente il fenomeno di disgregazione dell’unità nazionale.
Vediamo ora l’incapacità legislativa e quella di concreta attuazione delle strategie di governo del territorio premettendo che, per illustrare adeguatamente questo aspetto, necessiterebbe una trattazione a carattere enciclopedico.
Siamo nel vastissimo campo di attività che abbraccia l’urbanistica, l’edilizia e l’architettura.
Ricordiamo a chi ci legge che tutto iniziò con il DPR 8/72 (Decreto Presidente della Repubblica), ma solo con il DPR 616/77 si dette impulso al trasferimento dei poteri dello Stato alle regioni. Per quanto riguarda l’urbanistica gli articoli significativi di questo secondo DPR furono l’80, l’81, l’82, e l’83: Il primo riguardava l’urbanistica in generale, il secondo, l’81, riguardava il trasferimento della materia urbanistica alla regione e la possibilità che lo Stato si era riservata di autorizzare opere di interesse nazionale in deroga agli strumenti urbanistici, l’art. 82 riguardava l’autorizzazione ex art, 2 della legge 1497/39 di opere soggette a tutela paesaggistica, l’ultimo articolo, l’83, riguardava l’ambiente. Insomma l’insieme delle competenze sul governo del territorio.
Non vogliamo entrare nel vortice delle legiferazioni messe in atto dalle regioni attinenti la materia urbanistica. C’è da farsi venire il mal di testa. Si pensi, per fare un esempio, che l’ultima legge regionale del Lazio emanata il 13 agosto 2011 con il n.10 comporta modifiche a ben altre undici leggi sull’argomento emanate nell’arco del periodo 1987-2009. E non si pensi che nelle altre regioni sia diverso. Ci preme, invece, rilevare il lato oscuro della gestione del territorio.
Una volta trasferiti i poteri, ogni regione diventò arbitro della urbanizzazione del proprio territorio in quanto deputata all’approvazione dei piani regolatori nei quali viene prescritto dove e quanto si può costruire e di conseguenza dove, invece, ciò è precluso per destinazione urbanistica o per vincolo.
E’ opportuno tener presente che l’attività edilizia è intesa come un processo economico, un grande fiume le cui sorgenti sgorgano dalla proprietà dei terreni edificabili. Scorrendo bagna diversi campi: la realizzazione degli edifici; la compravendita immobiliare; il finanziamento bancario e la speculazione sui mutui immobiliari che è all’origine della crisi economica che ci affligge. Va da sé che, nell’ambito di una visione economicistica della cosa pubblica, ma soprattutto del suolo regionale ridotto a valore di scambio, i piani urbanistici non sono strumenti di ordinamento del territorio – come dovrebbero – ma strumenti di attribuzione di diritti immobiliari. Alcuni vengono beneficati, altri ignorati, altri ancora espropriati a prezzo “politico”.
In base a quale criterio?
Ma è ovvio: in base alla “vocazione” delle aree e degli elementi che configurano i territori. Sembrerebbe, quindi, che il criterio sia fondato su una presunta condizione oggettiva, ma a tale criterio se ne sovrappone un altro: l’interpretazione delle vocazioni.
A chi spetta l’interpretazione?
Sin dagli inizi del governo regionale chi detenne il potere di interpretare “politicamente” la vocazione dei terreni e renderli, così, edificabili ebbe in mano la chiave del processo economico dell’edilizia. Ebbene, il detentore della chiave magica, dal 1977 in poi, è stato l’assessore all’urbanistica il quale, con il necessario ausilio di tecnici di fiducia, che opportunamente aveva affiancato alla struttura tecno-burocratica dell’assessorato, è stato in grado di conoscere l’estensione e la capacità edificatoria di ogni terreno regionale.
Valuti chi legge quale tentazione ebbe a rappresentare per l’assessore, per il partito che lo sosteneva e per la sua corrente, la possibilità di porre un “pizzo” per ogni mq. o per ogni mc. edificabile. Si consideri che già prima di arrivare agli uffici della regione il piano regolatore, come ogni altro strumento urbanistico, aveva generato , nel comune di provenienza il versamento di un obolo di riconoscenza per vocazione ricevuta all’assessore locale. Occorreva, però, che quest’ultimo fosse dello stesso partito o della stessa coalizione dell’assessore regionale e quasi sempre era proprio il regionale che “suggeriva” al locale il nome dell’urbanista di fiducia per la redazione del piano.
Ma i piani, come diceva un mio collega, non sono di marmo e coloro ai quali era stato negato il diritto immobiliare lo hanno sempre saputo. In loro aiuto, infatti, c’era sempre la possibilità – decisamente più onerosa – di ottenere un’eccezione tramite un altro comodo criterio: il “salvo diversa dimostrazione”.
Valuti il lettore quanti vincoli furono rimossi in quarant’anni, quante varianti, quanti piani di attuazione furono approvati mediante il ricorso al criterio del “salvo diversa dimostrazione”.
Offriamo al lettore ancora un motivo di riflessione. Nell’anno del Signore 1990 fu emanata una legge di “Riforma sociale dello Stato” con il numero 142/90 che fissava il nuovo ordinamento delle autonomie locali. In essa lo strapotere delle regioni veniva ridimensionato prevedendo che l’approvazione degli strumenti urbanistici fosse delegata alle provincie. Nel Lazio, ad esempio, tale delega non fu mai concessa per ragioni facilmente intuibili: perdita della possibilità di esercitare l’interpretazione delle vocazioni e del “salvo diversa dimostrazione”. La motivazione addotta, ovviamente, fu la necessità di una nuova legge urbanistica regionale. Nove anni dopo, finalmente, la legge urbanistica regionale vide la luce come L.R. 38/99 – una delle migliori legislazioni regionali sul governo del territorio – che prevedeva, come imponeva la legge dello Stato 142/90, la delega alle provincie in materia di approvazione dei piani urbanistici comunali. Ancora oggi – siamo sempre nel Lazio – tale delega non è stata ancora attuata. Non mancano, certo, motivazioni a spiegazione di questa inerzia regionale laziale, non ultima – anche se non espressa – l’aspettativa dell’abolizione dell’istituto della provincia. Infatti, anche se il grande fiume dell’attività edilizia, per la siccità dovuta alla crisi planetaria, è al momento un po’ in secca talchè dagli operatori del settore si lamenta lo stato di calamità nazionale, non si è persa, però, la speranza, una volta “passata la nottata”, di poter riprendere la pesca fluviale che fu tanto proficua e, soprattutto, non rintracciabile da Equitalia.
Altro che la gestione dei fondi dei partiti nella quale si dilettano un po’ tutti !
Ma c’è un problema da risolvere: regionalismo e partitocrazia’assessore regionale di gestire i diritti immobiliari devono, ora, essere delegati alla provincia. Ecco allora levarsi da più parti il coro di coloro che ne vogliono l’abolizione per ragioni di risparmio economico.
In realtà, alla luce della storia quarantennale dell’istituto regionale e constatando i disastri urbanistici e ambientali che la gestione regionale non ha saputo evitare o ha, addirittura, favorito, appare di gran lunga più logico che sia l’istituto regionale ad essere abolito. Soprattutto in considerazione del fatto che la mancata azione di pianificazione territoriale di competenza regionale, blocca quella di provincie e comuni obbligati a porsi in armonia con le previsioni della pianificazione regionale. Se non fosse che, davanti all’attivismo pianificatorio provinciale – quando c’è – la regione deve, “obtorto collo”, dare la sua approvazione.
Ma cosa impedisce alle regioni di svolgere le funzioni di pianificazione territoriale? Il tempo.
Rimaniamo all’esempio laziale.
Un piano territoriale regionale generale ( PTRG ) richiede tempi lunghissimi di redazione. Prima occorre far fronte alla necessità di aggiornare il sistema informativo territoriale regionale ( SITR ), quale rete informatica unica per tutto il territorio regionale. Funge da base indispensabile per il quadro conoscitivo e, per legge, deve essere condiviso. Dopo si deve raggiungere la concordanza sugli obiettivi di assetto e sulle linee principali di organizzazione del territorio nonché sulle strategie e le azioni volte alle loro realizzazioni. In sostanza si tratta di tener conto degli interessi di tutti i comuni e delle relative provincie. Dei primi soprattutto quelli che sono il bacino elettorale dell’assessore regionale e delle seconde per l’analoga ragione. Vi sono, infine, i tempi tecnici di redazione del PTRG che sono, obiettivamente, assai lunghi. Ne consegue che un’amministrazione regionale, che ha una vita politica ragionevolmente certa della durata di cinque anni, dovrebbe investire la quasi totalità della sua legislatura per redigere il PTRG. Se ha la certezza di ritornare al potere per goderne i frutti – il caso di regioni i cui comuni siano dello stesso schieramento politico – può arrischiare la redazione del PTRG. Se ha il minimo dubbio di non tornare al potere non si metterà a lavorare per una compagine avversaria che potrebbe succederle la quale, di sicuro, avvierà la redazione di una variante del PTRG per adattarlo ai propri interessi.
Ma vi è di più: il PTRG deve essere integrato da piani regionali di settore ovvero dai piani territoriali paesistici, dai piani delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale, dai piani delle aree naturali protette. Ê quando mai un’amministrazione con cinque anni di vita potrà realizzarli? Quando, appunto, la regione è “virtuosa” perché politicamente stabile nella sua unità politica.
A meno di mettere in atto uno stratagemma come quello tradotto in opera, sempre nel Lazio, dalla giunta Storace. Succeduta alla giunta Badaloni nel 2000, si trovò un Quadro di Riferimento Territoriale ( QRT ) adottato nel 1998, ovvero in epoca anteriore alla L.R. 38/99. Con una “spolveratina” fu adattato a Schema di Piano Territoriale Regionale Generale e adottato. Rimase, però, uno schema non sviluppato.
Alla luce delle esperienze maturate sarebbe molto più logico che il PTRG e i suoi piani di settore venissero redatti, fuori dalle logiche partitocratiche, da un’organizzazione extra regionale ad hoc ed affidato, per la gestione, alle provincie che hanno una incidenza territoriale molto più efficiente di quella della regione. Le stesse dovrebbero operare sotto la direzione e la supervisione di una magistratura tecnica – un “magister territorii” – con compiti di coordinamento, di indirizzo e di controllo.
Ci rendiamo conto che una figura come questa non può essere liquidata con un semplice nome. Come già facemmo per l’analogo “magister urbis”, vedremo di farne oggetto di una prossima trattazione.