Mario Scaffidi Abbate: Benigni continua a travalicare, da guitto che tal rimane

19 Dicembre 2012

Mario Scaffidi Abbate

 

A Roberto Benigni

(suonetto)

 

Finita la Commedia, ora, Benigni,
ci vai spiegando la Costituzione.
Con quei tuoi versi e quei tuoi gesti insigni
tu sembri il re della televisione.
 
Ma quando con accenti aspri e maligni
vai denigrando guasti la lezione.
La cattiveria in te sembra che alligni.
Smettila, su, con questa fissazione,
 
resta quel guitto che sei sempre stato!
Coi tuoi gesti scomposti e con quel tono
enfatico non rendi più pregiato
 
un nobile soggetto. Statti buono:
su certi temi non perderci il fiato.
Torna al tuo posto e chiedici perdono.
 
Mario Scaffidi Abbate
18.12.2012

 

La Costituzione italiana ha bisogno di un ricostituente

 

Visto che Roberto Benigni sta facendo l’elogio della Costituzione italiana, definita la più bella del mondo, senza toglierle il suo alto significato e il suo valore politico e morale, vorrei indicarne alcuni errori o difetti, formali e sostanziali.
Premesso che la Costituzione di un popolo dev’essere la voce del popolo, non un atto notarile, freddo come un contratto di compravendita, o deve almeno contenere un soffio spirituale che la animi e la sorregga, e che, possibilmente, faccia commuovere e inorgoglire gli animi (non bastano a tale scopo le gesticolazioni e il tono enfatico di un attore, comico o drammatico che sia), mi permetto di fare alcune osservazioni.
Nella nostra Costituzione la parola Italia ricorre solo due volte: nell’art. 1 (“L’Italia è una Repubblica”, dove repubblica richiedeva la r minuscola) e nell’art. 11 (“L’Italia ripudia la guerra”). Anche la parola Nazione ricorre due volte (articoli 9 e 67), mentre la parola Patria compare una sola volta (art. 52). Lo Stato compare 6 volte. Per il resto dilaga la Repubblica. La quale, oltre che nell’art. 1, fa la sua comparsa nelle seguenti espressioni: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili” (2); “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro” (4); “La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali” (5); “La Repubblica tutela  le minoranze linguistiche” (6); “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura” (9); “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano, verde, bianco e rosso” (12), dove sarebbe stato più corretto dire: “La bandiera della repubblica italiana è il tricolore verde, bianco e rosso”. La parola segue poi negli articoli 29, 31, 32, 35, 37, 45, 47, sino all’articolo 114 e fra le disposizioni transitorie e finali (IX).
Ma vi sono alcuni punti deboli proprio in quello che dovrebbe essere il fondamento della Costituzione, cioè nella frase “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Primo: non è l’Italia ad essere una repubblica, è lo Stato italiano: l’Italia, infatti, può essere una “nazione”, il “bel paese”, “un’espressione geografica” (come ebbe a definirla Metternich), ma “l’Italia è una repubblica” non è frase corretta. Secondo: anche l’espressione che segue, “fondata sul lavoro”, non è esatta, per diversi motivi: primo, perché dire che la repubblica italiana è fondata sul lavoro significa che tutti gli italiani sono tout court un popolo di lavoratori; secondo, perché, stando a quell’espressione (alquanto frettolosa, generica e sbrigativa, oltre che ammiccante), la repubblica italiana più che sul lavoro sembrerebbe fondata sulla discriminazione: chi non lavora, infatti, dove lo mettiamo? L’espressione, dunque, è generica e giuridicamente priva di valore. Per non dire che più che sul lavoro la repubblica doveva essere fondata su altre cose, sugli ideali e sul sangue di chi, quella repubblica, l’aveva sognata, lottando per la sua realizzazione e provocando la caduta della monarchia. Nessun accenno, infatti, all’origine della repubblica. La natura repubblicana dello Stato italiano discende da un referendum popolare, e perciò l’Assemblea Costituente non aveva il potere di decidere sulla forma repubblicana (dello Stato italiano). Non è una questione da poco. In definitiva l’espressione corretta dell’art. 1 sarebbe stata: “Lo Stato italiano è una repubblica democratica la cui sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Dopo, semmai, si poteva accennare al lavoro. Il quale, se da un lato è riconosciuto come un diritto, dall’altro è imposto come un dovere, visto che in uno stesso articolo (4), dopo aver definito il lavoro un “diritto”, la Carta dice che “ogni cittadino (ogni?) ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Da ciò si ricava che un cittadino italiano non è libero di non lavorare. Il lavoro è il fulcro intorno al quale ruota la repubblica italiana, anche sotto il profilo lessicale, visto che il “lavoro”, i “lavoratori” e le “lavoratrici” (quasi sempre in compagnia dei loro sacrosanti diritti) compaiono una quindicina di volte. E ciò rafforza il detto che “chi non lavora non mangia”.  
Sono tante nella nostra Costituzione le incertezze semantiche relative a termini di grande spessore concettuale, come “Stato”, “sovranità”, “popolo”: il rapporto, cioè, fra sovranità del popolo e sovranità dello Stato. La Costituzione, infatti, se da un lato proclama solennemente la sovranità popolare (art. 1), dall’altro, in due articoli, rispettivamente il 7 e l’11 (anch’essi inclusi fra i princìpi fondamentali), sembra riferirsi alla sovranità dello Stato, dove (art. 7) sottolinea la sovranità dello Stato e della Chiesa (“nel proprio ordine”), e dove (art. 11), parlando di “limitazioni di sovranità”, individua come soggetto di quest’ultima lo Stato italiano. Si tratta insomma di capire se nella nascente “repubblica democratica” il vecchio principio assoluto della sovranità dello Stato sia stato superato dalla sovranità del popolo, o se le due sovranità coesistano.
E veniamo all’art. 3, oggi tanto citato e decantato, il quale così recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ebbene, Norberto Bobbio, non un cittadino qualunque, a questo proposito osservò: “Eguaglianza tra chi? Eguaglianza rispetto a che cosa?”. Anche questo è un punto da chiarire. E non finisce qui.
 
“Una Costituzione, e massime una Costituzione rigida, dev’essere niente altro che un complesso di specifiche garanzie giuridiche degli individui e dei gruppi, oltre che un sistema di organizzazione dei pubblici poteri. In un tale documento ogni parola che non abbia un significato giuridico, e cioè una efficacia imperativa e organizzativa palese, è sempre nociva, non foss’altro perché getta una luce di incertezza sull’intero documento e allarga a dismisura, pericolosamente, le possibilità dell’interprete. Se le condizioni non sono mature perché a una esigenza si possa corrispondere con concrete garanzie, meglio non occuparsene nella Costituzione, che non deve essere una antologia di buoni propositi, ma la spina dorsale di un concreto ordinamento giuridico”.
Giuseppe Maranini, costituzionalista