Il crollo dell’edilizia e le responsabilità politiche

04 Gennaio 2012

Mino Mini

 

UN PIANO INAPPLICABILE HA DETERMINATO IL CROLLO DELL’EDILIZIA, LA CRISI FINANZIARIA HA DATO POI IL COLPO DI GRAZIA

Le incapacità amministrative che hanno fatto seguito  alle diverse redazioni normative nazionali e regionali, spesso apertemente peggiorative, hanno determinato il crollo di un settore portante dell’economia nazionale e delgi investimenti sociali. – Colpiti in particolare i ceti deboli e l’edilizia pubblica abitativa. – Un quadro a dir poco desolante sul piano umano e su quello della vitalità delle aziende delle  professioni  e dei mestieri del settore, che sul piano politico ed etico scade in un cinismo spietato e in uno squallore assoluto.

 

 

 

 

 

 

Nel giugno 2008, il governo Berlusconi esordì promulgando un decreto legge – il D.L. 112/2008 – che recava disposizioni urgenti per lo sviluppo economico tra i quali l’ormai famoso Piano Casa. Non è di troppo ricordare che questo Piano si proponeva di “ … superare in maniera organica il disagio sociale e il degrado urbano derivante dai fenomeni di alta tensione abitativa… “. Aveva, come primo concreto obiettivo strategico, l’incremento del patrimonio ad uso abitativo nella forma di edilizia residenziale destinata prioritariamente a prima casa per le “ … categorie sociali svantaggiate nell’accesso al libero mercato degli alloggi in locazione”.
Come vide la luce visse di vita grama. Nell’intervallo fra la emanazione e la conversione in legge 6 agosto 2008 n.133 le lobby dei costruttori ed i centri di potere delle regioni riuscirono a snaturare, nella sostanza, il fine originario del decreto legge: “ il disagio sociale e il degrado urbano” furono immediatamente “debellate” trasformandole in “ … pieno sviluppo della persona umana” e le “categorie sociali svantaggiate” scomparvero del tutto miracolate dalla nuova versione data dalla legge.
Poi arrivarono le regioni che, per parte loro, tradussero in leggi regionali tale Piano Casa burocratizzandone, sulla carta, l’applicazione per “amministrarne” gli sviluppi e ottenendo di nullificare gli obiettivi che il governo si era proposto: – lo sviluppo economico facendo leva, keynesianamente, sull’edilizia; – la semplificazione attuativa contro la burocratizzazione; – la stabilizzazione della finanza pubblica.
Alla fine, il risultato – com’era da aspettarsi – si è concretizzato nella scomparsa del 54% delle imprese operanti nell’edilizia e con il mercato immobiliare in caduta libera. La proprietà edilizia è in fase di grande rivolgimento a causa della impossibilità, per molti proprietari, di far fronte alle rate di mutuo mentre Equitalia imperversa mirando ad espropriare i cittadini con il pignorare la loro abitazione non solo per il mancato pagamento delle tasse, ma anche per il ritardo, anche minimo, nel pagamento delle stesse. Il tutto con grande soddisfazione del “Racket dei fallimenti” di cui ha scritto Antonella Morsello su Il Borghese di novembre scorso messo in atto da “magistrati collusi con banche, finanziarie, usurai, speculatori, partiti e criminalità organizzata”.
Insomma, l’eccesso di pulci e zecche sta ammazzando il cane. Tenuto alla catena dall’agenzia delle entrate, ha dovuto sorbirsi il lavaggio del cervello con lo spot del parassita: “chi vive a spese degli altri danneggia tutti”. Giustappunto!
Poiché le categorie sociali svantaggiate persistono al di là della negazione implicita nel testo della L. n.133/2008 – anzi si stanno ampliando – ed il disagio sociale ed il degrado urbano ci affliggono più che nel 2008, è il caso di rivedere tecnicamente i limiti del Piano Casa soprattutto per ciò che riguarda L’Edilizia Residenziale Sociale – ERS in sigla – nella speranza che qualche compagine politica riprenda in mano questo strumento e lo usi per il fine per il quale fu concepito.
Prendiamo, a paradigma di tutti i Piani regionali, quello della regione Lazio che, nonostante tante polemiche, come concezione è senz’altro uno dei migliori anche in virtù della L.R. n. 38/1999 , la legge urbanistica regionale, che lo supporta . Nato come L.R. n. 21/2009 e integrato nei primi sei articoli con la L.R. n. 10/2011, ha il difetto di non essere stato reso operante per incapacità politica, imprenditoriale, tecnica.
Vediamo di capire come il Piano Casa, nella ipotesi originaria, intendeva raggiungere i suoi obiettivi: operando la riconversione del degradato patrimonio edilizio ed urbanistico esistente, pubblico e privato, premiando gli investitori con quote di accrescimento della capacità riedificatoria. Il Piano Casa del Lazio interpretò tale obiettivo con la definizione dei seguenti interventi:
1. Sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione degli edifici (art.4);
2. Ripristino ambientale (art.7) tramite Programma integrato;
3. Riordino urbano e delle periferie (art.8) tramite Programma integrato;
4. Riqualificazione urbanistica (art.9): comprendente i processi urbanistici di ripristino ambientale , di riordino urbano e delle periferie, di risanamento igienico sanitario e paesaggistico (fenomeni di abusivismo edilizio).
A questi vanno aggiunti altri tipi di intervento quali: il recupero degli edifici esistenti e l’autorecupero.
Perché non è decollato?
Come si evince dalla denominazione degli interventi, lo strumento per attuare il Piano Casa nella potenzialità della riconversione è il Programma integrato. Non è una invenzione del Piano Casa; fu statuito due anni prima della legge urbanistica regionale con L.R. n.22/’97, attuazione dell’art.16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 Norme per l’edilizia residenziale pubblica, emanata dallo Stato. All’art. 2 viene definito come “un progetto operativo complesso, di interesse pubblico, con rilevante valenza urbanistica ed edilizia, ed è caratterizzato dalla pluralità di funzioni … omissis … e da dimensioni tali da incidere sulla riorganizzazione del tessuto urbano”.
In quanto “progetto operativo complesso”, esso necessitava e necessita tuttora di competenze professionali di livello elevato, nonché di capacità imprenditoriali superiori rispetto a quelle che entrano in gioco nella consueta pratica speculativa. Una volta messo a punto, il progetto complesso necessita dell’approvazione comunale e ciò comporta la necessità di “contrattare” con il potere politico locale l’approvazione del Programma. Ebbene, provate a pensare cosa tutto ciò implichi in termini di investimento iniziale, prima ancora che si aprano i cantieri: gli studi preliminari complessi hanno un costo non indifferente; a questi si aggiungono i costi di progettazione definitiva per individuare l’entità delle opere ed il loro costo, quelli per la pianificazione finanziaria necessaria al reperimento delle risorse, i costi di consulenza legale per la soluzione dei problemi connessi al trasferimento degli abitanti, i costi per la “contrattazione” politica etc.etc.
Detto ciò, viene da domandarsi: quale imprenditore ha la capacità di far confluire risorse per la redazione del Programma integrato e le capacità organizzative per attuarlo? Quale amministrazione comunale ha la capacità di promuovere e supportare politicamente un progetto complesso senza lasciarsi allettare dalla possibilità di imporre balzelli impropri? Quale struttura tecnica pubblica ,cui spetta il giudizio sul Programma, ha la capacità di comprenderne tutti gli aspetti di valenza urbanistica ed edilizia che vanno ben al di là della banale applicazione degli indici e degli standard che avevano, in precedenza, portato alla realizzazione dell’esistente?
Come si evince dai quesiti formulati, il problema della realizzazione del Piano Casa è soprattutto di capacità.
E’ dal 1992 – venti anni fà – che si tenta di risolvere il problema dell’Edilizia residenziale pubblica senza conseguire risultati degni di un qualche rilievo e la legge regionale del Piano Casa non sembra portare verso un qualche risultato. Eppure, alla base della stessa vi sono principi fondamentali interessanti primo dei quali quello di evitare la formazione di nuovi ghetti tipo ex legge n. 167/62 e quello di evitare la distruzione del territorio agricolo produttivo con nuovi insediamenti. Infatti, la nuova edificazione di Edilizia Residenziale Sociale, secondo il Piano Casa, può avvenire solo all’interno delle zone di espansione già previste dagli strumenti urbanistici – le zone C – mediante cessione di quota parte dei terreni a questo scopo senza perdere, in quantità, nei diritti edificatorii .
Ma il limite di applicazione di questo principio fondamentale è politico: sta, infatti, nella necessità di procedere a varianti generali degli strumenti urbanistici vigenti ed a ciò si oppongono gli speculatori e quei politici che sulla speculazione campano. Vi sono , invece , notevoli possibilità nel caso dei diversi tipi d’intervento di cui abbiamo detto più sopra, ma occorre un “ salto di scala” che richiede la partecipazione di forze politiche di nuovo conio in grado di innovare il processo di realizzazione dell’ERS. Forze politiche in grado di operare non già con gli imprenditori, né con i tecnoburocrati, ma con i fruitori dell’edilizia residenziale sociale per portarli a realizzare , in prima persona, la loro casa.