Mini: il pensiero moderno e la fallacia delle teorie della “libertà”

13 Novembre 2013

Mino Mini

 

 

 

 

 

Libertà : trecentosettantuno anni di un’ illusione

 

 

 

 

 

Agli albori della modernità, Thomas Hobbes (1588-1679), nel suo De Cive,IX, 9 (1642) definì la libertà come <<assenza di ogni impedimento al moto>>: ognuno cioè <<gode di una maggiore o minore libertà secondo l’ampiezza dello spazio di cui dispone per muoversi>>. Hobbes era un meccanicista, ovvero concepiva il mondo come una macchina, per cui la sua definizione rispecchiava il teorema della fisica secondo il quale, al di là di un punto critico i gradi di libertà delle molecole di un gas in un contenitore chiuso diminuiscono con l’aumento delle stesse. Più di trecento anni dopo Frank Herbert, nel suo celebre romanzo Dune, affermò che lo stesso avviene per l’uomo all’interno di un ecosistema finito.
 
Trasponiamo il concetto ai nostri tempi: in un contenitore chiuso, in un ecosistema finito come la Terra, 7 miliardi di abitanti occupano tutto lo spazio disponibile nel pianeta distribuendosi in 46,6ab. /kmq; in una tale condizione i gradi di libertà di cui gli uomini possono godere sono inferiori a quelli di cui godevano i contemporanei di Hobbes che, nello spazio allora effettivamente occupato al netto dei territori ancora non scoperti, vi insistevano con appena 12,5 ab/kmq. Viene, allora, da pensare: se in presenza di una così felice condizione del suo tempo, Hobbes ritenne essere necessario superare lo stato di natura dove vige la guerra di ogni uomo contro tutti gli altri uomini – Homo homini lupus – creando meccanicisticamente lo Stato-Leviatano, cosa avrebbe creato in presenza dell’attuale condizione di sovraffollamento ? In quali “elementi ultimi” avrebbe scomposto la realtà per ricomporla meccanicisticamente in una unità razionale?
Non si tratta di domande retoriche posto che sul meccanicismo hobbesiano-cartesiano si basa tutta la civiltà cosiddetta occidentale. Con il suo Leviatano, al quale avrebbero dovuto essere conferiti tutti i poteri e tutti i diritti dello stato di natura , tranne il diritto alla vita, allo scopo di ridurre la pluralità delle volontà dei singoli ad una volontà unica, Hobbes ha lasciato il modello sul quale si è venuto configurando il Leviatano mondialista a base democratica. Solo che quest’ultimo si va sempre più configurando come uno stato privo di uomini e formato da mutanti sulla via di raggiungere quella condizione paventata da Erich Fromm in Psicanalisi della società contemporanea : << Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che diventino robot >>.
 
Stiamo esagerando? Ragioniamo: al tempo degli uomini, quelli che “costruivano il mondo”: la libertà era intesa come << lo stato in cui un soggetto può agire senza costrizioni o impedimenti e possedendo la capacità di determinarsi secondo una autonoma scelta dei fini e dei mezzi adatti a conseguirli>> . A fronte di una simile definizione, si poneva il quesito relativo all’identità del “soggetto agente”. La tradizione lo individuava nello Stato (la Polis) concepito come un organismo che era più della somma dei singoli componenti; di questi acquisiva tutti i caratteri, ma nel processo di sintesi unitaria assumeva, ad un altro livello, caratteri propri che i singoli non possedevano. Concepiva, quindi, il singolo come individuo ovvero un organismo compiuto dotato di autonomia decisionale e di finalità da perseguire nell’ambito della propria sfera d’azione. La modernità generatrice della mutazione dell’uomo, invece, che si opponeva ad una concezione organica, concepì il soggetto solo come individuo e quindi la libertà come stato individuale all’interno di una società meccanicistica costituita dalla somma di più individui uniti da un contratto sociale. J. Locke (1632-1704) ne fu il teorico che postulò dovesse, la legge naturale, tradursi in legge sociale secondo il principio liberale di non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a sé. Ne scaturì la deriva intellettuale dell’individualismo come lo definì, nel secolo XVIII, Alexis De Toqueville rilevandolo come caratterizzante la società democratica americana (La democrazia in America): atteggiamento fondamentalmente autointeressato, antisociale, e antisolidaristico.
 
Non staremo a rifare la storia delle due rivoluzioni, agricola e industriale, che mediante la tecnica forgiarono il mutante di prima e seconda generazione, il proletario, né quella della divisione in classi contrapposte che portò alla concezione della libertà secondo K. Marx : un processo di liberazione economica, politica, e sociale il cui fine era quello di affrancare l’uomo dalla “schiavitù del bisogno” della guerra, della lotta di classe, consentendo a ciascuno una concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Una concezione che, nonostante le intenzioni, si risolse in una visione economicistica della realtà contrapposta all’altra visione, parimenti economicistica, del capitale . Quel che qui interessa è rilevare se la definizione di libertà che fu del mondo degli uomini, può avere cittadinanza nel mondo dei mutanti figli della modernità costretti a vivere in un regime democratico di stampo anglosassone con le limitazioni imposte da una popolazione di 7 miliardi costipata in un “contenitore chiuso”.
La società contemporanea, quella retta dal contratto sociale, è sostanzialmente contraria all’ affrancamento dei suoi contraenti/cittadini dalla “schiavitù del bisogno”; al contrario basa la propria sopravvivenza economica essenzialmente sulla creazione di bisogni indotti e prodiga ogni risorsa mediatica per condizionare, anche a livello subliminale, la coscienza del mutante-cittadino verso il fine del soddisfacimento. Rientrano nella categoria del “bisogno indotto” i beni materiali e immateriali ma soprattutto i fenomeni di creazione mediatica quali i cantanti, gli sportivi, gli attori, i politici etc. etc . Il mutante è, sostanzialmente un cyborg. Oltre ad una esistenza biologica da cui dipende per diretta ascendenza dall’uomo, vive una vita artificiale alla quale si sottomette incondizionatamente. Soddisfa il suo bisogno di energia dalle prese di corrente, dalla chiavetta del gas, dalle pompe di carburante; soddisfa il suo bisogno di relazione con i suoi simili attraverso uno schermo – il telefono cellulare, il computer, il televisore; soddisfa il suo bisogno di mobilità individuale vestendo un carapace motorizzato su ruote munito, anch’esso , di uno schermo attraverso il quale guarda il mondo immobile.
 
Non si attaglia al moderno mutante lo stato di libertà che era dell’uomo perché nel soddisfacimento del bisogno non si manifesta << la capacità di determinarsi secondo una autonoma scelta dei fini …etc. >> stante che il soddisfacimento del bisogno non è un fine, ma una necessità indotta e la scelta in tal senso non è più autonoma, ma condizionata.
E’ il mutante che si sottomette al servaggio del capitale finanziario non comprendendo la perdita di sovranità e quindi di libertà che questo comporta. E’ il mutante che accetta, senza ribellarsi, di lavorare fino al limite di 237 giorni l’anno per uno stato eterodiretto dal potere finanziario e solo 128 giorni per sé. Anzi, costretto dallo stato di necessità o per libidine di servilismo, brama questa schiavitù per pagarsi vitto, alloggio, servizi di rete. L’ exsistenzminimum – il minimo esistenziale- fatte le debite proporzioni, che al tempo di Roma antica, il padrone avrebbe dovuto, per legge, garantire allo schiavo. E’ ancora il mutante che accetta il regime imposto dalle varie caste: dalla burocrazia vessatrice che degenera nel tecnicismo ed assoggetta i cittadini a vivere per i servizi anziché approntare i servizi per i cittadini; dalla magistratura che, priva della visione organica del mondo degli uomini che concepiva la giustizia (dike) come armonia civile, degenera nell’arbitrarietà dei giudizi ideologici e cancella il principio della certezza del diritto; dai professionisti della politica emungitori e dilapidatori di risorse etc. etc.
 
Infine, è il mutante , l’individuo esaltato dalla modernità come monade componente, per sommatoria, della società contemporanea che, paradossalmente, si assoggetta alla perdita della più alta forma di libertà: l’identità.
Ciò che caratterizza l’identità di un popolo e di un individuo organico è la lingua. Infatti è tramite questa che l’individuo costruisce la propria mente, ovvero prende coscienza di sé nel mondo reale definendolo in enunciati che connette in proposizioni secondo l’articolazione del proprio linguaggio. Nasce, con questa presa di coscienza, il primo carattere individuale. Ogni lingua, infatti, è caratterizzata da una propria logica e guida la mente di chi si esprime e cogita, conferendo ai risultati del pensare una prima e particolare identità concettuale. (Siamo italiani perché pensiamo italiano). Ed ogni forma, ogni modo di connettere gli aspetti diversi del reale per trarne una sintesi conoscitiva ed espressiva,reca invariabilmente lo stampo della lingua adottata. Più organica è la form,a più assume valore universale. Rinunciare, per scelta o per condizionamento, alla propria lingua – come sta accadendo – significa rinunciare alla propria identità. Parlare una o più lingue per ragioni strumentali di comunicazione è certamente positivo ed apre alla comprensione dell’altro, ma non equivale a pensare come l’altro; non crea forme , accetta strumentalmente quelle altrui.
Potremmo disquisire a lungo arrivando a mostrare come il destino del mutante, rinchiuso nella gabbia dell’individualismo che non consente alcuna evoluzione al di là dell’essere unità indifferenziata all’interno di una sommatoria , sia quello di uniformarsi ad uno standard determinato da chi deve regolare i limitatissimi gradi di libertà dei 7 miliardi di abitanti del pianeta.
A questo punto occorrerebbe reinterrogarsi sul significato di libertà, ma non c’è più spazio per una lunga dissertazione. Partiamo apoditticamente dal fallimento, in tema di libertà, di una modernità ormai vecchia di secoli e formuliamo un auspicio: riconquistiamo il significato originario di libertà . Ma attenzione: è inutile tentare di “ raddrizzare le gambe ai cani” riportando il mutante alla condizione dell’ uomo antico. Occorre, piuttosto, riformulare in maniera più adeguata il concetto antico del valore della libertà in termini espressivi che siano più organici. Uomini non si nasce, si diventa: partiamo da quì per superare la costrizione dell’umanità ridotta a cyborg, a prodotto della tecnica, per recuperare il sogno dell’uomo nuovo, mondato dai caratteri che le visioni ideologiche vollero imprimergli fallendo nel tentativo.
L’uomo nuovo è l’ uomo organico, maturato dall’esperienza vissuta come mutante, colui che va oltre l’essenza del borghese proletarizzato, dell’homo oeconomicus appiattito su un’unica dimensione, capace di liberarsi del ressentiment,il risentimento proprio del proletario moralmente indigente e irresponsabile.
Nasce, prima di tutto, dentro di noi, in una dimensione dello spirito dove non ha bisogno di esprimersi come libertà da vincoli imposti dal mondo per tuffarsi nel nulla possibilistico del libitum, ma come esigenza di libertà per un destino creatore proteso verso un orizzonte. E’ l’uomo che trovandosi davanti al baratro del nihil è capace di compiere il salto per ricadere dove già è – come dice Heidegger – purificato del vecchio modo di pensare avendo acquisito una diversa visione del mondo. Una capacità più vasta e diversa di conoscenza della realtà perché vista con occhi nuovi o diversi.
E’ questo diverso modo di pensare la realtà, l’essere nel mondo come apertura ad esso per abitarvi ed averne cura (il Dasein heideggeriano), per continuare il processo della sua creazione come continua e rinnovata opera d’arte, che costituisce la rigenerazione profonda, l’aspetto aurorale, il principio che alimenta e illumina la vita.