Il rapido disfacimento del quadro politico paralizza il Paese
Non è mai accaduto che il quadro politico uscito dalle urne subisse, in un lasso di tempo così esiguo, appena otto mesi, un tale consistente disfacimento. Ci riferiamo ai movimenti, alle rotture, ai conflitti, alle separazioni che stanno scuotendo nel profondo i partiti e, di conseguenza, i gruppi parlamentari che ne sono espressione. Mario Monti abbandona il partito che aveva fondato. Se ne va sbattendo la porta e lanciando anatemi contro coloro (Mauro e Casini) che, con raffinata eleganza, definisce “specialisti dello slalom politico”. Ossia, gente ambigua, pronta ad ogni compromesso pur di stare nelle stanze del potere, democristiani impenitenti che sognano il ritorno della Balena Bianca, sia pure in versione riveduta e corretta; politici che non si fanno scrupoli, secondo le migliori tradizioni del passato, di traslocare dalla sinistra alla destra, e viceversa, secondo una visione”pendolocentrica” della politica, dove il centro è tutt’altro che immobile e statico. In casa grillina, i dissapori crescenti verso il combinato disposto di una leadership duale, quale quella del comico genovese e del guru Casaleggio, hanno prodotto le prime falle nei gruppi parlamentari, con la fuoriuscita di alcuni senatori e deputati. Nel Pd, con l’avvicinarsi del congresso, i venti di rottura sembrano placarsi. Ma è solo apparenza. Nonostante gli sforzi di Epifani per mantenere unito il partito democratico, il fuoco cova sotto la cenere. E’ un fuoco che rischia di incendiare la casa nel momento topico in cui ,anche lì, bisognerà farsi una ragione della difficile inconciliabilità della idea di sostenere il governo Letta-Alfano, e una manovra finanziaria debole e poco consistente, con l’ansia di rinnovamento che anima i renziani (almeno a parole). Quanto al Pdl, i segnali di tregua nella lotta interna tra “lealisti” e “governativi”- espressioni, entrambe, edulcorate della non sopita guerra tra falchi e colombe – non debbono ingannare. Tutto dipende da dove poggerà l’indice il Cavaliere, quando i tempi della decisione si faranno stretti e non più rinviabili. Se cliccherà sul tasto della rottura, il Pdl si spaccherà inesorabilmente. Non è escluso che accada lo stesso,nel caso inverso. Peraltro, lo stato di attesa e di sospensione che si respira nel corpo vivo del Pdl ,in attesa delle decisioni finali, rischia di esporre il partito ad un costante logoramento. Con l’effetto che i due poli in conflitto (Alfano e Fitto, per semplificare) si avvicinino in apparenza, ma si allontanino ancor più nella sostanza. Insomma, il quadro politico, come si vede, è sottoposto ad una fibrillazione continua. Si va , inesorabilmente, disfacendo. Certo, a una decomposizione, in alcuni parti già in essere (Scelta Civica e Movimento Cinquestelle), segue sempre una ricomposizione. In un certo senso, anche alla politica si applicano le leggi della fisica. Quel che colpisce, però, è il fatto che tutto accada, come dicevamo, in un lasso di tempo così breve (otto mesi dalle elezioni) e senza un minimo di spessore culturale e di pensiero politico che giustifichino e diano una dimensione alta, nobile a siffatte rotture e separazioni. Nel migliore dei casi, tutto si gioca sul piano della tattica, con lo sguardo breve di una visione accartocciata sugli interessi immediati e le opportunità contingenti da cogliere. Nel peggiore dei casi, si risolve nel personalismo becero e rancoroso di cui molti dei protagonisti citati non si fanno scrupolo di nascondere. Il senso di disfacimento nasce proprio da qui, da questo piattume indigesto e mellifluo cui è ridotta la democrazia nel nostro Paese. Parlare di Riforme, a partire da quella elettorale, ci sembra ormai ripetere un ritornello. Tutti le giudicano indispensabili. Poco o nulla si fa per realizzarle. Intanto, la situazione generale del Paese non migliora affatto. E il governo che fa? Secondo Giavazzi, stiamo ormai entrando nella spirale di un nuovo statalismo. L’ operazione del governo Letta per il controllo di Ansaldo Energia, quella su Telecom Italia, l’intervento delle Poste nella faccenda Alitalia, configurano una politica neo-protezionista. Sostenuta, indifferentemente, dalla destra e dalla sinistra. Solo che, osserva acutamente Panebianco, toccherebbe alla destra difendere il mercato dalle pulsioni stataliste che hanno sempre fatto parte del bagaglio culturale e politico della sinistra. Il ragionamento di Panebianco, va detto, è più ampio di quanto qui in breve riportato e merita commenti ben più meditati e profondi. Se ha ragione nel denunciare la gabbia del “pensiero unico”, che sta portando alla rarefazione di ogni ipotesi di alternanza politica basata su opzioni culturali differenti, ben chiare e definite, è altresì vero che le logiche del mercato globale, unite alle debolezze congenite del capitalismo nostrano, mettono a repentaglio fattori industriali strategici per il nostro Paese. Né si può dire che Francia e Germania oppure gli stessi Stati Uniti, patria del liberismo, abbiano sempre adottato politiche aperte e non protezionistiche a difesa dei loro interessi. Per differenziarsi davvero dalla sinistra, oggi la destra dovrebbe perlomeno qualificare la sua posizione politica-economica con le caratteristiche tipiche della economia sociale di mercato. “Si perde la libertà politica e culturale se si perde la libertà economica e viceversa”, diceva Sturzo. Lo diceva, però, in disaccordo con la distinzione crociana tra liberismo e liberalismo e in sintonia con la prospettiva unitaria di Ròpke, Einaudi e Hayek. Sturzo, al pari degli ordoliberali, non nega che in caso di necessità lo stato debba intervenire, ma circoscrive tali casi a situazioni di “emergenza” e in via secondaria e sussidiaria. Qui non si capiscono, invece, né i limiti di tempo né a quali condizioni lo Stato possa intervenire.